SOLSTIZIO D’ESTATE

 

MMDCCLXXII a.U.c.

 

 

 

Chi inaugurare vorrà con il canto

Di Febo l’ardente stagione?

Sul colle di Giano all’istante

Trattiene la biga e i corsieri

E la fronte appalesa

Vibrante d’inarrivabile gloria;

Chi riesce a scorgere

Di Saturno l’aureo volere,

Il nobile guardo sapiente

E il carme sonoro ne ascolta

Che allieta e feconda la terra

Amata e protetta dal dio?

Chi il pio canto vorrà inaugurare,

Il carme sublime del cuore,

L’amorosa luce del sole

L’aligero canto fulgente?

Chi l’alma terra onorare

Ch’è Madre d’inclite genti

Il cui dire educa e risuona?

 

Quegli che dei Padri antichi ha l’assenso.

 

 

 

 

 

 

 

A E S T I V E

 

 A T Q U E

 

 A R D E N T E R 

 

 

S   O   L

 

 

 

 

L I B E R   ET   V A G U S

 

 

 

 

L I B E R   ET   V A G U S

 

 

 

 

L I B E R   ET   V A G U S

 

 

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L I B E R   P A T E R

 

 

 

quod liber et vagus est . . .

nulla ex his dubitatio sit Solem et Liberum Patrem

eiusdem numinis habendum . . .

 

 

   Stamane il cielo è sereno; il vento spira frescura, porta salute, immerge nel brio i voli e il concento degli uccelletti e in ogni luogo della valle tonifica le tinte della fioritura e la verzura dei campi e dei poggi. Un continuo, ma niuna confusione.

 

  Aura serena . . . etra splendente!

 

 Qui l’estate non brucia come in città. Ahi, le alide città del cemento con le secche, impolverate aiuole su cui l’africo nomade espone il suo misero giaciglio!  Purissimo, qui, l’aere intorno. Dentro, nell’intimo, una tenuissima, imponderabile ma viva percezione di ristoro e, di fuori, leggiadria in tutte le cose, tanto che i pensieri diventano lievi, veloci, e viaggiano in armonia con il tutto; provi allora un sentimento distante ma dolcissimo, senti che la natura t’aggrada, che ogni cosa è vivente, quindi distinta, eppure che tu non sei disgiunto da ciò che ti circonda e t’accoglie; nel tuo intimo avverti che un’ anima è nel tutto e di quell’etra splendente  pur anco il tuo pensiero porta il profumo e lo sparge sul mondo, e ch’esso è insieme il profumo della tua anima.

 

  Sconfinata gioiosità del paesaggio nella lucente cinta degli orizzonti! Sgombra, la mente s’addentra in quella gioiosità lucente, spicca il volo verso i liberi orizzonti. La natura intera e tutte le specie in essa viventi tendono al godimento, alla letizia, all’armonia, sviluppando in sé la voglia, il talento d’una armoniosa libertà; libertà, poi, anche quale arte della condotta umana misurata e concordante con lo spirito del Genio che a tutto ciò presiede nella lucente cinta degli orizzonti; lo spiritello, il frugolo divino, lo gnomo della crescita, della vegetazione? Gli antichi nostri padri latini lo chiamavano Liber, Liber Pater, ed era il nome d’un arcano, nello stesso tempo manifesto e non pertanto misterico dio.

 

  Libere ac lubenter. . . Lubenter ac libere . . .

  

 

UNA  FESTA  ANTICA  QUANTO  IL  MONDO

 

 

   L’egoismo umano, con la vanità, l’utile proprio, l’illecito profitto, tende a smodatamente accrescere i suoi appetiti, a gonfiarsi di bramosie e infine impudentemente agogna ogni sorta di libertà, di licenza, di piaceri e di vizi. Con la perdita della rettitudine, il disfrenamento delle passioni rapido si diffonde, vien meno l’armonia, s’insedia la discordia ed è l’inferno sulla terra divenuta ormai un luogo angusto all’offuscarsi degli umani orizzonti. L’uomo ha obliato il cielo e Liber Pater s’è allontanato da lui, non ovviamente accettando il dileguo del divino ricordo dal cuore dell’uomo ridotto in vile asservimento.

  Da tempi molto antichi gli uomini lo festeggiavano e ancora a Roma si tenevano le feste di Liber, come tramanda Varrone: “Liberalia dicta, quod per totum oppidum eo die sedunt ut sacerdotes Liberi anus hedera coronatae cum libis et foculo pro emptore sacrificantes.”  Testualmente: “Sono dette Liberalia, infatti per tutta la città in quel giorno siedono, come sacerdotesse di Libero, vecchie coronate d’edera, con focacce e un braciere, sacrificando per il compratore”.

  Vecchie donne, coronate d’edera e sedute con compostezza sacerdotale sacrificavano sul foculus, piccolo focolare, liba adorea, focacce di grano inzuppate nel miele; venivano offerte a Liber Pater a favore dei passanti compratori. Nel libro terzo dei Fasti ai versi 733/34, Ovidio afferma che i libamina e i liba, libagioni e focacce, traggono il nome dal dio che dette loro origine, e così continua: “Liba deo fiunt, sucis quia dulcibus idem/Gaudet et a Bacco mella reperta ferunt.” In parole nostre: “Si ammanniscono focacce per il dio poiché egli gradisce i dolci succhi (nutrimento gradito) e si dice che il miele fu scoperto da Bacco”. In tutto il racconto della Festa di Libero Ovidio opererà una mistione, indifferentemente usando i nomi e quindi attribuendo a Libero, deità italica, imprese favolose ch’ erano proprie del Bacco ellenico, ma questa era una narrazione ormai acquisita nella cultura letteraria dei suoi tempi. Ci atterremo perciò a quei dati che nel suo racconto emergeranno per arcaicità e in particolare intuiremo come verosimilmente nostrani, cioè autoctoni.

  Per prima cosa consideriamo la ieratica figurazione delle vecchie donne coronate d’edera che offrivano al dio sul foculus focacce di miele e che entrambi gli autori, Varrone e Ovidio, avevano ritratto dal vivo. Figurale quadro della saggezza d’origine; l’antica, semplice saggezza che s’adoprava per far giungere al dio, per conto del passante, l’uomo volonteroso e donatore senza vanto, il nutrimento gradito. Tanti passanti, tanti volonterosi anonimi donatori, senza dubbio individui semplici e virtuosi; ma, con tutto ciò, l’atteggiamento composto e severo delle anziane coronate d’edera doveva signoreggiare lo scenario festivo onde tener sotto controllo e contenere ogni mescolanza e impasto impuro. Si aveva cura di evitare che si formasse un amalgama psichico greve, anzi si mirava a sopravanzare il livello psichico e il vincolo naturalistico per affermare il qui e ora in un ordine superno, superindividuale e anche superstorico. Se ne giovava infatti il singolo quirite e ne traeva quindi stabilità e concordia l’intera civitas quiritaria. L’uomo è un passante, un viandante sulla terra, la sua vita è fugace, deve pertanto vincere l’esoso egoismo ed esprimere una condotta virile e generosa per perpetuare la solare civitas e così immortalarla nella realtà assoluta del sovrumano principio di cui la patria terrestre, illo tempore edificata dagli avi, è immagine essenziale, imprescindibile.

  E veniamo ai dulces suci che Ovidio dice graditi dal dio. Mentre sul Campidoglio si celebravano i riti dovuti a Libero, nella città si svolgeva la festa cui partecipava, come abbiam detto, il popolo, mentre per le vie incognite vecchie coronate d’edera vendevano focacce; Ovidio le definisce ambiguamente vilis anus intendendo forse che praticavano per quel commercio un basso costo; vendevano exigua stipe quelle tondeggianti focacce destinate al dio, ovvero trattavasi d’offerta volontaria da parte del compratore offerente? E quelle focacce erano tutte della stessa grossezza? Toccava forse a quelle misteriose vecchine dall’ederaceo ciglio apprezzare la virtuosità quirite individuando la fides dei singoli e commisurandovi l’offerta sacrificale? Una facoltà non dappoco; una dote mistica, arcaica? E quella loro antica familiarità con il focarello! E quelle loro dita aduste, abbruciate dal fuoco e dal sole, pelle di salamandra, dita destre a malassare farina di frumento ed aureo miele e a farne focacce da tirar fuori dal fuoco fragranti, e limpide come spicchi di sole!

