D I S C R I M E N

 

 

SUPREMUM CERTAMEN

 

 

 

 

INDICE

  

VENUS NOSTRA – VINALIA PRIORA – CALPAR – IL SALUTO ROMANO – IL SISTRO E IL FLAUTO

 

 

  

 

V E N U S    N O S T R A

 

 

Quisquis amore tenetur,eat tutusque sacerque

Qualibet: insidias non timuisse decet. (Tibullo)

 

 

     Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende…(Dante)

 

   Apelle di Cos intorno alla 112ma Olimpiade superò tutti gli artisti nati prima e quelli che sarebbero venuti dopo. […]

   Venerem exeuntem e mari divus Augustus dicavit in delubro patris Caesaris, quae anadyomene vocatur, versibus graecis tantopere dum laudatur, aevis victa, sed inlustrata. Cuius inferiorem partem corruptam qui reficeret non potuit reperiri, verum ipsa iniuria cessit in gloriam artificis. Consenuit haec tabula carie, aliamque pro ea substituit Nero in principato suo Dorothei manu. […]

   Apelles inchoaverat et aliam Venerem Coi, superaturus etiam illam suam priorem. Invidit mors peracta parte, nec qui succederet operi ad praescripta lineamenta inventus est

   La Venere anadyomene, che Augusto, vindice della spiritualità romano-aria, come ci narra Plinio il Vecchio consacrò nel tempio di Cesare, era stata dipinta dal famoso pittore Apelle, che fu alla corte di Filippo di Macedonia e poi di Alessandro. Questo meraviglioso dipinto di una Venere che esce dal mare era stato elogiato dai poeti greci, ma aveva subito l’ingiuria del tempo. Soprattutto la parte inferiore era stata danneggiata, ma non fu possibile trovare artista capace di misurarsi con il pennello di Apelle e questo si mutò in sua gloria. Ai tempi di Nerone il quadro era interamente danneggiato e il principe lo sostituì con un altro di mano di Doroteo. Ancor Plinio tramanda la fama di un’altra Venere di Cos iniziata da Apelle, che stava per superare quella sua precedente. Realizzata una parte, la morte impedì all’artista di completarla, né fu possibile trovare chi vi si cimentasse.

   Apelle visse nel IV secolo a.e.v. e quindi partecipava dell’esperienza greca del divino, così come essa andava ad agire in quei tempi lontani nella profondità della psiche umana. Lo studioso francese J. P. Vernant   faceva appunto notare che “le divinità greche non sono persone con una propria identità, come gli umani, quanto piuttosto potenze che nell’agire assumono forme poliedriche e segni, esse non identificandosi mai del tutto con quelle manifestazioni. Potenze che W.F.Otto, nel suo studio Gli dei della Grecia, scriveva essere il motore del mondo.”

   In tempi a noi più vicini altri artisti si son cimentati a dipingere la Venere che esce dalle acque. Famosa la Nascita di Venere di Sandro Botticelli (‘400), Tiziano e Bronzino (‘500), e ancor più vicini, nell’ ottocento i francesi W.A. Bouguereau, J.A. Ingres ed altri. Opere indubbiamente mirabili, eleganti “immaginazioni” di moderni artisti, mero naturalismo; ma la divina anadyomene, nascente dalle mitiche acque, scaturita da un’intimità profonda, quindi da entusiasmo ideativo e alfine resa visibile dalla mano celebrata di Apelle, quella Venere, ammirata dall’ occhio perspicace di Ottaviano Augusto, non fu concessa ai profani posteri, ad occhi profanatori.

   Copiosa la statuaria che ha rappresentato la greca Afrodite e la romana Venere. Dall’Afrodite Cnidia, 360 circa a.e.v., di Prassitele alla famosa posteriore Venere di Milo attribuita ad Alessandro di Antiochia, 130 circa, e ritenuta un raro originale superstite dell’arte greca; quest’ultima, la cui scoperta avvenne solo nell’aprile 1820, furò l’ideale della bellezza femminile antica, così agli occhi dei moderni, alla simbolica bellezza della Venere Capitolina, risalente al II secolo a.e.v. e di ignoto autore. Famose anche la Venere di Capua, copia Romana da Lisippo, 100 a.e.v. e la Venere de’ Medici di Cleomene scultore di età ellenistica. Ricordiamo, per inciso, anche la neoclassica scultura del nostro Canova: la Venere Italica.

   Soprattutto, però, ci interessa ricordare una statua non comune e più antica di quelle sopra elencate; l’originale era stato fuso anche nel bronzo dallo scultore Calamide, 460 circa avanti questa era. Dell’ Afrodite Sosandra, salvatrice degli uomini, a noi è giunta una copia romana in marmo del II secolo a.e.v.; è nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La Sosandra è rappresentata tutta avvolta, compreso il capo, in un manto fino ai piedi, dove si scorgono le pieghe della sottoveste di seta e i calzari. L’opera di Calamide era considerata già nell’antichità esempio di “stile severo”; colpisce la compostezza della figura tutta, resa con grande efficacia nei lineamenti del viso significanti una tranquilla, concentrata intimità. Calamide riuscì, con l’arte del suo scalpello, a trasmettere un divino senso di elevatezza e di purezza. Le forme corporee scompaiono; il viso, il palmo della mano sinistra aperto, le sole dita dei piedi nei calzari: simboli, non tracce, non appariscenze anatomiche. L’avampiede, le dita significano l’incessus, l’incedere, l’avanzare, il procedere: l’attivo muoversi nell’immobilità assoluta, l’aristotelico motore immobile; il palmo della mano aperto significa il donare senza ricompensa; il volto con il capo coperto, esprimente la maestà d’un sublime immutabile, simboleggia la luce della mente senza macchia, l’intelletto d’amore, la fiamma che non brucia. Quella figura, catafratta dal severo panneggio, colta nell’ immoto suo agire rappresenta il motore del mondo. Sappiamo che le Muse, protettrici delle arti, non muovono l’estro creativo del dipintore e dello scultore; le Olimpiche prediligono tutte la danza, il canto, la musica; ma se l’artista manuale è pervaso da un alto sentire e il suo animo e la sua mente sono mosse da puro impersonale ‘entusiasmo’, allora, da quell’animo traboccando l’ispirazione immaginativa, l’ideare, l’immagine trasfusa nella materia s’india; questo fu possibile in quell’ antichità e in personalità eccellenti; fu così per Apelle, così per Calamide.

 

*

 

   Nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro si narra che Zeus, sposo di Era, ebbe da Dione, una delle Titanidi, la figlia Afrodite. Omero invece raccontava che Zeus aveva sposato Dione e da quelle nozze era nata Afrodite; Virgilio raccolse la leggenda omerica e chiama la dea con l’epiteto di Dionea.  Questa era una genealogia della dea Afrodite, ma un’altra altrettanto antica la si trova nella Teogonia di Esiodo, che vuole sia nata da Urano, il cielo; Afrodite emerse dalla spuma aphroghenèia prodotta dal seme fuoriuscito dall’organo genitale evirato di Urano e gettato da Crono nel mare:

 

E qui dal mare uscì la Dea veneranda, la bella;

Ed erba sotto i piedi suoi morbidi crebbe; e Afrodite

La chiamarono gli Dei, la chiamarono gli uomini: ch’ella

Fu dalla spuma nutrita; Ciprigna anche è detta, da Cipro

Ov’ella anche approdò; Citerea perché giacque a Citera;

E Geniale perché dalle membra balzò genitali.

Compagno Amor le fu, la seguì Desiderio leggiadro,

Quando ella prima nacque, dei Numi avanzò fra l’accolta.