  La citazione in latino posta all’inizio del nostro scritto è tratta dai Saturnali di Macrobio (I, 18 - 7) e in essa si sostiene che v’è assoluta certezza che il Sole e il Padre Libero sono la stessa divinità. E più avanti Macrobio   con riferimento al sole aggiunge: “I Romani lo chiamano Libero, perché è libero e vagante, come dice Levio: qua dove il vago sol le ignite briglie/scaglia da presso e alla terra congiunge”. E così da Orfeo a Virgilio: “sciens Liberum patrem solem esse et Cererem lunam, qui pariter fertilitatibus glebae et maturandis frugibus vel nocturno temperamento vel diurno calore moderantur, per cui Virgilio nelle Georgiche dice: per vostro dono la terra mutò la ghianda Caonia nella pingue spiga”.

   E non rappresentano forse quelle ieratiche figure anche un esemplare quadro della pazienza? La paziente vecchiezza, in attesa tranquilla, senza trepidazione; una canizie virente d’edera! Scrive Macrobio: “Habet enim hedera vinciendi obligandique naturam: l’edera infatti ha la proprietà di legare e di frenare”. Quello dei Liberalia è il mese di Marte, si festeggiavano infatti il 17 di marzo, ed è il mese in cui ci si preparava anche ad affrontare le minacce di guerra e quindi necessitava il laccio della pazienza, virtù basilare per frenarne, moderarne il furore, “vinculo quodam patientiae obligandos impetus belli”. Alla pazienza s’accompagna, infatti, la virtù della prudenza che illumina la mente e le dona la preveggenza per affrontare gli eventi senza correre rischi.  Tramanda infatti Macrobio che, a dire del giurista Masurio Sabino nel libro II dei Fasti, il giorno dei Liberalia a pontificibus agonium Martiale appellatur”. E Macrobio, inoltre, riferisce anche a Marte tutto ciò che veniva attribuito a Libero padre a dimostrazione che Marte stesso è da identificare con il Sole; da sempre, infatti, di Libero e di Marte s’è fatto un solo dio. “Nec non et calor vini, cuius Liber pater auctor est, saepe homines ad furorem bellicum usque propellit. Igitur propter cognatum utriusque effectus calorem Martem ac Liberum unum eundemque deum esse voluerunt. Certe Romani utrumque patris appellatione venerantur, alterum Liberum patrem, alterum Marspitrem, id est Martem patrem, cognominantes. Hinc etiam Liber pater bellorum potens probatur, quod eum primum ediderunt auctorem triumphi. Cum igitur Liber pater idem ac sol sit, Mars vero idem ac Liber pater, Martem solem esse quis dubitet? Senza dubbio il calore del vino, di cui il padre Libero è l’autore, spesso spinge gli uomini fino alla furia bellicosa. Dunque per il corrispondersi del calore in entrambi gli effetti stabilirono che Marte e Libero fossero un unico e identico dio. Di certo i Romani venerano tutti e due con il nome di padre, chiamando l’uno Liber pater, l’altro Marspiter, cioè Marte padre. Da ciò è anche provato che Libero padre è signore della guerra, giacché si tramanda che fu il primo a far conoscere il trionfo. Orbene se Libero padre è il medesimo che il Sole e Marte in realtà il medesimo che Libero padre, chi porrà in dubbio che Marte sia il Sole?”

  E ancora, Mercurio e il Sole . . .

  Sempre da Macrobio: “Apollo governa le Muse, Mercurio la parola, dono delle Muse. Praeter hoc quoque Mercurium pro sole censeri multa documenta sunt. Primum quod simulacrum Mercurii pennatis alis adornantur, quae res monstrat solis velocitatem. Oltre a ciò vi sono molte altre conferme che Mercurio è da ritenersi il Sole. Primariamente i simulacri di Mercurio sono adorni di ali pennute, che indicano la velocità del sole. Infatti immaginiamo Mercurio regnante sulla mente. . . et sol mundi mens est, e il sole è la mente del mondo, summa est autem velocitas mentis, ma grandissima è la velocità della mente, ut ait Homerus:

come ala ovver pensiero;

perciò ha le ali Mercurio, cioè la natura stessa del sole, ideo pennis Mercurius quasi ipsa natura solis ornatur”.

 

   Colui che ha mente sana, cuore saldo e dedica i suoi giorni alla conoscenza di sé saprà raccogliere nella sua interiorità tutte queste suggestive immagini, spiegarsele e nutrirne la propria riservatezza, vale a dire l’essenziale segretezza del proprio animo.  Colui o colei che si profonde nel tumulto mondano e si lascia trascinare da irrequietezza, smanie e futili distrazioni, spregerà senza alcuna esitazione queste righe, e non ce ne duole. Ci resterà purtroppo ignoto chi le leggerà per mera curiosità e le criticherà, a ragione o a torto non sapremo mai, e ce ne spiace; è però consolante pensare che sino ad oggi e con la vigente temperie conformatrice siamo rimasti al riparo da crudo astio, da rancorosi sarcasmi o da cose da meno, come vanità e frivolezze.

  La parola greca di genere neutro ἦθος si può rendere in italiano con carattere, indole, natura, modo di essere, e anche modo di agire, costume etc. Il nobile e sapientissimo Eraclito in un frammento afferma che questo èthos per l’uomo è il daímōn, il fondamento dell’essere che sta in profondità, il demone o genio che ne determina il destino. L’aver intima dimestichezza con il foculus, il saper maneggiare le briglie di fiamma, temperare il calor vini per non scatenare l’irascibilità che offusca la mente, possedere  la scienza del sole e della luna, la saviezza di Libero e di Cerere, e com’essi saper parimenti portare le glebe alla fertilità e i frutti a maturare, affinché in divino accordo il diurno calore con il sollievo della notte dolcemente si temperi, fintanto che nel culmine estivo, spigata in oro, possa ammirarsi nel campo che fu coltivato con cura la pingue arista.

 Liber a Romanis appellatur, quod liber et vagus est . . . boni consilii hunc deum praestitem monstrant. Nam, si conceptu mentis consilia nascuntur, mundi autem mentem solem esse opinantur auctores, a quo in homines manat intellegendi  principium, merito boni consilii solem antistitem crediderunt”. Ritenevano i Romani – scrive Macrobio – che Libero, il sole, porgesse agli uomini il buon consiglio, quello che vien concepito dalla mente, e poiché i saggi ritengono il sole la mente del mondo e da tal mente deriva agli uomini il principio intellettivo, ecco che esso, il sole, è il custode del buon consiglio.

 

    Liber pater bellorum potens . . . Liber pater idem ac sol, Mars vero idem ac Liber pater, Marte è il sole e il sole è il custode del buon consiglio . . .  Liber pater primus auctor triumphi . . .

 

   Apollo Musis praesidet, Mercurius sermonem, quod est musarum munus, impertit . . . mentis potentem Mercurium credimus . . . et sol mundi mens est – e il sole è la mente del mondo – summa est autem velocitas mentis – ma è massima la velocità della mente – ideo pennis Mercurius quasi ipsa natura solis ornatur . . . la natura del sole, a dir di Omero:ala-animus /pensiero . . .

 

   Parole, frasi che si librano nel cielo; la mente alata partecipe del labor solis, della costante, incessante e instancabile operatività solare . . . Idee, idee, idee . . . immagini, immagini . . . suoni, pensieri, parole . . . e una sola divina visione, la totalità del cosmo . . . e un’unica divina imago: quell’essere ch’è là, nell’intimo, profondità arcana, insondabile se non dalla sapienza, la velocissima mente del mondo fornita d’ ali mercuriali, ché essa quasi s’adorna della stessa natura del sole.

 

   Solerte virtù, solare operosità, in pace e in guerra; e spesse volte la pace è più gravosa, più affaticante della guerra. Costumanza dei barbari in guerra è scatenarsi nel furore, nella rabbia bellicosa, sfrenarsi nella ferocia della strage che disumana e imbestia; tal condizione, con la sconfitta, riduceva nel mondo antico allo stato di cattività, alla sottomissione e al servaggio.

 

   Lo spartiata, il quirite, e volutamente evochiamo dall’antichità greco-romana due eminenti esempi di combattenti, nella   preparazione alla guerra miravano soprattutto all’affermazione in sé stessi della virtù guerriera, eliminando ogni istintiva grossolanità come, ad esempio, l’aggressività irruenta, l’impeto sventato, il precipitarsi che confonde la mente, agita il cuore, prostra le membra. Nella pugna occorre lucidità della mente, stabilità del corpo quindi il piè fermo, il braccio inesorabile nel compiere l’atto che urge. Tale il combattimento ardimentoso, da forte. Le fatiche di Marte, quindi, suggeriscono di munirsi della virtù della pazienza; l’adirarsi, l’irritarsi, il semplice spazientirsi espone ai pericoli, all’ignominia della cattività. La cattività! quella che ti porti dentro. E forsanche accompagnata dall’empietà e l’iniquità. E ieri come oggi; anzi, oggi è sorte più nera di ieri e per popoli interi.

 

   Calor vini, di cui Liber pater è l’autore, saepe homines ad furorem bellicum usque propellit, per la qual ragione gli antichi stabilirono che Libero e Marte fossero un identico dio. Calor vini, un’espressione emblematica che comprende ogni sorta di ubriacatura. Cicerone ebbe a scrivere che “furorem autem esse rati sunt mentis ad omnia caecitatem”, cioè “si pensò che il furore fosse una totale cecità della mente”, e così dall’ira furibonda al furore amoroso.  Autore del calor vini è Liber pater, e codesto dio è il medesimo che il sole, idem ac sol, pertanto il calor vini altro non è che il calore del sole. Sappiamo che, affinché la spiga nel culmine dell’estate giunga a maturazione, occorre che il calore del giorno venga mitigato dalla frescura notturna e anche questo è opera di Libero in accordo con Cerere. Orbene essendo Libero e Marte un identico dio, come abbiam visto i Romani veneravano entrambi con il nome di padre, infatti lo stesso Marte è il sole.

 

    Libero padre bellorum potens, il dio cioè che signoreggia la guerra ed ha sotto il proprio controllo il furor bellicus, il dio, dunque, che conosce e governa la disciplina bellica è anche egli stesso Marspiter ed entrambi questi dei sono il sole, et sol mundi mens est, quindi il sole custode è del buon consiglio. Da tal unica mente solare discende agli uomini il principio intellettivo e summa est autem velocitas mentis; solo il vero sapiente possiede veloce intelletto e conosce in anticipo la ragione degli accadimenti; difatti come Liber pater, come il sole, anche il Sapiente, aurea guida, liber et vagus est.  Ora abbiam compreso perché l’auctor del calor vini che spinge gli uomini ad bellicum furorem, perché proprio lui, Liber pater, sia considerato anche il primus auctor triumphi.

 

 

LIBER PATER, TRIUMPHE!  MARSPITER, TRIUMPHE!  SOL, TRIUMPHE!

 

  

  TRIUMPHE! Fu Libero padre per primo a far conoscere il trionfo, perché egli liber et vagus est. Libero e vagante, con questi due corrispondenti termini, tratti dalla poesia latina, Macrobio rappresenta l’imponente, lucente moto dell’astro solare, che presiede all’ordine della natura e alla vita nel nostro mondo. Libero nella sua volontà vaga di propagarsi, di estendersi e di diffondere libero moto, affrancato da ogni egoistico irrigidimento e ciò al solo fine di compiacere la generosa Lubentia, la dea della gioia. Senza gioia non si è lubentes, liberi, ben disposti, propositivi; non s’ avanza in gentilezza con egoismo e nemmeno si vincono le difficoltà, anzi subentra quella che i latini chiamavano aegritudo, l’infermità, l’affanno. Il vago sole non conosce affanno, volenteroso, libero, non incappa nella cattività. TRIUMPHE! Auctor primus, egli può celebrare il trionfo, anche perché sa che, più delle fatiche di Marte, ancor più gravoso e difficile è mantenere la pace, concordia e ordine nella pace.  Vivere nella pace non è infiacchirsi, imputridire, non è guastarsi in ogni sorta di depravazioni, proseguendo nel libertinaggio e sguazzando nell’ipocrisia, ma ricordarsi che anche in pace non si può fare a meno di Marte, perché Marspiter è il sole, e il sole è il custode del buon consiglio, infatti egli, Liber pater, è la mente del mondo e velocissime ali ha la mente.

 

   Figlio di Marte padre, solare custode del buon consiglio, in sé stesso dominante e di sé guida, solo il Sapiente, in quanto liber et vagus, perché autore in principio del trionfo, è davvero in grado di governare la pace.

 

   Abbiam scritto che liber et vagus son due termini corrispondenti, ma nell’intenzione dello scrittore latino,  come espressa dalla frase, più che a equivalersi pare tendano a completarsi l’un l’altro. Vago, vagare, vagabondare, cioè vivere da vagabondo: non è questa la pista che dovete seguire, lettori gentili! Mettete da parte questo itinerario linguistico che vi porta al comune errare, allo svago del girovagare, della vita nomade senza meta, dello sviarsi et cetera. Solo per inciso, ma è bene ricordare che i verbi liberare e vagari, andar vagando, sono verbi denominali rispettivamente di liber e di vagus, e ciò al fine di sottolineare che questi due termini non hanno origine dalle corrispondenti forme verbali, non ne discendono, sono indipendenti. Per non incorrere in un abbaglio linguistico atteniamoci rigorosamente al latino e cerchiamo di individuare una esemplificazione più appropriata e inerente all’essenza di questa frase espressiva del moto solare. E quindi valiamoci d’un esempio che si presenti come il più confacevole e significante. Nella nostra lingua troviamo il termine “vago” usato giustappunto nell’ identica accezione dell’enunciato in latino che andiamo considerando, quindi con ugual contenuto semantico, in una voce anatomica che indica il “nervo vago”. E manco dovrà esser considerato fortuito in tal contesto un esempio tratto dalla fisiologia dell’uomo. Il nervo vago è un nervo encefalico che procedendo dal tronco encefalico e dal midollo allungato uscendo dal foro giugulare che è un’apertura alla base del cranio, attraversa il collo e scende nel torace e nell’addome; insomma, pur restando stabile e fisso nel luogo onde origina si dirama vago verso zone distanti a innervare numerosi organi in un vasto giro; presiede alle vie aeree, quindi alla sensibilità respiratoria e all’espressione parlata, ed è anche il moderatore della frequenza cardiaca, influenza e regola la digestione, le contrazioni muscolari involontarie dell’addome, nonché, in zone ancor più periferiche, le contrazioni dei dotti escretori. Costituisce il sistema nervoso parasimpatico che distinto anatomicamente dal sistema nervoso simpatico   procede con questo in sintonia, con funzioni differenti ma sinergiche. Entrambi compongono il sistema nervoso autonomo che presiede alle attività involontarie del corpo umano, dipendendo quindi da esso il funzionamento dell’intero organismo.  Non intendiamo ovviamente approfondire questa materia, quel che qui interessa è capire il senso esatto del singolare accostamento, libero - vago. Ed ecco, ancor nell’esempio riportato, manifestarsi il labor solis, l’operatività solare, il calor vini e, fuor del traslato, il calore del sole che abbaglia nel giorno e di notte s’attenua in luce selenica, perché tende a conservare tutto in armonia, a reggere la vivente natura e ad alimentare la vita. Alme Sol!