Esiodo, trad. E. Romagnoli

 

   La dea Afrogenea, Afrodite, nacque quindi dal seme celeste fecondante le acque; il seme primordiale che impregnava le acque primordiali. Il mito nasconde… È il seme di Urano, il cielo stellato, che s’è sparso nel mare, candida spuma sulla cresta delle onde, dacché Gaia ha armato la mano di Crono, suo figlio, d’un adamantino falcetto e il figlio non ha esitato ad evirare il padre e a gettarne nel mare il membro virile, perché così ha voluto Gaia, per sviscerato amore dei figli non essere più una unicità, una sola natura divina con il cielo. Il mito nasconde, e pur svela. Ora nuove generazioni saranno… di Dei e di Dee, e generazioni dissimili di uomini, maschi e femmine, che dovranno ingegnarsi per realizzare sé stessi, onde progredire nella conquista dei cieli. Altri Vati racconteranno che Afrodite nacque da Zeus, l’Olimpico, il quale si unì alla Titanide Dione (cioè la figlia di Tite/Gea); la Citerèa dagli agili piedi avrà per compagni Eros e Desiderio: Eros, la forza generatrice primordiale, l’attrazione che nasce dalla vista della bellezza; Himeros, il desiderio smodato che sorge dall’appetito e dalla brama del possesso.  La dea Ciprigna, Cypria, dovrà da questa età provvedere con l’attrattiva, con il fascino, con il filtro della seduzione ai congiungimenti. Sarà la forza irresistibile che congiunge il maschile e il femminile. Può manifestarsi anche con forte turbamento di mente e d’animo, con eccessi di manìa, di follia; il femmineo impuro, lascivo, che travolge la debolezza e trascina gl’infiacchiti. Questo aspetto probabilmente era molto più presente nella fenicia, orientale Astarte. Le infezioni, si sa, tendono a propagarsi.  Più tardi infatti, a por riparo, interverrà la filosofia… Platone affermerà che erano due le Afrodite.      La prima, quella appunto dei sapienti, nata da Urano, il cielo stellato, era l’Afrodite Urania, la dea dell’amore puro, che non contamina, la domina gentile e onesta, che reca salute, la Sosandra ch’era stata scolpita più di un secolo avanti da Calamide della Beozia, patria di Esiodo, di Epaminonda, del dorico Pindaro. L’altra era l’Afrodite Pandemia, cioè l’Afrodite del popolo, pur essa figlia di Zeus e della Titanide, la dea dell’amore profano, volgare, da contenersi nella legge demetrica e sublimare nell’istituzione del coniugio al fine della procreazione, ed educazione della prole.

     Scrive Varrone nel De Lingua Latina: “Per ciò che concerne ai mesi, i loro nomi son tutti chiari, se li conti da marzo, secondo che li hanno ordinati gli antichi. Il primo è da Marte. Il secondo, Fulvio e Giunio li vogliono da Venere, perché si chiama Aphrodite; ma io, non trovandola nominata in alcuna delle nostre scritture antiche, credo invece che sia detto Aprile per ciò che la primavera apre ogni cosa.” Siamo d’accordo con Varrone. Gli antichi Romani non conoscevano questa denominazione greca della Dea.  Noi siamo spinti a trattare questi miti relativi alla nascita di Afrodite, perché essa, come la narrazione tramanda, amò Anchise e da questa unione tra una immortale e un mortale nacque Enea. Sempre secondo il mito, da Enea e Lavinia, figlia del re Latino ed Amata, nacque Silvio; Enea dalla moglie troiana Creusa aveva generato Iulo Ascanio, questi fondò sui Colli Albani la città di Alba Longa e ne fu il re. Alla sua morte gli succedette il fratello Silvio, capostipite della dinastia Albana e quindi avo del fondatore di Roma.  Nonostante ciò, Varrone ci assicura che nelle scritture latine antiche non è reperibile il nome di Afrodite; e pur Varrone aveva a sua disposizione scritti a noi non pervenuti e ch’egli aveva potuto accuratamente leggere. Qui è opportuno aguzzare davvero l’ingegno per risolvere questo piccolo mistero. Or dunque, voi ben sapete che i miti nascondono e poco o nulla rivelano agli animi pigri. Noi infatti c’imbattiamo ancora in antichi miti e non possiamo assolutamente ignorarli. Siam pervenuti alla soglia d’un racconto che interesserà direttamente ROMA. Il mito dell’eroe Troiano Anchise, cugino di Priamo, e dell’amore della antica Afrogènia per il bellissimo giovane, simile a un dio, che pascolava le mandrie dei buoi sull’Ida, tra le valli della Troade.

  

Diede la vita ad Enea Citerèa dalla vaga corona,

Che con Anchise l’eroe si strinse d’amabile amore

Sopra le vette dell’Ida selvosa, solcata di valli.

 

   Questa notizia succinta è nella Teogonia di Esiodo, ma il mito è narrato per esteso nell’Inno omerico Ad Afrodite, il più antico degl’inni cosiddetti e attribuiti ad epigoni dell’autore dell’Iliade, il quale nel canto II del suo poema al verso 819 ss così tramanda:

 

Enea, nobile figlio d’Anchise, era ai Dàrdani guida.
Lui generato aveva la diva Afrodite ad Anchise,
ad un mortale una Dea, nelle valli selvose de l’Ida.
Solo non era: i due figli moveano d’Antènore seco,
Archèloco e Acamante, spertissimi ad ogni battaglia.

 

   La traduzione è anch’essa del Romagnoli, altrettale quella dell’Inno Ad Afrodite, che riportiamo nella parte narrante l’incontro dell’innamorata Citerèa con l’eroe dardanide e il divino idillio che ne segue:

    


   O Musa, narra a me d’Afrodite, signora di Cipro,
vaga dell’oro, le gesta. Fra i Numi la brama soave
d’amore suscitò, domò dei mortali le stirpi,
e degli uccelli che in aria si librano, e tutte le fiere,
quante la Terra, quante ne nutre l’Ocèano: a tutti
di Citerèa dalla vaga corona son l’opere grate.
     Solo di tre non potè né ingannar né convincere il cuore.
Non della figlia di Giove, d’Atena dagli occhi azzurrini.
L’opere a lei non son grate di Cipride amica dell’oro,
bensì grate le sono di Marte le imprese, le guerre,
le zuffe, le battaglie, le fulgide gesta compiute.
Essa per prima istruì gli artefici industri mortali
a costruire i carri, i cocchi intarsiati di bronzo,
essa nell’opere egregie fe’ sperte le vergini molli,
ché nella casa entrò di ciascuna a ispirarne la mente.
     Neppur la Dea ch’à d’oro le frecce, che gode ai clangori,

Artemide, irretì nell’amor la ridente Afrodite:
ché a lei piacciono gli archi, le cacce di fiere pei monti,
piaccion le cetre, le danze, le grida che giungono al cielo,
piacciono le città dei giusti e gli ombriferi boschi.

Né d’Afrodite piacquer le imprese alla vergine Vesta,
pura, che nacque prima figliuola di Crono l’astuto,
Dea veneranda cui sposa bramaron Posídone e Apollo.
Essa non volle, però, duramente i due Numi respinse;
e grande un giuramento formò, che poi sempre mantenne,
del padre Giove, sire dell'ègida, il capo toccando,
che, Diva fra le Dee, resterebbe mai sempre fanciulla.
E, delle nozze in cambio, le die’ questo dono il Croníde;
che in mezzo essa alla casa sedesse, a ricever l’omento.
Ed essa in tutti i templi dei Numi riscuote gli onori,
e più d’ogni altro Nume la invocano tutti i mortali.
     Di queste tre non può né ingannar né convincere il cuore;
ma nessun altro può mai sfuggire alla Diva Afrodite,
né fra i Beati, né fra gli uomini nati a morire.
Il senno ella sconvolse perfino di Giove tonante.
È sopra tutti Giove possente, e fra tutti onorato;
eppur, qualora volle, la scaltra sua mente illudendo,
agevolmente mischiare lo fece con donne mortali,
d’Era lo rese oblioso, ch'è pur sua sorella e sua sposa,
ch'è la più bella d’aspetto fra tutte le Dive immortali:
Crono la generò, l’astuto, più bella d’ogni altra,
la madre sua fu Rea: signor di pensieri immortali,
Giove la fece sua sposa diletta, pei tanti suoi pregi.