 

   Colui ch’è libero ha la capacità di governarsi da sé, gode di autonomia e pur essendo fermo, quindi stabile e permanente in tale stato, sovrano di sé stesso, l’essere libero deve godere anche del moto, immutabilità e insieme transitorietà. Tale condizione però prevede privilegi e oneri, vantaggi e svantaggi, successo o fallimento, salute o malattia, trionfo o sconfitta. Eppure… Liber a Romanis appellatur, quod liber et vagus est…  E ciò perché Liber pater è uno strenuo largitore, è il dio, infatti, che presiede al buon consiglio. Ebbene se “i consigli nascono dal concepire della mente e gli scrittori considerano il sole mundi mentem, a quo in homines manat intellegendi principium, giustamente è da ritenersi il sole rettore e custode del buon consiglio”. Abbiam tradotto con rettore e custode la parola latina antistitem (acc. di antistes, istitis) che alla lettera ha il significato di soprastante e in antico indicava il primo sacerdote d’un tempio; mentre abbiam ritenuto mantenere nella perfezione della lingua latina la frase precedente che menziona quel intimo principio del conoscere e del comprendere mediante l’intelletto. Quel principio che il sole, mente del mondo, emana direttamente nell’uomo, nell’uomo liber et vagus, il Sapiente, che ha appreso a mitigare il calor vini e a servirsi delle briglie di fuoco, le guide folgoranti emanate dalla mente solare, per coltivare il sentimento degli umani e temprarne l’ingegno sul piano del sobrio raziocinio, a bene instradarne l’agire onde si possa operare con dedizione e amore nella cura delle terrestri faccende. Pertanto il sapiente s’occulta, rinuncia il suo ego, tal quale il sole che s’assenta nella notte e regala alla luna, che accetta, il suo limpido raggio. Avvicendandosi, allora, la notte giunge a smorzare il calore feroce recando con sé il lume della vaga luna; la raziocinante luna che scinde in fasi mensili il suo corso, e edotta nell’ arcana scienza solare, libera e vaga, a sua volta percorre, benefica e feconda, le terre e i vasti mari.

 

 

DAI LIBAMINA E I LIBA AL CULTO DI LIBERTAS

 

 

Mite caput, pater, huc placataque cornua vertas

Et des ingenio vela secunda meo!  

      Ovidio, da parte sua, procede nel racconto festivo con maestria e letteraria accuratezza celebrando Bacco, quello della Grecia tarda e dei suoi tempi, anche se, tra tanta verseggiante esultanza, a tratti fan capolino accenni a tempi lontani: “Ante tuos ortus arae sine honore fuerunt,/ Liber, et in gelidis herba reperta focis.” In itali accenti: “Prima che tu comparissi, o Libero, stettero inonorati gli altari e l’erba cresceva su gelidi focolari.”  Giorni d’una età desolata, eppure da tal lontanissima stagione corrispondenti ai presenti; anche oggidì vuoti gli altari e spenti ormai i domestici focolari. Instabili le menti, gli umori; indifferenti, algidi i cuori. Labilità del ricordo, corruzione, servaggio; e la moria delle api, le produttrici di miele.

 

   Ma, in quel tempo tanto lontano, improvvisamente. . .

 

  Apparve, in quel tempo lontano, colui che invenne i libamina e i liba, il dio che si compiace, gaudet, dei succhi dolci, Liber Pater: et mella reperta feruntE fu la scoperta del miele! Proviamo ancora a cavar fuori dall’esotiche miniere ovidiane quel che più sa di nostrale: “Ecco adunarsi singolari volatili attratti dai suoni… Urgono d’attorno le api. Colligit errantes et in arbore claudit inani/Liber et inventi praemia mellis habet. Libero raduna le erranti e le sistema dentro la cavità d’un albero e ottiene i doni (i vantaggi, le benefiche virtù) del miele ritrovato”. E così i dolci succhi ripresero a scorrere negli organismi, nella natura, nella figura e costituzione delle genti e, spogliando del senso figurato l’alveare di Liber Pater, accadde che l’umana società fu risanata e accolta nell’aurea cavità dell’Albero del mondo. Melle Pater fruitur liboque infusa calenti/Iure repertori splendida mella damus”. E noi: “O Padre che gioisci del miele, a te, fondatore, a te, generatore, giustamente offriamo su calde focacce aureo miele”.

 

   Occorre, qui, anche ricordare che durante la celebrazione dei Liberalia, in quel 17 marzo veniva indossata dai giovani la toga virilis o libera che indicava il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, venivano quindi dismesse la toga praetexta e la bulla e offerto un sacrificio a Liber pater sul Campidoglio dai novelli cittadini. E Ovidio si chiede perché proprio nel giorno della festa del dio della luce si proceda a questa cerimonia di passaggio: “Forse perché tu sei visto sempre in aspetto di giovane imperituro oppure perché sei padre e i figli amati a te i padri affidano, curae numinibusque tuis?/ Sive quod es Liber, vestis quoque libera per te/Sumitur et vitae liberioris iterO perché sei Libero, proprio per questo indossano la libera (toga virile) onde, maturato il tempo, intraprendere possano il cammino per una vita più libera”… A tal riguardo notevole anche una nota di Cicerone nel De natura deorum (II, 24) che qui in parte citiamo: “. . . eum quem nostri maiores auguste sancteque Liberum cum Cerere et Libera consecraverunt, quod quale sit ex mysteriis intellegi potest; sed quod ex nobis natos liberos appellamus, idcirco Cerere nominati sunt Liber et Libera . . .”.   Nell’attuale parlato: “quel Libero che i nostri antenati con Cerere e Libera sacralmente secondo il rito deificarono, e la natura di ciò la si può intendere attraverso i misteri: ora poiché chiamiamo liberi i nati da noi, perciò i nati da Ceres furono chiamati Libero e Libera…”. E qui Cicerone si riferisce a un’epoca molto antica, quella dei maiores deificanti, accennando per l’appunto a tramandati misteri; ma ancora Cicerone, e nello stesso passo, si riferisce ad aliae naturae deorum, allorché un’entità concettuale o ideale, in qua vis inest maior aliqua, veniva chiamata con nome divino come, tra le altre, Fede, Virtù, Onore ed anche Salute, Concordia e, a stare al nostro argomento, Libertà. Si riteneva, a dire di Cicerone, che in tali entità fosse insita una somma potenza di cui solo una deità poteva esser la reggitrice e quindi le stesse loro designazioni venivano elevate a nome divino.

 

    Sull’Aventino, roccaforte della plebe, nel 238 a.e.v., fu inaugurato da Tiberio Gracco della Sempronia Gens plebea e padre dei Gracchi, un tempio alla dea Libertà e per la prima volta questo concetto astratto riceveva un culto in Roma.  Questa dea/idea, come vien riportato, era rappresentata a somiglianza d’una matrona romana in candida veste, con lo scettro in una mano, nell’altra il berretto frigio e un gatto disteso ai piedi.  Carina questa illustrazione! la matrona romana che esterna nel bianco abito la virtù della purezza: senza quest’ornamento e tanta fortezza a nobilitare l’animo e la mente, chi mai sarà libero? In una mano lo scettro: chi mai sarà libero se non munito della virtù della rettitudine che congiunge la necessità terrestre alla costante redentrice opera del cielo? L’altra mano pronta a donare il berretto frigio: chi mai sarà libero se non è in grado di combattere per riscattare sé stesso e ogni volente dalla ria schiavitù? Il felino disteso ai piedi: non si è liberi se la mente non è purificata dall’ambiguità, dall’evanescenza del pensiero confuso, dall’incomber livido dell’ombre notturne, se il lunare non viene subordinato alla chiarità solare; è buona accortezza operare al fine di svincolarsi dalle costrizioni d’una mente spiritata, posseduta; è retta maestria rendere la propria visione chiara e immediata, perché ogni evidenza è il segno di una realtà tangibile e questa a sua volta può simboleggiare altra realtà più recondita che solo l’intelligenza solare, attiva, può illuminare e accostare, e rendere così il tutto realmente conscio e fecondo. Ma la candida matrona con lo scettro e il felino domestico steso ai piedi evoca una dimora ben custodita, ove governa la virtù del femminino incontaminato nella luce, nella calorosa cura del padre - Liber pater? - e nella prosperità familiare e quindi di ogni famiglia quirite e dell’intera civitas. Così di certo aveva voluto il soprastante del tempio sull’Aventino, rifacendosi ai maiores in tempi ormai agitati, tanto lontani da quei lucenti giorni deificanti, ma nei quali fortunatamente ancora vivevano uomini attenti e vigili.

 

   E quella dea/idea, quella voce astratta, Libertas, ormai aveva fatto la sua comparsa sulla scena del mondo e aveva il suo tempio sull’Aventino; il saggio antistite, il sacerdote quirite, doveva prendersene cura, lui rettore e custode del buon consiglio; doveva amministrarne il culto nell’interesse di Roma, perché solamente i liberi, i figli del solare padre, Liber, i figli di Marspiter, eran del tutto idonei a servire la patria in pace ed in guerra. Doveva egli con attenzione, cioè ritualmente, operare perché non rimanesse solo voce astratta, quella dea/idea, ma si attivasse di fatto in interiore homine, nella mente e nella condotta di ogni quirite, e ciò con buona pace di chi macchinava di libertà far cattivo uso. Non è da trascurare peraltro che già alcuni secoli prima, nell’anno 493, sempre sull’Aventino e quindi sollecitatrice la plebe, in seguito a un responso dei libri Sibillini fu dedicato un santuario a Cerere, Libero e Libera. Divinità provenienti dalla Magna Grecia erano state accolte da tempo tra la gente etrusca, ed è ben attendibile che fautori e cultori etruschi del dionisismo, esponenti in Roma del partito avverso ai patrizi e quindi ai culti Capitolini, effettuassero di proposito un ibridismo cultuale, trasponendo tra l’altro, onde occultarla, la denominazione triadica Demetra, Dioniso e Core in quella italica e molto antica Ceres, Liber et Libera. Di astrazioni ed ibridazioni gli etruschi furono spregiudicati maestri sul suolo italico e lo sono a tutt’oggi.  Sta di fatto che quella “voce astratta” ha fatto strada, tanta strada, ed è giunta a questi tempi ultimi enfia di rivoluzionarismo e madidi di sangue i suoi berretti frigi e le sue scuri.

 

   Siam più che certi, più d’un lettore si chiederà: perché i Liberalia, la festa in onore di Liber che cadeva il 17 di marzo vien trattata da costoro nel pieno dell’estate? Davvero han ragione i lettori, piuttosto ci sarebbe da raccoglier nel campo i buoni succosi frutti lugliatici; ma piove, e d’improvviso nella valle sta per scatenarsi una tempesta al soffio d’un vento biscaglino forte e freddo, un rabido ventare estivo. D’altronde è l’effetto questo refrigerio del nostro rasserenamento, c’eravamo lasciati prendere troppo dal calor vini, da un’estrema collera, da uno sdegno più infuocato della stessa giornata canicolare; ma d’un tratto il nostro pensiero è volato a Liber pater, alla sua festa, alle vecchine pazienti e a quelle loro focacce fragranti intinte nel miele e, come per incanto, è venuto a noi il buon consiglio, ci siam sentiti liberi da gravezza e l’animo è tornato sereno. Ed ecco, ci raggiunge a rinforzo anche questo freddo e furioso vento atlantico. Non risparmierà taglienti sferzate a questa canea di ciarlatani presi dalla foia delle libertà democratiche. Urlano le loro sconcezze e queste chiamano libertà; compiono misfatti e proteggono il malaffare con lo scudo della ribellione e questa chiamano libertà; abusare degli inermi questa per loro è libertà; produrre contraffazioni, fabbricare menzogne, per loro significa esser liberi; rinunciare ad esser uomini, rinunciare ad esser donne, per loro vale esser liberi. Lasciare impunita la malvagità, umiliare l’innocenza, e ciò spesso accade, questo per essi è libertà! Si è davvero liberi quando, stando alla giusta rampogna di Esiodo, “Giustizia e Verecondia fuggono lontano dalla Terra, dagli uomini lungi, che coltivano l’invidia impudente, amara di lingua e felice del male”? Disumanare forse accresce libertà? Con tutto ciò dicono, e il tono è supponente, che libertà è sancita in una Quarta, la Quarta più liberale del mondo! Sancita in una Quarta? O via, lasciamo perdere!

    Dov’è l’uomo libero, dunque? chiediamo; dov’è la donna libera? L’uomo, la donna insieme e liberi? E i liberi, i loro figli, dove sono? Qual vate, qual poeta inneggerà alla cartacea libertà? Il demagogo, ohibò, e tuttodì!

 

    Dall’agosto dell’anno 1945, due ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima, addì sei di quel mese, e Nagasaki, il dì nove seguente, ponevano fine al più atroce dei conflitti mondiali, da quel giorno uomini e donne e popoli vivono una misera vita in servitù, in brutale, affannosa servitù degli animi e delle menti, sotto la più spietata delle tirannidi, la minaccia della guerra nucleare totale. Non tramonta giorno che con l’improprio uso della parola libertà non s’oda anche risuonare la parola sterminio; memorizzare stermini... fissare la mente sulle distruzioni del passato e… non far caso alle stragi dei dì correnti e… non paventare affatto gli sterminamenti venturi… Tutto questo è molto liberale e, per l’appunto, “chi se ne fotte” è e sarà il motto, anzi pardon!, l’apoftegma del liberalismo di attualità.

 

   Ma se la mente è sotto il governo del buon consiglio di cui il sole è rettore e custode, ed il sole è mundi mentem, a quo in homines manat intellegendi principium, l’uomo in cui è vigile tal principio, avendolo in sé coltivato, sa che il calor vini può cagionare ogni sorta di ubriacatura o eccitazione in quanto Liber pater ne è l’autore e quindi saepe homines ad furorem bellicum usque propellit, e ancor nell’intimo parimenti che Liber fu il primus auctor triumphi. Orbene, colui che è autore di entrambe le cose e nel proprio Sé possiede il trionfo, vinto per sempre l’ascoso vil nemico, conosce il modo per placare il furore bellico, smorzare ogni sorta di ubriacatura, perché, come abbiam visto, egli è liber et vagus e grandissima è la velocità della sua mente che gli fa conoscere in anticipo la ragione degli accadimenti e quindi prevedere il mondo.

 

                                                                                                

IL SACRIFICIO DEL MIELE

 

 

   “Ciò che in me avviene, è di tutte le frutta mature; il miele ch’è nelle mie vene rende più ricco il mio sangue e rischiara l’anima mia, la rasserena.

 

    La mia volontà oggi mi porta su un’alta montagna. Or si disponga che su quell’altura sia il miele, e a portata della mia mano; miele aureo e puro, di favo, buono e fresco come il ghiaccio; favo d’api, vero miele. Lassù, lo si sappia, intendo fare il sacrificio del miele ...