     Eppur, brama soave nel cuore alla stessa Afrodite
infuse Giove, vaga la fe’ d’un amplesso mortale,
ch'essa più a lungo inesperta non fosse del letto d’un uomo,
e non potesse più menar vanto fra tutti i Celesti,
soavemente ridendo, l'amica del riso Afrodite,
ch'essa i Celesti aveva congiunti con donne mortali.

che avean figli mortali concetti agli Dei sempiterni,
che avea le Dee congiunte con gli uomini nati a morire.
Dunque, d’Anchise brama soave le infuse nel cuore,
che allor dell'Ida irrigua di fonti sui vertici eccelsi
i buoi pasceva, e tutto sembrava all'aspetto un Iddio.

     Come lo scorse, dunque, l’amica del riso Afrodite,
innamorò, la mente le invase terribile brama.
A Cipro venne, entrò nel suo tempio fragrante d’incensi,
a Pafo: un tempio qui possiede e un altare odoroso.
E poi ch'entrata fu, chiuse ch'ebbe le fulgide porte,
qui la lavarono allora le Càriti, l’unsero d’olio
ambrosio, quale sempre le membra dei Numi cosparge.
E, tutte quante cinta le membra di fulgide vesti,
adorna tutta d’oro, l’amica del riso Afrodite,
lasciò Cipro fragrante, si mosse alla volta di Troia,
alta, alle nuvole in mezzo, compiendo veloce il viaggio.
E giunse all'Ida irrigua di fonti, nutrice di fiere,
ed a la stalla mosse, diritta pel monte; e a lei contro,
scodinzolando, lupi, leoni dagli occhi di fuoco,
orsi, veloci pantere, che mai non si sazian di damme,
mosser. La Diva scòrse le fiere, fu lieto il suo cuore,
e infuse a tutte quante nel petto la brama d’amore;
e giacquer tutte a coppie per entro gli ombrosi covili.

E poi, mosse alla bene costrutta capanna ella stessa,
e lui trovò, che stava qui solo, lontano dagli altri,
Anchise eroe, che aveva bellezza quanta hanno i Celesti.
Avean gli altri pastori seguíti nei pascoli i bovi,
e nel presepe egli era, lontano dagli altri, rimasto,

e passeggiava qua e là, toccando la cétera acuta.
A lui dinanzi stette la figlia di Giove, Afrodite,
che di statura, di forme, sembrava una vergine intatta,
perché non rimanesse sgomento, vedendola, Anchise.
E come vista l’ebbe, rimase a mirare, stupito,
l’aspetto suo, la sua statura, le fulgide vesti:
ché un peplo ella cingeva più ardente che raggio di fuoco,
e búccole portava fulgenti, e volubili armille,
e s'avvolgean monili bellissimi al morbido collo,
d’oro, di varii colori brillanti: sul tenero seno,
miracolo a vedere, parea che fulgesse la luna.
E preso Anchise fu d’amore, ed a lei si rivolse:
«Salve, o Signora, chiunque tu sii delle Dee che qui giungi,
Artemide, Latona, l’amica dell’oro Afrodite,
o Tèmide bennata, o Atena dal cerulo sguardo;
oppur, se alcuna tu delle Cariti sei, che qui giunge,
che sempre son compagne dei Numi, e son dette immortali,
o delle Ninfe alcuna che vivon pei floridi boschi,
o delle Ninfe che dimorano in questa bell’alpe,
per le sorgenti dei fiumi, fra l’erbe di fonti perenni.
Io sopra un'alta vetta, visibile a tutti gli sguardi,
un'ara leverò, farò sacre offerte, a onorarti,
nelle stagioni tutte: tu poi, con benevoli cure,
fa’ ch'io divenga un uomo distinto fra tutti i Troiani,
fa’ che una florida stirpe succedermi possa; ed io stesso,
fa tu che a lungo veda la luce del sole, e, beato
fra le mie genti, possa toccar di vecchiezza la soglia».
     E a lui cosi rispose la figlia di Giove, Afrodite:
«Anchise, o il più famoso fra gli uomini nati a morire,
no, che non sono una Diva: perché mi assomigli alle Dive?

Una mortale sono, mia madre fu donna mortale:
Otrèo, se mai ne udisti parlare, è l’illustre mio padre,
che sovra tutta impera la Frigia dall’alte muraglie.
E so la lingua vostra al par della nostra: ché in casa
una nutrice di Troia mi crebbe da piccola bimba,
e m’educò, poco a poco: ché m’ebbe cosí da mia madre:
ecco perché sí bene conosco la vostra favella.
E adesso mi rapí l’Argicída dall’aurea verga,
mentre danzavo in onore d’Artèmide amica ai clamori,
dagli aurei dardi. Molte danzavano Ninfe e vezzose
vergini, qui: faceva corona una turba infinita.
E quindi mi rapi l’Argicída dall’aurea verga,
e sopra molti campi mi trasse di genti mortali,
su terre molte, senza né campi né rocche, ove fiere
voraci hanno soltanto dimora, in ombrosi covili;
né mi sembrò ch’io mai toccassi la terra ferace.
E disse ch’io giacere dovevo nel letto d’Anchise,
sposa legittima, e a te generare bellissimi figli.
Ora, poi ch’ebbe detto, parlato cosí, nuovamente
partí, fra gl’Immortali tornò l’Argicída gagliardo;
ed io qui venni a te, ché possente destino mi spinse.
Ed ora io ti scongiuro, per Giove e pei tuoi genitori
nobili — ch’essere figlio non puoi tu di gente dappoco —
guidami al padre tuo, che mi scorga, alla saggia tua madre,
ed ai fratelli tuoi, che nati son teco d’un sangue.
Nuora sarò per essi prudente, e non trista; e un araldo,
quanto puoi prima, ai Frigi dai pronti puledri spedisci,
che rechi al padre mio l’annunzio, alla madre dolente.
Ed essi oro a dovizia, di certo, con vesti tessute
mi manderanno: i doni che avrai, saran fulgidi e molti.

Ed offri, dopo ch’abbia ciò fatto, un banchetto di nozze
che agli uomini riesca diletto, ed ai Numi immortali».
     Ardore infuse in lui la Diva con queste parole.
Anchise vinto fu d’amore, e cosí le rispose:
«Se dunque sei mortale, se donna fu dunque tua madre,
ed è, come tu dici, tuo padre il chiarissimo Otrèo,
e per volere d’Ermète che l’anime guida qui giungi,
per sempre tu chiamata sarai mia legittima sposa.
Nessuno or degli Dei, né degli uomini nati a morire,
frenar qui mi potrà, che d’amore con te non mi stringa,
súbito adesso: neppure se Apollo che lungi saetta
dall’arco suo d’argento scagliasse le frecce dogliose:
bene io consentirei, dopo asceso il tuo talamo, o donna,
che sei pari alle Dee, sprofondare alla casa d’Averno».
     Disse, per mano la prese. L’amica del riso Afrodite
mosse, volgendo indietro la testa, avvallando lo sguardo,
verso il giaciglio bene composto, che già pel signore
era apprestato, con morbidi manti; e vi stavano sopra
distese pelli d’orsi, di cuporuggenti leoni,
che uccisi avea lo stesso signor sulle cime dei monti.
Ora, poiché sul letto bellissimo furono ascesi,
pria dalle membra tutti le tolse i fulgenti monili,
e búccole, e collane, e fibbie, e volubili armille:
la zona poi le tolse, le fulgide vesti le sciolse
Anchise, e l’adagiò sopra il trono dai chiodi d’argento.
E qui, come la Sorte voleva e la Forza dei Numi,
giacque il mortale ignaro vicino alla Diva immortale.