 

   Su partecipa, dona il più dolce dei tuoi succhi, o miele del mio cuore! Da quest’altura cala giù, qual sapida esca, nell’imo fondo della cupa tristezza!”                                                                                                                                 (F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra)

 

 

 

    Liber pater, mens mundi, il sole dal quale negli uomini emana il principio intellegendi: il sole rettore e custode del buon consiglio. Il dio antichissimo, nell’etimo del nome è il significato di “crescere, svilupparsi” (E. Benveniste), e allo stesso etimo, *leudh-, s’apparentano nei linguaggi di vari ceppi indoeuropei termini come “il popolo, la gente, la stirpe” e gli stessi figli, i “liberi”, in quanto appartenenti a una stirpe, a un popolo, a una gente. E lo studioso si chiede come spiegare da quel etimo appunto, da quella radice, “un termine collettivo ‘il popolo, la gente’, poi un aggettivo ‘ libero’ e, localmente, in latino, un nome di divinità Liber e un sostantivo liberi ‘figli’?”  Seguiamo ancora un po' il Benveniste: “… e si dice di una pianta che crescendo si completa. (. . .) Si può allora immaginare che l’idea della crescita completa, che porta alla statura e alla figura umana, abbia prodotto altrove una nozione collettiva come quella di ‘stirpe’, di ‘gruppo di crescita’, per designare una frazione etnica, l’insieme di quelli che sono nati e che si sono sviluppati insieme”. Il Benveniste infatti sostiene che quando si socializza la nozione di ‘crescita’, riferendola a una categoria sociale o allo sviluppo di una comunità, ne deriva per conseguenza la nozione di ‘libertà’. Scrive: “Tutti quelli che sono usciti da questa ‘matrice’ da questo ‘ceppo’, hanno la qualità di *(e)leudheros”. Cioè padrone di sé, non soggetto, libero. Difatti, sempre il Benveniste: “All’uomo libero, nato nel gruppo, si oppone lo straniero (gr. xénos), cioè il nemico (lat. hostis), suscettibile di diventare ospite (gr. xénos, lat. hospes) o schiavo se lo si cattura in guerra (gr. aikhmálōtos, lat. captivus). (. . .) Nelle antiche civiltà, la condizione di schiavo mette costui al di fuori della comunità. Non esistono schiavi che siano anche cittadini”. Tutto ciò appartiene agli studi di linguistica e ha solo una rilevanza indiretta nell’argomento che andiamo trattando.  Invero, però, pertiene al nostro discorso quanto egli così sintetizza: “Possiamo capire le origini sociali del concetto di ‘libero’. Il senso primitivo non è, come si sarebbe tentati di pensare, ‘liberato da qualche cosa’; è quello dell’appartenenza a una razza etnica designata con una metafora di crescita vegetale. Questa appartenenza conferisce un privilegio che lo straniero e uno schiavo non conoscono mai”. Infine, per quanto concerne il dio così si esprime: “Il dio Liber e l’aggettivo liber possono coesistere senza che il nome del dio sia un’applicazione dell’aggettivo. Liber, come in venet. Louzera, è il dio della crescita, della vegetazione, specializzato più tardi nel settore della vigna”. L’elemento della crescita lo troviamo anche nell’etimo indoeuropeo Ker radice del nome della dea osco-italica Kerres, cioè Cerere. Infatti il principiatore, l’iniziatore, è Liber pater, mentre Cerere è la matrice che prepara e forma, è l’organo della crescita. In quel organo oscuro, cielo interiore, alberga il calor vini, in tal luogo opera la sua maturazione, sviluppa la sua indipendenza, nel seno della madre egli è già il sole lucente, la mens mundi, il padre Libero, liber et vagus.  E il seguito l’abbiam già detto; possiamo solo aggiungere l’espressivo verso di Sesto Aurelio Properzio: Naturae sequitur semina quisque suae”.

 

    Abbiamo però anche detto che molto difficile è davvero esser liberi, se non si è saldamente sé stessi, senza forti radici, senza appartenenza libera, che per l’ appunto è l’esser congiunti alla propria gente, libera gens; se non si è ingenui, patricii, cioè figli di Liber pater

 

    Vuoi essere libero? Vigila su te stesso, apprendi e cimentati . . . cimentati nel labor solis!  Conosci te stesso!

 

 

*

 

  “Alme Sol. . . che scopri e nascondi il giorno”. . . tu liber et vagus, poi che sempre “antico nasci e diverso, aliusque et idem”, come canta Orazio, e operi a che “la Terra, ricca di messi e di greggi, Cerere incoroni di spighe”, con il blando raggio della tua divina intelligenza illumina la mente del popolo Italico, onde possa tornare sul sentiero dei padri e, in tanto furente turbamento, riprenda il suo indomito coraggio per serbare al mondo l’ antica civiltà e, vincendo l’insidia dell’ascoso e vile nemico,  lontano respingere possa il barbaro dalla terra di Saturno. O padre Libero, proteggi il sacro alveare che un dì radunasti e tornino a scorrere pure e chiare le linfe e a risplendere aurei i dolci succhi che nutrono le fibre dell’animo, sì che, tornato alla virtù e perciò libero, il tuo operoso popolo possa adempiere il sacrificio del miele e affrancare dall’amara, nera tristezza il cuore del mondo.

 

 

*

 

COLUI CHE NASCE ANTICO E NUOVO: L’UOMO SOLARE

 

   Le righe iniziali di questo scritto le abbiamo vergate in una mattinata dei primi giorni dello scorso luglio, un bel dì d’estate, mossi dal ritrovamento tra le nostre carte di una composizione d’ anni addietro sul tema della libertà; volendo, i lettori potranno leggerla in fondo a questa narrazione. Poi, distratti da faccende varie, ce ne siamo proprio scordati. E son passati i giorni, son venuti anche giorni d’afa e di caldo.

   Anche quel pomeriggio era trascorso sotto la forza leonina del sole e nel tranquillo silenzio della campagna. Se non ci fosse stato l’intervento d’un nostro conoscente, personaggio dall’ambigua cultura, e della sua numerosa compagnia, anche la serata sarebbe trascorsa tranquilla. Risparmieremo ai lettori tutto il nostro disagio e il grave imbarazzo, ma dovemmo tacere, rimanemmo in rigoroso silenzio.

   Caspiterina! che lingua parlavano quelli? La lingua della tivù a reti unificate? Infatti s’udiva come un’unica voce grigia, monotona e tediosa, la voce dei reclusi, dei rinchiusi, la voce d’una mente ristretta, costretta in angusti propositi, impedita negl’intimi intenti. Senza alcun costrutto nel loro ottuso fanatismo, quei personaggi parlavano di “libertà”, d’un “diritto” mai goduto, a loro dire, da alcuna stirpe umana sulla terra prima dell’odierna genia! Era lì riassunto l’irritante concerto di tutte le televisioni, le radio e la stampa d’occidente. Vox populi, vox dei? Tutt’altro!  Era la voce ipocrita e menzognera dei servi di chi oggi la fa da padrone d’un popolo calpesto e deriso, perché diviso, indeciso, albergando tra l’altro al suo interno e da secoli una strania discorde fazione, adusa al dispotismo, che ha imposto, e con piena cognizione di mestare nel torbido con maligna astuzia, il culto mescidato, ibrido, malestro, della sua deità dispotica, meticcia; la loro religione libresca, trasmessa dai profeti, rivelata in astratto, alla giudaica simillima.

   Nel turbinare dei secoli e dei millenni le humanae universae res si dissolvono o si confondono, si separano e s’aggregano, si occultano poi riaffiorano, mutano e spesso mutando si riaffermano, si scontrano, si contaminano l’un l’altra ovvero si contemperano tra di loro, e a dir di Dante “Simile qui con simile è sepolto”, oppure alla latina: similes cum similibus congregantur, e ciò nonostante il lungo trascorrere e l’illusivo variare dei tempi. E gli uomini s’avvicendano, ma non cambiano; ovvero il cambiamento non è mai verificabile; appariscenze, vistosità di mode diverse, variate negli anni, non altro! E, sotto sotto, inveterati vizi e abitudini. Mah! – viene obiettato – perché si trascura lo sbalorditivo progresso della tecnica ai nostri giorni? Non è sufficiente a sbaragliare ogni nostalgia passatista? Macché, sinistre nostalgie a parte, voi fate finta di non vedere di quanto si è accresciuto l’impulso alla distruttività e alla cattiveria; ohi, umana cattività! Dall’arma bianca ai fucili e poi alla mitraglia e al cannone e, perché temete a dirlo, all’annientamento atomico-nucleare? Non son già state fatte le terribili prove?  La tecnica . . . quanti inganni, quante frodi, quanta consapevole malizia!

 

   Attediati e sdegnati lasciammo quella compagnia; ma non vale irritarsi, trattasi ormai d’una vetero-liturgia, d’una sinistra quotidiana ritualità; docenti soprattutto le tivù e i popoli discenti, da mane a sera si fa banchetto di libertà; in democrazia le folle, i popoli, sono famelici e assetati di libertà ed effettivamente il potere, ovvero i notabili delegati (da chi?), fa gran fatica o meglio s’impegna attivamente a mantenere i popoli in liberal servitù. . .

 

   E mentre ci scambiavamo le nostre riflessioni, sopraggiunsero il freddo e le piogge scroscianti di quei penultimi giorni di luglio . . . Una temperatura bassa, fredda, nord-atlantica, proprio nel periodo più caldo della estate! un tempo insolito, con una temperatura fuori stagione; insolito, sì, ma per niente sfavorevole, anzi! Le fredde ventate spazzarono via d’un colpo quel tedioso accaloramento; lo scrosciar forte della pioggia e il tuono cancellarono dalle nostre orecchie quelle voci tristemente monotone, provenienti dal gran reclusorio globalista. Calò poi una notte fredda, tempestosa, con il vento ululante al pari d’un grosso branco di lupi.

 

  Al mattino di nuovo la pioggia, più leggera come anche il vento, ma tanta, tanta frescura. Sotto il mezzodì smise di piovere; larghi squarci d’azzurro e per limpidi tratti il sole. L’astro aveva moderato il suo fervido raggio e radioso splendeva da lassù, libero e vago, mirando la valle, i poggi e la smagliante fioritura ancor dappertutto intatta.

 

   Libere ac lubenter . . . lubenter ac libere . . . l’ultima riga, sì! la vergammo in quella mattinata tanto simile al mattino d’oggi, e nei primi giorni d’un particolare mese, questo declinante luglio con le sue giornate fuori stagione. Varianze stagionali inattese, ma anche una forte spinta, fuori dalle linee del tempo, in momenti appartati, curvilinei, di tempo rotante. Le due mattinate similiari e lo scritto che ritorna a noi per esser concluso; e poi . . . spaziando libero e vago sulla valle, nuova di frescura e solatia, lo sguardo che intravede, sui variegati poggi e giù nei campi tra l’operoso ronzio delle api, bianchi altari cinti d’edera e cosparsi d’aureo miele, dedicati a lui, a Liber pater, il sole. Il dio che presiede e governa ogni stagione.

 

  Così fu terminato lo scritto e, or che il sole di luglio è tornato a splendere, intendiamo fermamente deporlo su uno di quei lindi altari e dedicarlo a lui che vere liber et vagus est: l’Uomo sole.

 

  Vere, in modo libero, secondo la verità.

  

Libere ac lubenter . . . lubenter ac libere . . .

 

 

 

 

 

 

L I B E R   ET   V A G U S

 

 

Aureum melliferum examen
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NOTICINA AGGIUNTIVA –  Siamo entrati (su invito? per nostro intimo segreto proposito?) nel palazzo delle api, l’antica e sempre nuova magione delle api; nell’aureo alveare, grembo in cui è custodito il più prelibato e salubre degli alimenti, l’arcaico alvo, una cavità nell’arboreo tronco ove Liber pater, illo tempore, radunò e sistemò in schiera l’errante moltitudine delle api. Et mella reperta ferunt! esclama Ovidio.

 

   E del miele rinvenuto furono apprezzati i doni, praemia mellis, e ne gioì il dio dei libamina, poi che suo nutrimento gradito sono i dolci succhi dall’amabile profumo e dal buon sapore che penetra addentro; così nell’interiorità del benivolens homo, colui che coltiva buona voglia e lodevol vaglia, il labor solis libera quella giusta misurata dose di calore – vis caloris – indispensabile per la distillazione dei dolci succhi, quelle soavi virtù dell’animo che fan sapido il sapere e generano la sapienza.  Il solare intelletto che impone generoso slancio all’intimo intento pronto ad osare; il cuore, sede dell’animo, adamantino reggente la cosciente sfera dei sentimenti nobilitanti, e insieme la volontà, se è culta virtù mossa dal dio nel fermo velle con costanza; questi gli strumenti per realizzare nel sé, nel veniente, il vir romuleo, il figlio di Liber pater che è Marspiter che è il sole. E l’uomo, allora soltanto, potrà proiettarsi dal suo recondito cielo sulla terra, pari a l’assiale albero del mondo nel cui alvo arcano Liber pater insediò il prisco alveare.

  

   In seno all’uomo antico ha stanza il prezioso alveare. L’Antico, colui che sta innanzi al tempo e ai tempi degli uomini . . . I tempi degli uomini che azzardano le magnifiche sorti e progressive e misurano il risico sull’utile ambito da un proprio meschino egoismo in una visione individualistica e materialistica della vita o magari la consumano in idealismi, provvidenzialismi, illusionismi d’accatto; e tutto ricorda la secolare incorreggibile “questua dei chierici”; oggi un’unica democratica mistura collettizia: chiericìa, laicità, intellettualità, pubblicistica tv e varie.

 

   Questa modernità è sinistra, truce, minacciosa. Inclina al disumano, porta lo stimma della barbarie. No davvero! non sorprende leggere questo pressante appello: “LE API STANNO SCOMPARENDO. IL FUTURO DELLE API DIPENDE DA NOI TUTTI!” Conosciamo un tale che cura per suo diletto un piccolo apiario, costui possiede anche un frutteto e vi fa uso degli insetticidi. Servaggio dell’uomo d’oggi! Riuscirà mai ad affrancarsi dai vaccini, dai pesticidi?

 

   L’ultimo uomo e . . . COLUI che nell’inalterato, nell’immutevole, firmus sta innanzi al tempo, al tempo logoratore . . . l’Antico che conosce la virtù dei dolci succhi dall’amabile profumo e dal buon sapore che penetra addentro. I dolci succhi! gli elementi i più puri e sottili dell’essere solare, giacché lui, l’antico, liber et vagus est.

 

   Miele aureo e puro, di favo, buono e fresco come il ghiaccio; favo d’api, vero miele. Là, in quell’alvo arcano in cui Liber pater insediò il prezioso dono, il prisco alveare, nel seno della sapienza, nel grembo fulgente, liber et vagus, dell’UOMO SOLE. Immune dalla mortifera egritudine dell’animo e del corpo, invitto da passionalità, ambizioni e amarezza, vero PONTIFEX, egli riporterà all’URBS i sacra, in quel tempo profano (della tristezza e del dolore) occultati, e gli iura sacerrima patrum; indi rianimando nel proprio sé il trionfo, e in sommo grado valente, sarà davvero proclive a far emergere le migliori virtù nelle genti restituite al mos patrius e ai patrii dii, sublimandone altresì i più genuini impulsi; come l’ape, che dai fiori estrae il più delizioso dei succhi, il nettare e, preziosa impollinatrice, opera con fecondante virtù.

 

   Giustizia e Verecondia tornano alla Terra e l’aurea ruota segnerà il dì della grande partecipazione, la luce accecherà l’occhio bieco dell’invidia e cesserà l’insignificante, ipocrita ‘solidarietà’ dei tempi correnti, perché sarà il giorno del sacrificio del miele.

 

   Partecipa pure, dona il più dolce dei tuoi succhi, o miele del mio cuore!

 

 

 

 

 

 

L I B E R   ET   V A G U S

 

 

 

LIBER ET VAGUS
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NOTICINA SOPRAGGIUNTA – Ma sarà davvero una noticina? Lo speriamo bene, e per il lettore frettoloso al quale va tutta la nostra simpatia.