     Nell’ora che i pastori conducon di nuovo all’ovile
dai pascoli fioriti le pecore pingui e i giovenchi,

su Anchise allor versò la Diva un soave sopore
dolce, e di nuovo cinse le fulgide vesti alle membra.
E poi che tutta fu vestita la Dea fra le Dee,
alla capanna stette dinanzi; e giungeva la testa
al solido architrave: bellezza immortal dalle guance
fulgea: bella com’è Citerèa dalla vaga ghirlanda.
E lo destò dal sonno, gli volse cosi la parola:
«Sorgi, di Dàrdano figlio: ché giaci nel sonno profondo?
Déstati, e vedi se proprio ti sembra che a quella fanciulla
simile io sia, che or ora t’apparve dinanzi allo sguardo».
     Disse. Ed Anchise l’udì, balzò dal sopore all’istante.
E appena il collo e gli occhi fulgenti mirò d’Afrodite,
terror l’invase, e altrove le luci rivolse sgomente.
E poscia, il suo mantello distese, a nascondersi il volto,
e a lei volse una prece, parlò queste alate parole:
«A mala pena, o Dea, ti vider questi occhi, e conobbi
sùbito ch'eri una Dea; ma il vero tu a me non dicesti.
Or le ginocchia ti stringo, per Giove l’egioco ti prego,
non far ch’io d’ora innanzi trascorra una misera vita,
abbi di me pietà: ché florida vita non gode
l’uomo che con le Dee che vivono eterne si giacque».
     E a lui cosi rispose la figlia di Giove, Afrodite:
     «Anchise, o tu preclaro fra quanti sono uomini al mondo,
fa’ cuor, l’animo tuo non ceda a soverchio sgomento.
Da me temer non devi che mai ti derivi sciagura,
né da verun dei Beati: ché tu sei diletto ai Celesti.
E un caro figlio avrai, che signore sarà dei Troiani;
e nasceranno, senza mai termine, figli da figli.
Enea si chiamerà, perché grave doglia m’invase,
allor ch'io, Diva, scesi nel letto d’un uomo mortale.

Furono molti già, cresciuti di vostra progenie,
simili tutti, d’aspetto, d’ingegno, ai Signori del cielo.
Giove, che tutto sa, Ganimede rapí, chioma bionda,
preso di sua bellezza, perché fra i Celesti vivesse,
e nella casa di Giove il nèttare ai Numi mescesse:
miracolo a vedere, da tutti i Celesti onorato,
quando il purpureo vino mesceva dall'ànfora d’oro.
Ma invase il cuor di Tròo funesto dolor; né sapeva
dove gli avesse il figlio rapito divina procella;
e tuttodí lo andava con gemiti lunghi invocando.
E pietà n’ebbe Giove, gli diede, in compenso del figlio,
gli alivoli corsieri che portano in groppa i Celesti.
Questo presente gli fece. E poi, per comando di Giove,
tutto gli raccontò l'Argicída che l’anime guida:
ch'era per sempre immune suo figlio da morte o vecchiezza.
E poi ch’egli ebbe udito di Giove il messaggio, lamenti
più non mandò, ché anzi di gioia ebbe l’anima colma;
e lieto si lanciò sui corsieri dal piè di procella.
Del pari, allor che Aurora, dall'aureo trono, Titóne
rapí, ch'era mortale di stirpe, ma simile ai Numi,
prece rivolse al Croníde, signore dei nuvoli foschi,
che lo rendesse immune da morte, e di vita perenne.
E Giove acconsentí, volle ch'esito avesse la prece.
Poi, quando giú dal capo suo fulgido, giú dalle gote
floride, i primi a lui s’effusero crini canuti,
lungi dal suo giaciglio rimase la Dea veneranda,
e in casa ognor lo tenne, porgendogli cibo ed ambrosia,
quale manducano i Numi, gli diede bellissime vesti.
Ma quando poi lo colse l’estrema vecchiezza odïosa,
né muover piú potea, né pure agitare le membra,

questo le parve il migliore partito: rinchiuso tenerlo
nel talamo, e su lui serrare le fulgide imposte.
Un cianciuglío perenne gli uscía dalle labbra, né ombra
piú della forza avea, ch'ebbe un giorno nell'agili membra
Io non vorrei che cosí, fra i Numi che vivono eterni,
vivessi tu, che mai non dovesse finir la tua vita.
Se tale, quale adesso tu sei di sembianza e di membra,
vivere tu potessi, mio sposo in eterno chiamarti,
non sederebbe allora corruccio d’intorno al mio cuore:
invece, a te vecchiezza sovrasta, che uguale è per tutti,
senza pietà, che incombe, col tempo, su tutti i mortali,
che strugge, che affatica, che in odio è perfino ai Celesti.
Ora, per tua cagione, sarà questa mia gran vergogna,
giorno per giorno, senza mai tregua, fra i Numi del cielo,
che prima i miei disegni temevano e i dolci colloqui,
onde una volta tutti si giunsero a donne mortali
gli eterni Numi, e tutti li seppi domar com’io volli.
Or piú non oserà la mia bocca menar questo vanto
fra gl'Immortali, ché grande, ché orrendo fu troppo il mio fallo,
da non si dire, ché fu sconvolto il mio senno, quand'io
con un mortale giacqui, ne chiudo nel grembo un fanciullo.
Questi, come aprirà le pupille a la luce del Sole,
lo nutriranno le Ninfe montane dal seno ricolmo,
ch'ànno dimora negli ampî valloni di questa montagna
sacra. Non sono Dee, neppure mortali sono esse,
hanno durabile vita, manducano ambrosie vivande,
e intrecciano fra i Numi beati eleganti carole.
Con esse l’Argicída d’acuta pupilla e i Sileni
si mescono d’amore, nel fondo d’amabili spechi.
Nascono, sopra la terra che gli uomini nutre, quand'esse

vengono a luce, querce d’eccelsa cervice, ed abeti
floridi, tutti belli, sovresse le vette dei monti.
Toccano il cielo le vette: li chiamano templi dei Numi
gli uomini; e i tronchi mai col ferro nessun ne recide.
E quando ad una d’esse la Parca di morte s’appressa,
sopra la terra, prima, si essiccano gli alberi belli,
si strugge tutto intorno la scorza, al suol cadono i rami,
e l’alma loro insieme la luce del sole abbandona.
Esse terranno presso di sé, nutriranno il mio figlio.
E come prima avrà raggiunta l’età piú fiorente,
a te lo condurranno, perché tu lo veda, le Dive.
E sappi ancor, ché tutto ti voglio scoprir ciò ch’io penso:
di nuovo a te col figlio verrò, quando compia il quinto anno.
E come gli occhi tuoi contemplino un tale germoglio,
t’allegrerai di vederlo: ché avrà d’un Celeste l’aspetto.
Ed alla rocca teco tu guidalo d’Ilio ventosa;
e quando alcun ti chiegga degli uomini nati a morire
qual madre mai per te nel grembo portò questo figlio,
dire gli devi ciò ch’io ti dico, ricòrdati bene:
dí che rampollo egli è d‘una Ninfa dal viso di fiore,
che dimorava in questa montagna vestita di selve.
Ché poi, se il vero sveli, se per vanità tu racconti
che unita fu con te Citerèa da la bella ghirlanda,
te colpirà sdegnato col fumido folgore Giove.
T’ho detto tutto: tutto serbar ne la mente tu devi:
frénati, motto non dire, rispetta il volere dei Numi».
     E, cosí detto, via si perse, fra i venti, nel cielo.

 

   È narrato dall’omerico epigono un mito che abbiam detto coinvolgerà direttamente Roma. I miti! ... I miti trovano la loro sorgente nelle gesta degli uomini, grandi amori, epopee, drammi, tragedie; i Vati prestano ai miti la loro voce. E, poi, compiute le gesta, spente le voci, i miti sprofondano nel silenzio abissale, nelle profondità oceaniche dell’incorporeo, incosciente, ma cangiante, baluginante Caos; la parola vien dal greco chaos, baratro. In tal baratro si precipitano, affrettandosi, generazioni e generazioni di uomini caduchi e le loro storie. Vanti, orgogli, fallimenti, glorie fallaci, false illusioni, successi meritati o immeritati… Tutto questo il mito trascura, va oltre il transeunte, il temporaneo, perché semplicemente scerne e compendia; cosmogonie si succedono a cosmogonie, cagionandosi nette distinzioni oppur provocandosi mescolanze, confusione; si alternano splendori, oscurità profonda; perciò il mito non è, non sarà mai un trattato cosmologico. Quel caos cangiante, quello spazio aperto, spalancato, in sé contiene un cosmo, purché si sappia scandagliar bene e con sapienza quelle profondità oceaniche. Perché il mito non è coltura d’illusioni, esso cela realtà, verità reali. Nel mito, sapendo cercare, si scoverà ciò che è veramente accaduto in quel tempo remoto, e anche, volendo, ciò che accade nel presente.

   Orbene, in questi miti che andiamo rileggendo e nel loro prosieguo, saga degli Eneidi, la Roma storica cercò i suoi precedenti e quindi di essi miti si appropriò. Puntualizziamo: la Roma storica, perché l’altra, la Roma Eterna, è intangibile; inviolabile dagli eventi storici; oltre le cosmogonie e gli alberi genealogici; più in su di ogni mito. È essa ad agire su ogni cosmologia e in tutti i miti. Roma è la magia del Cosmo. È essa stessa il Cosmo lucente. L’amor che move il sole e l’altre stelle. Sono fugaci i terreni tragitti, e pur se duraturi passano anche i più gloriosi percorsi storici, ma l’ORMA di ROMA permane tra le genti, nuncia di Eterno Ritorno.

   Sulle popolate regioni, per le plaghe terrestri si son sempre verificate continue trasmigrazioni; muraglie, confini, anche se han tenuto nel tempo, improvvisamente s’infrangono; un cosmo si disgrega, l’uomo rischia di essere sopraffatto dall’informe; ma c’è sempre sulla terra chi veglia, la sua volontà in armonia con l’intento dei cieli. Una civiltà vera rinasce sulle rovine accumulate dalla menzogna; rinasce da un modello celeste, dal braccio e dal cuore d’ un pugno di Eroi: Vis et Amor, restituta Iustitia redit:

 

novus ab integro saeculorum nascitur ordo.

 

    A por fine al disordine, alla disgregazione, al rimescolio, una nuova progenie discende dai cieli per proclamare una novella cosmologia attinta dal mito originario, purificata di quanto, stranio ed invasore, vi si è sedimentato e consolidato nei lunghi, sterili tempi dei rivolgimenti e della decadenza.

   A Cipro in un tempio sontuosamente orientale a lei dedicato, Afrodite si reca per rendersi seducente e si orna di buccole fulgenti, di volubili armille, bellissimi monili s’avvolge al morbido collo; si prepara per incontrare Anchise e soddisfare la sua brama d’amore. Tra le valli selvose dell’Ida dove l’ignaro principe, mandriano di buoi dalle lunate corna, ha la sua dimora. Attraversando quelle valli la dea giunge all’Ida, nutrice di fiere; scodinzolando, lupi, leoni dagli occhi di fuoco, orsi, veloci pantere che mai non si saziano di daine, le vanno incontro; scorgendo le fiere il cuore le si allieta e a quelle infonde nel petto la brama d’amore. Qui la dea compare addirittura nell’aspetto della Potnia Theròn, la Cibele, signora delle fiere. La seduzione riesce appieno, la dea si presenta ad Anchise nelle vesti di una mortale principessa frigia; Anchise sarà dunque il padre di Enea. Questa parte del racconto mitico sa di oriente. Di questo mito si approprieranno appunto gli Etruschi e lo si troverà in terra d’ Etruria, prima che nel Lazio. Molte genti e culture diverse in quei tempi si addensarono in quelle regioni dell’Anatolia, crogiolo di razze, di lingue, di usanze, di culti religiosi e di miti controversi. E non si sottrasse a quell’influsso asiano-fenicio nemmeno la penisola italica e le genti che vi abitavano prima dell’avvento di Roma. Ma torniamo al nostro racconto. D’improvviso, nel prosieguo dell’inno, la scena cambia: “Sorgi, di Dardano figlio: ché giaci nel sonno profondo? Destati!” È Afrodite nella sua maestà divina che scuote Anchise dal profondo sonno. È così rappresentato il principio spirituale, quello solare, che si risveglia nell’Eroe e l’invita a destarsi alla vita reale, cui deve tendere consapevolmente ben sapendo di essere mortale. Senza mai vantarsi di essersi a lei congiunto, lo ammonisce la dea, dovrà accingersi ad allevare degnamente Enea; è da suo figlio infatti che discenderà una nuova, possente generazione di Eroi. Già si apre per essi una nuova terra, l’antica, sempre giovane Madre. Da questa nuova progenie scaturirà una cosmogonia nuova. È intervenuta, in questa così diversa apparizione, non più la dea orientaleggiante che sottomette e asservisce gli uomini con lunare seduzione, ma l’Afrodite Urania, la Sosandra, la salvatrice degli Uomini.

   L’élite sacerdotali e patrizie romane dovettero prendere severamente in esame questa nodale questione, affinché le sedimentazioni asiane, che si andavano riscontrando nei miti e nei culti di divinità estranee al Mos Maiorum e alla Romana Religio, non si consolidassero, mettendo infeste radici nelle costumanze del popolo. Ma non sempre fu esercitata un’attenta vigilanza e non rare volte s’insinuarono, e per vie sotterranee, segreti veleni. Non a caso abbiam sottolineato “per vie sotterranee”, giacché i “segreti veleni” provengono dal complesso interno, cioè l’insieme degl’istinti congeniti, ereditari e quindi atavici delle spinte interiori e delle inclinazioni anche culturali e religiose (inconsce e non) che compongono l’organismo etnico di un popolo e dei singoli individui. È altresì evidente che le rettifiche sul piano spirituale e del costume spettano ai Reggitori, e per rispettivi livelli, religioso sacerdotale, civile politico, per gradi e stati; e purché nell’animo, nel cuore e nella mente dei Reggitori abbia forza giustizia e prosperi la concordia. Se non tenessimo presente tutto questo, non riusciremmo a comprendere i lunghi sofferti periodi della storia romana, le sconfitte, le ambizioni e le vanità e le astuzie levantine, le gravi e profonde discordie che insanguinarono la stessa Urbe, e infine l’oscuramento e la decadenza.

   Sorprende, nella lettura, trovare nell’Inno Omerico sopra riportato tante di queste realtà, anche se magistralmente favoleggiate. Passaggi di cicli, incontri e scontri di culture, sovrapposizioni, contraffazioni di culti e giustapposizioni di figure divine, contrasti di genti e civiltà.

    Nell’Inno, in particolare, è delineato il substrato esistenziale asiano del dardanide Anchise, il subcosciente atavico del principe mandriano; custode di buoi dalle corna lunate e non pastore di greggi che han per guida l’ariete solare; il dardanide, da parte materna di etrusca pelagica stirpe. L’ignaro, poco meno che un inconsapevole eroe, temerariamente congiuntosi al principio divino, viene nel suo profondo, intimo essere, d’improvviso risvegliato e spronato ad accettare la paternità d’una rinnovata stirpe eroica. Ma l’eroismo uranico non deve mai procedere con vanità, il difetto di Anchise, e quindi deve essere immune da hybris, come richiede la Giustizia del sommo tra gli dei. Il riscatto, l’affrancamento deve dimostrarsi, deve essere compiuto. Lo realizzerà appieno Enea con la sua venuta sul suolo d’Italia. Anchise molto vecchio ed invalido anche vi giungerà, ma portato sulle spalle dal figlio, che per mano conduce il piccolo Ascanio.   

   Per conoscere l’ascendenza di Anchise e del suo avo Dardano raccogliamo dal III libro della Biblioteca di Apollodoro le notizie ivi riportate:

 

   Elettra, figlia di Atlante, ebbe da Zeus i figli Iasione e Dardano. Iasione venne fulminato quando, innamorato, tentò di violentare Demetra. Addolorato per la morte del fratello, Dardano partì e raggiunse il re Teucro, figlio del fiume Scamandro e di una Ninfa dell’Ida. Dardano, accolto dal re, ne sposò la figlia. Alla morte di Teucro Dardano ereditò il regno dei Teucri e lo chiamò Dardania. Gli succedette il figlio Erittonio, che sposò Astioche, figlia del Simoenta, e generò il figlio Troo. Quando Troo succedette al trono del padre, dal suo nome cambiò in Troia il nome di quella regione.

Troo sposò Calliroe, figlia del fiume Scamandro, ed ebbe una figlia, Cleopatra, e tre maschi: Ilo, Assaraco e il bellissimo Ganimede. Ganimede fu rapito in cielo per mezzo dell’aquila da Zeus che gli diede il compito di coppiere degli dei. Assaraco sposò Ieromneme, figlia del Simoenta, e generò Capis; Capis sposò Temiste, figlia di Ilo e generò Anchise del quale si innamorò Afrodite che con lui concepì Enea e Liro, che morì senza figli.

Ilo, vincendo una gara di lotta in Frigia, ebbe in premio dal re di quel paese cinquanta ragazzi e cinquanta ragazze. Seguendo un oracolo, Ilo fondò la città di Ilio nel luogo in cui una vacca pezzata donatagli dal re si andò a sdraiare e ricevette da Zeus, su invocazione, un segno propizio. Il giorno seguente vide all'alba davanti alla sua tenda il Palladio, inviato dal cielo. Era alto tre cubiti, aveva le gambe unite; nella mano destra teneva una lancia, nella sinistra una rocca e un fuso.

   Apprendiamo dunque che Dardano era figlio di Elettra, una delle Pleiadi, e perciò nipote di Atlante, come tale di discendenza pelagica. Apollodoro tramanda il mito che fosse figlio di Zeus; un’antichissima leggenda italica narrava invece che Elettra fosse la moglie del re etrusco Corito, fondatore appunto della città di Corito. Elettra partorì Dardano e Iasone; il primo si allontanò da Corito e raggiunse la Troade, l’altro la Samotracia.

   Dardano e i suoi discendenti, compresi Anchise ed Enea, avevano origine etrusco-pelagica ed erano da annoverare tra le superstiti genti dello scomparso impero Atlantideo. Atlante era il re del mitico popolo che praticando una inenarrabile hybris si dimenticò del cielo e dei celesti destini (Gea si separa da Urano) e andò incontro ad una catastrofe, costruendosi addosso (sulle spalle) di giorno in giorno un fato ineluttabile. Abbiam detto: mitico popolo? E sì che oggi… Be’, guardiamoci attorno, non è manco necessario spalancare tanto gli occhi!

   I miti significano allegorie, rappresentano, alludono… occorre scavare, munirsi del piccone e del badile per rimuovere strati su strati, consolidatisi nel tempo… Ebbene, leggendo le notizie sopra riportate dalla ‘Biblioteca’ ci rappresentiamo uno scorrere di generazioni di principi e di uomini in un continuo trasmigrare di terra in terra, e in lotta per il raggiungimento di una condizione eroica; indotti a denudarsi in sponsali con Ninfe caste, figlie di acque perenni e salvifiche, fluviali divinità, custodi d’aureo seme; pepite d’oro strappate ai fangosi duri strati, per esser levigate d’ogni impurità e terrena, unticcia, umidiccia, umbratile asprezza. Al fine di estollersi dalla fantomatica astrazione, dallo spettrale lume lunare e levarsi nella fulgida realtà solare.

   Contate quante generazioni, quanti cambiamenti, trascorsero dalla nascita di Dardano alla nascita di Enea! Enea, il figlio d’una vezzosa dea tutta ingioiellata e bramosa d’amore, una dea d’oriente? No! egli è il figlio d’ Anchise. Anchise, il dardanide che s’ è scrollato di dosso il torpido sonno e nel profondo del suo essere ha incontrato l’Urania dea, e una volta contratto tal celeste coniugio è assurto quasi al difficile ruolo di Padre, cioè capostipite d’una nuova progenie di Uomini. Enea, il nato da celeste coniugio, perché fu rinunciata la tellurica eredità, superato l’ottenebramento e stabilito un patto solenne con l’Avo Divino, quel dio che si paleserà padre nel lontano futuro nipote, fondatore d’un incommensurabile modello di città.

  “Quando Didone all’amante in atto di fuggire rinfaccia la sua infedeltà, questa accusa è logica dal punto di vista del diritto tradizionale asiatico, che è l’unico che questa donna tiria conosce. Enea incarna invece una diversa concezione della vita, quella alla quale Roma doveva innalzare l’umanità. Se Enea per via del suo passato trae origine da una civiltà asiatica e se, per via dei suoi tratti da Eracle, egli riflette la stessa concezione religiosa cui la Tiria riferisce il proprio diritto, pure il suo sguardo è tutto rivolto verso una nuova patria e verso una nuova era, alla quale, per una decisione superiore, egli dovrà dar vita. Dinanzi all’eroe nazionale romano il trono della etera orientale, che Cleopatra, come una Iside incarnata, vorrà poi ricostruire, crolla. La pira dei Sacchei Assiri, che avrebbe dovuto unire Zoganes ad Eracle, suo prototipo, divora soltanto Didone vinta – di Enea non viene arsa che l’imagine disanimata. Questo è il punto di svolta. Mentre l’antico Flaminato tramonta, ne sorge uno nuovo. Enea fa trionfare quest’ultimo, mentre Didone aveva tentato-invano-di sottomettere lo stesso occidente al primo. La femina dalle pretese omfaliche nel Lazio dà luogo alla Flaminica concepita come la pura compagna del puro sacerdote della Luce. La concezione sensuale asiatica della generazione sessuale non raggiunge questa terra prescelta dalla spirito universale come luogo di un’era nuova. Virgilio svolge ampiamente tale vedute. Non le restringe alla nuova forma assunta d’un unico sacerdozio. Nel suo poema tutto ciò che è asiatico scompare ancora prima che l’eroe troiano raggiunga la foce del Tevere. Tutta la serie dei suoi antenati assiri insieme alla stessa Didone, donna regale amante, Enea, che anche qui ci appare come un’immagine di Eracle, andrà a cercarla nel regno cumaico dei morti. Le persone dell’antico mondo asiatico non son più che ombre irreali. Per esse e per il loro mondo ormai tramontato il Lazio non sarà il luogo di una rivincita. Anchise, Creusa, la nutrice Caieta, Palinuro e tante altre incarnazioni di idee orientali non giungono fino alla terra nuova. La sede seduttrice di Circe amante viene evitata ed Enea adotta Ascanio, rapito alla sua patria da bambino, fondatore del primo regno latino. Chi è capace di leggere l’Eneide tenendosi alla sua idea direttrice ritroverà dappertutto lo stesso tema. I due fattori, sui quali si basa ogni sviluppo di umana civiltà: la riconnessione con il retaggio di una umanità anteriore e la successiva trasformazione di un tale retaggio – vi hanno un uguale rilievo. La più alta missione, alla quale un Oriente crepuscolare era chiamato nella lontana terra d’Occidente, costituisce visibilmente la vera idea-base dell’intero epos virgiliano. Roma, che nelle sue origini trovò l’Asia, diviene colei che la vince definitivamente. Questo è il centro di tutta l’Eneide. Occidit occideritque sinas cum nomine Troia: qui tramontò, qui tramonterà Troia, insieme al suo nome.”

   Il brano del Bachofen testé riportato sintetizza genialmente, con profondità, il tema che andiamo trattando dell’influenza orientale sulla penisola italica, influenza che durò e dura nel tempo e che costrinse Roma a dure lotte per la salvezza del Mondo. Soprattutto contro l’orgiastica Etruria e il suo culto asiatico della Madre. In lunghe battaglie contro i tentativi di supremazia etrusca, contro quel militarismo tracotante impegnato negli interessi eminentemente economico-commerciali, contro il culto passionale e tirannico di Turan la dea dell’amore sensuale ed eterico, che confondeva prostituzione e procreazione, andando a figurare il tipo di femminilità etrusca e il costume sessuale di quella nazione, Roma in tal lotta rafforzò il suo Marte, i Quiriti e l’intera Civitas.

   A Tarquinia è famosa la Tomba dell’Orco e altrettanto famoso un ritratto di nobildonna etrusca che ivi è stato ritrovato, affrescato su una parete da un indubbiamente bravo artefice etrusco di scuola ellenistica. Il ritratto è chiamato la ‘Fanciulla Velca’. Si tratta di Velia Spurinna, appartenente ad una ricchissima famiglia e morta in età ancora giovanile. Questa famiglia degli Spurinna era nemicissima di Roma e lo stesso fratello della Velia aveva combattuto con odio contro Roma. Ma noi qui abbiamo menzionato il ritratto di Velia Spurinna   perché attraverso di esso ci si può fare un’idea della Turan etrusca, cioè della femminilità e del culto della ‘belluria’ in quel popolo. È un profilo di donna dalla folta chioma contenuta da una fascia dietro la nuca, mentre le orecchie sono nascoste dai boccoli che civettuoli cadono ai lati delle tempie; le labbra sensuali dal contorno siriaco e gli occhi di linea orientale sono carichi d’un desiderio e d’una pensosità funerea; una figura piena d’ombra, avulsa dalla natura e dal vero senso della vita. Ci vien da dire, una Afrodite consumpta. Un volto mulièbre che dietro i fronzoli asconde la sensualità asiana decadente: un lento inesorabile consumere.

   Alla necrofila sensualità asiana Roma oppose con Ovidio: “et formosa Venus formoso tempore digna est, /utque solet, Marti continuata suo est. La divina bellezza della dea dell’Amore congiunta alla forza di Marte. Fuor dall’allegoria: Vis et Amor Venus Felix, Venus Victrix, Venus heroum Genitrix – la Forza trascendente della stessa Roma.

   Nel tracciare queste righe, senza accorgercene, ci siamo messi su una via in salita; ogni erto scalino, una metanoia; diversamente non si poteva ritrovare l’Orma della Venus nostra.

   Rimane ignoto l’inizio del culto di Venere nel Lazio e in Roma. Ed è giusto che sia così, che ci sia mistero. Si dice che la prima menzione di un culto di Venere a Roma si colleghi alla Venere Calva, quando nel IV secolo di Roma fu eretta una statua a questa divinità per commemorare il sacrificio dei capelli delle dame romane durante l’assedio gallico del Campidoglio. Le dame avrebbero offerto le loro capigliature per farne funi da impiegare nell’uso di macchine belliche. È una bella leggenda, pur altamente simbolica e resta tale anche e soprattutto se il fatto ha una sua storicità. Marte e Venere insieme uniti per vincere il barbaro nemico.

   Altri dicono che il culto della Venere Calva risalga al regno di Anco, prima che i Tarquini s’impossessassero del trono. E noi riteniamo l’antichità di questo culto. Abbiam pur visto, in epoca sempre antica, opporsi in Grecia ai culti della Citerèa Pandemia il culto dorico di Afrodite Sosandra (una Afrodite Urania), di cui ci ha lasciato esempi di scultura l’artista Calamide. Ebbene la Venere Calva è anch’essa una Venere Celeste e quindi salvatrice.

   Sostiene il Bachofen che “la capigliatura [femminile] era messa in relazione nell’antichità, con la sregolatezza della generazione eterica in genere e, in particolare, con la vegetazione palustre, concepita come una specie di imagine di tale generazione. […] La lotta fra il principio demetrico e quello eterico ci appare in tutta la serietà di un fatto sia storico, sia religioso; […] è stata importante per l’umana cultura la rigida difesa della norma demetrica, nel suo opporsi continuamente ad ogni ricaduta nella legge naturalistica”. Ora intendiamo meglio il simbolo della Venere Calva e la leggenda mito-storica delle dame romane che sacrificarono le loro chiome. D'altronde la radice KAL, porta in sé il senso di raschiare, rasare, ripulire e quindi coltivare per evitare una crescita disordinata, cioè naturalisticamente fuori controllo. La Venere Calva è per questo una Venere Celeste che s’accompagna al guerriero, a Marte.  Il vocabolo latino, di genere femminile, calva, ae, si traduce nell’italiano teschio, anche testa calva. Il teschio, cioè la teca ossea, il caput, la sommità della persona umana che tende al cielo, la custodia che tutela il terzo occhio, il prezioso nous, la comprensione, l’intelletto d’amore. Questo dato ci assicura la remota antichità della Calva Dea. Il fatto che non si riesca a determinarne il momento dell’apparizione sulla scena storica dei culti religiosi appalesa il carattere magico di quest’ente divino, il suo uranico mistero che tende ad occultare la magicità d’un rituale siderale.

   Magica Venere! Lo stesso nome è pregno di magia. Contiene venia, il ben volere e tutto ciò che si fa di buon grado, l’aggradare, l’appagare. Partecipa del senso di venenum, che a molte specie animali e vegetali serve per la propria conservazione e difesa, ma anche per offesa; è quel filtro che, penetrando nei corpi, ne può mutare le proprietà naturali, ma essere addirittura letale: ascesa/discesa – tossico/farmaco, ma il tossico può perfino tramutarsi in farmaco.  Dello stesso ceppo il verbo latino venerari, rad. VAN, che in sé contiene il senso dell’amabilità e del rendere onore. E non si discosta molto da vinum che in un’altra lingua indoeuropea, nel sanscrito vênas, suggerisce ciò ch’è amabile, delizioso o piacevole; ed anche l’ebbrezza che non mente, se sobria.

 

Aprilem memorant ab aperto tempore dictum,

Quem Venus iniecta vindicat alma manu.

Illa quidem totum dignissima temperat orbem;

Illa tenet nullo regna minora deo,

Iuraque dat caelo, terrae, natalibus undis,

Perque suos initus continet omne genus.

 

   Così canta Ovidio nei Fasti la siderale magica potenza di Venere, infatti noi la continueremo a chiamare con il lucente appellativo di Calva Dea, ché nella battaglia per la difesa dell’Urbe contro la barbara minaccia fu al fianco e compagna del Padre Marte, fieramente annodando le sue magiche funi all’elsa del sanguinoso gladio. La sua forza mistica s’identificò, poi, con la Fortuna Virilis (Fortuna Manens) negli stessi duci romani, sotto la sorveglianza dei Flamines maiores, fino ad assorgere a Venus Victrix, la stessa Dea Victoria, la Aeneadum genitrix, la Madre mistica di Roma; assolto il culto a Iuppiter Invictus, il Padre sempre invitto.

   In una società colta da follia, da inverecondia, che non protegge ma si fa beffe della pudicizia e mette in ludibrio la costumatezza, disconoscendo le buone usanze avite, passivamente in balìa dei più degeneri svaghi, depravazioni e perversioni; per l’appunto, e davvero, preda di un’afrodisia pandemia! Qual è il contravveleno, il rimedio il sostegno efficace?

   La Venus Nostra, gentili amici, la Calva Dea che qui invocheremo con il nomen di Venus Verticordia, colei che unisce i cuori e li conduce alla virtù della pudicizia. Ma quanti, e lo scriviamo con gran disappunto, in tanto disfacimento e sfiducia e pessimismo, i cuori nobili pronti a distinguersi? Vorto, is, vorti, vorsum, ĕre, il verbo latino che tradurremo con cambiare, mutare, trasformare, volgere. Ebbene, noi invochiamo un radicale mutamento, un profondo volger del sentire, un cambiamento profondo del pensare e del giudicare; non una semplice correctio, una emendatio, una banale retorica riforma, come oggi demagogicamente usano, ma una conversione totale, un cambiar rotta; semplicemente, una potente metanoia, un superamento di questa stravecchia, menzognera, orribile modernità; un superamento di questo concepire asfittico, materialistico, che ignora le amplissime sideree vastità del divino.

   A Venere Verticordia affidiamo questa nostra volontà; a noi tutti, agl’Itali volonterosi il compito di realizzare. 

 

la SOSANDRA
la SOSANDRA

HAC STAT

 

 

 

VINALIA  PRIORA

 

   Vinalia a vino. Hic dies Iovis, non Veneris. Huius rei cura non levis in Latio; nam aliquot locis vindemiae primum ab sacerdotibus publice fiebant, ut Romae etiam nunc; nam flamen Dialis auspicatur vindemiam, et, ut iussit vinum legere, agno Iovi facit, inter quoius exta caesa et porrecta flamen primus vinum legit. (Varrone, L L, VI-16)

 

O Giove dapale, sii glorificato col vino che ti presento

 

 

 

C A L P A R

 

Son fioriti il viburno e il biancospino,

ferve d’astrale sangue il Calpar,

lietamente libiam col nuovo vino!

Lo sguardo al ciel rivolto: «Evviva il Sole!»,

ché nell’azzurro ardendo

vince le vane fole.

 

Quest’ara sacra a Libero voi sole,

caste Muse, abbellendo

inghirlandate di rose e vïole!

D’un bianco intenso vive intimo il fiore,

fulge d’aurei raggi il Calpar,

e il rosso vino ha l’aroma del Sole.

 

 

 

 Vinalia di primavera MMDCCLXX a.U.c.

 

 

 

 

IL  S A L U T O  R O M A N O 

 

   

   In questa statua Marco Aurelio è raffigurato nel gesto della salutatio, il saluto come eran soliti porgerlo i Romani. Un gesto solenne, non rigido, ma a un tempo religioso e severo. Il braccio destro levato verso l’alto, la mano aperta libera, le dita leggermente dischiuse: patet l’animo forte e generoso, il virile proposito, la magnanima, cortese attitudine ad incoraggiare, sostenere e ad elargire beneficium, a donare e a donarsi.

 

 

  Qui il gesto della salutatio si distingue dal precedente e assume un habitus militare, una gravitas martialis. L’imperator risponde alle acclamazioni delle legioni, il braccio si protende e la mano si eleva in alto con il palmo aperto in avanti sui legionari e le dita in autorevole atteggiamento onde imporre alle ombre di arretrare, al barbaro di non superare il limite saliare e alle legioni di nutrire nel loro seno la vittoria luminosa.

 

 

   Nel tergo di questa moneta romana è rappresentato il comandante che terminata la sua adlocutio, la esortazione ai legionari prima del combattimento, stende verso di essi il braccio in segno di saluto e d’incoraggiamento; la mano aperta sul capo dei legionari invoca la divina presenza e l’offerta di sé a stringere un patto con la vittoria. Per tre volte, alzando il braccio, rispondevano a quel solenne saluto i legionari.

 

 

   Salutatio di Cicerone al temine di una sua adlocutio. Certo, né un grande oratore, né un generale, e nemmeno un imperatore si sarebbero permessi di voltar le spalle ai cives o ai milites, insomma ai Quirites, alla fine di un discorso. La salutatio era quindi parte integrante della adlocutio. È passata alla storia postuma semplicemente come il ‘saluto romano’. E i posteri sono posteri, cioè appartengono ad epoche che succedono a quelle che li hanno preceduti, tutto qui! Si sa che certe abitudini restano intimamente radicate nei popoli ed è un impulso ‘istintivo’ tra i popoli latini alzare il braccio in segno di saluto; in verità non sempre, diciamo anche, per esagerare, non di sovente; ma a chi non è accaduto, diciamo qualche volta e forse anche per caso, nel salutare un amico o un parente, di alzare il braccio e per di più sventolare anche la mano festosamente spiegata? Dal finestrino d’un treno, dalla scaletta d’un aereo, dalla tolda di una nave. Ebbene, che vogliam fare, mettere sotto processo le abitudini ancestrali? Vietare per legge, qualunque esso sia, il saluto romano? Attenzione non lasciamoci prendere dall’isteria. Guardiamoci dentro e non rinfocoliamo odi e inimicizie covate come uova di serpe, che nemmeno la serpe cova. Riguardiamoci! La nevrastenia è una malattia; ci si fissa e poi ci si lascia ossessionare da cose che infin dei conti son proprio cose trascurabili; non vale ingigantirle e soprattutto agitarle in mezzo al popolo. I fanatici e gli invasati (peggio!) han sempre fatto danni e non han mai prodotto beneficio ai popoli. Son lividi gli isterici ed i maniaci, e han sempre i pugni contratti. Quel pugno contratto, serrato, minaccioso! Un’arida mano che non vuol far dono di nulla al proprio simile, anzi egoisticamente pronta ad afferrare e a nascondersi nei criptoportici della propria mente bacata. Ah, ignoravate che la mano fa parte anch’essa della vostra mente? State attenti, non incorrete in simili, pericolosi stati dissociativi. Sottinteso: la vostra mente predica bene (e precisiamo, per i lettori, solo a vostro dire) e la vostra mano razzola male. Siam purtroppo consci che chi vuol perdersi si lascia sedurre dal diavolo, qualunque forma costui abbia, perciò noi ci asteniamo dal credere efficaci i nostri consigli. Per tal motivo i buoni consigli ce li teniamo soprattutto per noi.

   Come sarebbe allegro il mondo se incontrandosi, antifascisti e neofascisti, in piazza o al bar si salutassero sventolando la mano, bella e spiegata, con un sorriso schietto donandosi l’uno all’altro, senza odio e rancore, da buoni italiani. Ma qui vogliamo soprassedere a tanto ottimismo e donarci in conclusione ed esclusivamente per il nostro benessere fisico e mentale una rabelesiana risata.

   Ma su una cosa non transigiamo. Per la salvezza del nostro continente, della sua antica ed eccellente cultura, di quella che fu la sua mirabile civiltà, occorre che gli Europei tutti, e anche tutto l’Occidente, riconoscano la centralità della Idea romana. Il mito di Roma e la romana Salus, per l’Europa!

 

 

*

 

   Noi non siamo torvi, ma festosi. Non vogliamo legiferare sul saluto romano e nemmeno sul saluto che mostra il pugno, a mano serrata, minaci manu, che nell’antica Grecia era considerato un gesto scurrile ma per nulla vietato. Eppur se fanatizzati dal tono rabelesiano, non vogliamo, e proprio all'occorenza, dimenticare l’aristocraticissimo e popolare poeta romano, l’amabile Trilussa.

 

 

 

LA STRETTA DE MANO

 

Quela de da' la mano a chissesia 
nun è certo un'usanza troppo bella: 
te pô succede ch'hai da strigne quella 
d'un ladro, d'un ruffiano o d'una spia.

Deppiù la mano, asciutta o sudarella, 
quanno ha toccato quarche porcheria, 
contiè er bacillo d'una malatia 
che t'entra in bocca e va ne le budella.

Invece, a salutà romanamente, 
ce se guadagna un tanto co' l'iggene 
eppoi nun c'è pericolo de gnente.

Perché la mossa te viè a di' in sostanza: 
— Semo amiconi... se volemo bene... 
ma restamo a una debbita distanza. —

 

  

CAPI COMUNISTI CHE SALUTANO

 fascisticamente

 

...e ci prova anche il presidente Usa

sotto una pioggia di coriandoli

 

HAC STAT

 

e i festosi demodossologi finteuropeisti 

 

 

 i due mattacchioni infatti salutano romanamente

Alalà, BuffaLoffia!

 

 

 

 

IL SISTRO IL FLAUTO

 

 

   Sugli umiferi prati del Tigri

dove l’occhio aguzzava un tempo

la tigre, infallibile freccia

sul bersaglio delle prede,

lungo quei coltivi ripiani

alto s’udiva  risuonare il sistro,

così sulle sponde nilotiche

tra fanghiglia e fusti d’erto papiro,

ove, insidioso, agguati

tendeva col dardo strisciante

della vorace mascella

il coccodrillo.

Il siderale suono celebrava

le processioni fluviali

sacre a Ishtar e a Iside;

al ritmo dei sistri incedevano

i sacerdoti e i re turriti,

il capo nella triplice corona

d’appuntita tiara.

Ogni cosa rapida muove

 e portata dal soffio di Tifone

 si disperde… Teschi, come conchiglie!

 Fiori… polline, polvere!

 Da questo seggio la Grande Nutrice

 porge ai poppanti le tette

 colme del latte secolare…

 

   E scorrono i fiumi,

 il Sindhu mai navigato,

 e la Sacra Madre, il Gange,

 e il Volga serpeggiante

 e il tortuoso Uèbi Scebèli

 e delle Amazzoni il rio…

 Tamburi lunghessi evocano

 timbri di voci remote,

 vaganti tra spenti astri,

 all’unisono risonanti

 con il gemere dei sistri

 nelle plaghe d’un Ade onirico.

 Qui, lungo le rive del Tebro,

fluente la bionda corrente

tra antichi tronchi

di piante sacre,

tibie levigate e sonore

sostengono l’incanto

d’un mezzodì solare

e il flauto e la siringa

esprimono con sibilante

fausto suono le ataviche voci                        

commosse ad ammansir le fiere

se la serpe tra l’erba,

vomitando il veleno,

con leggiadria si snoda

nell’aureo saturnio.

J. Jordaens
J. Jordaens