 

   L’orecchio è ancora trattenuto  nella mellifera fucina dal ronzio dell’alveare, una sonorità monocorde eppur sorprendente, vibrante e familiare all’intimo ascolto, ben nota al sottile udito interiore, quello che solo intende le solari monodie, che sono un’ eco lontana del possente canto a una voce, inaudibile quaggiù; il canto che si leva dagli immensi alveari, fucine operanti nel grembo della titanica mole di Iperione, l’omerico Sole, l’altissimo etere, e senza mai fine intente, esse, a distillare il miele inestinguibile della dolce luce. Si veniva appunto fuori dalla magione dorata di quelle iperionidi scintille con l’udito saturo del loro canto astrale sconfinante nel silenzio meridiano; ardente, luminoso silenzio! Rallegrava i cuori arditi l’intenso profumo dei fiori, degli allori e una inebriante libagione di dolci succhi e di miele. Questo accadeva anche a noi, altri un tempo, andando indietro, molto indietro sulla vorticante ruota delle stagioni e degli anni. Tale il moto rotatorio degli astri, quel moto che porta con sé perennemente il loro passato remoto, quello prossimo, il loro presente e il loro domani con il lontano avvenire.

 

   Erano belle, liete, le feste in onore di Liber pater; splendido era il giorno nel quale, indossata la toga virile, la patricia gioventù quirite, sul Colle Capitolino dinanzi alla bianca ara di quel nume tutelare, si dava al culto non volgarmente superstizioso, vale a dire democratico, ma virilmente ascetico, di quella ingenua Virtus altamente selettiva che faceva di essi, novelli cives romani, i LIBERI.

 

                                                                                                *

    Or sia che tu, fanciullo sempre, giovin sorgi

ovver di quell’età ch’è vaga infra le due;

sia perché tu sei padre e ben affidano i padri,

dovuto pegno, alla cura del divin volere i figli,

o Libero sei e per te noi anche indossiamo

la libera, vesta ch’ al buon fin conduce: libere vivere.

Cert’ è – gli antichi ai tempi aravano i campi

con gran cura, il senatore aveva care l’opre

rurali avite, il console lasciato il curvo aratro

attendeva ai fasci – porger la ruvida mano,

no! allora non era vergogna . . . Dal contado

difatti il villico giungeva in Città e assisteva

ai giuochi per festeggiare i novelli quiriti,

ma te primamente onorava, o Libero,

il Sole, nel dì in cui si conferiva la toga . . .

 

 

    Con questi versi, che la nostra traduzione, libera e forse troppo audace, ha voluto sfrondare dei bacchici echi, Ovidio celebra l’antico culto quiritario di Liber pater e rammemora i Romani prischi, i famosi consoli e dittatori agresti che, compiute le fatiche dei campi, con ugual laboriosità e cura passavano ai fasci, cioè al governo dello stato e alla risoluzione dei problemi politici, giudiziari, militari. Quei valenti consoli e magistrati non si vergognavano delle loro mani callose e unitamente ai villici del contado festeggiavano il giorno in cui veniva conferita la toga virile ai novizi, i giovani quiriti; il giorno in cui si onorava soprattutto Libero padre che era Marte padre che era il Sole, salutato con il braccio levato al cielo e la destra mano dispiegata in segno di offerta di sé stessi al dio della luce e del buon consiglio, il saluto romano-italico, il saluto degli uomini liberi.  E chi è più libero dell’uomo che vinta l’egolatria, cioè ambizioni e passionalità, avendo trionfato su ogni bassezza e ingenerosità, su ogni sorta di tirannia, prepotenza e oppressione, nella sede segreta del proprio sé, coltiva intimamente il buon consiglio, quel consiglio prospero e valente ch’ è un lampo di solar luce e il cui benefico deliberare procede e si attua nella suprema legge dell’equilibrio?

 

   Legge dell’equilibrio che l’uomo volonteroso, coltivando sé stesso con proba e retta fede, esercitandosi e prodigandosi in virtù, rinviene o meglio viene a conoscere nel fondo della propria anima nobilitata, cioè spiritualmente elevata per opera dell’intelletto fortificato dalla vista, quindi dalla presenza, della verità; ma, avendone per l’appunto evocato la reale presenza, è preferibile dire: fortificato dalla vista del VERO.

 

    Son miliardi i bipedi che oggi pullulano sul pianeta Terra.

 

   Gea, la dea Terra, in lingua greca Γαῖα o Γῆ, la genitrice di tutte le razze divine, la Madre universale di tutti gli esseri viventi, la divina Tellus/Cerere per i Latini; un corpo, ovvero una massa sferoidale, per la scienza astronomica e nel linguaggio popolarmente materialistico una palla vagante nell’etere, un grumo di fango soprattutto nel pensiero religioso occidentale moderno di ispirazione biblica. E sia! Tuttavia nella Biblioteca, opera in greco del II sec. a.e.v., l’autore scrive: “Il primo ad avere il dominio di tutto il mondo fu Urano, il Cielo. Egli sposò Gea, la Terra. . .” Parecchi secoli innanzi, Esiodo, dopo aver raccontato la nascita del mondo dal Caos primordiale, aveva così tramandato: “Primieramente Gaia diede vita al suo simile, Urano stellato, perché tutta l’abbracciasse e fosse per gli dei beati la perenne dimora. . .”; ciò avvenne senza l’esigenza dell’unione sessuale e, a dir del poeta, solo dipoi Gaia “generò abbracciata a Urano” e fu madre dei primi dei, i Titani, tra cui Crono, e quindi fu ava degli dei Olimpi. Questi brevi richiami teologici e mitici giovano a propiziare l’ingresso della mente in spazi più vasti, luminosi e lieti che non siano il consueto bugigattolo del pullulante bipede o gli angusti anditi e gli asfittici corridoi ministeriali della globalizzazione. C’è sempre del portentoso nelle narrazioni mitiche, la mente desta non è mai sazia nell’ascoltarle per apprendere verità, giovarsi di nuova conoscenza, aver contezza dell’incognito che urge nell’intimo. Una voce che, se ascoltata da un orecchio adulto e in grado di coglierne gli accenti più segreti, spiazza il mentale rattratto dall’ambascia del pensiero languente nella quotidianità, svilito dall’apprensione per gli incarichi, le mansioni; sbenda la vista impigrita, perché a lungo domiciliata sulla soglia dell’uscio. Infatti in quel mare di bipedi, setacciata la poca e perciò preziosa farina, volendo fare una indagine a campione tra singoli individui scelti a uno a uno, si constaterebbe che versano nella penosa, greve inconsapevolezza di quel che valga l’autentico, naturale stato umano e del suo eminente fine, ignorando persino la semplice misura del giusto vivere, considerando al più questa terrena esistenza al pari d’un passatempo, e magari faticando duro ma al solo fine di sbarcar la vita o godersela vivacchiando come meglio si può; somma libertà cotesta! Mah! Tutta questa gente repressa dalla cui gola udrete giornalmente venir fuori, nei momenti migliori, un timoroso e soffocato: “eh, speriamo bene!”, mai pronuncerà un limpido, augurale “ah, che bel sole stamane!” con negli occhi un radioso sorriso. Sì, proprio così, è di buon augurio evocare la ricomparsa di uomini con lo sguardo sorridente sul mondo e in una visuale solare; uno sguardo liber et vagus

 

   La sterminata torma dei bipedi dilaga ovunque al pari d’una indistinta fiumana; quelle folle in qualunque paese del globo han dimora, sebbene ancor suddivise in popoli nel cui subcosciente cova e di continuo viene alimentato il terrore atomico, sono spregiudicatamente tiranneggiate da pseudo-governanti egocentrici, ipocriti, bugiardi; millantatori il cui concupiscente narcisismo a lor volta riduce a bipedi da basto, asserviti ad un potentato sovrannazionale, apolide; il sinistro potentato dei senza patria, anch’essi a lor volta servi del “vermo che il mondo fora”, esecrabile entità, mostruosità aliena, che ha tradito la luce divina e da cui procede ogne lutto nel mondo capovolto da cima a fondo; abominio d’una entità criminosa dall’Alighieri confitta nell’infernal gelo del “tristo buco”.  Di ciò si è già trattato nel paragrafo finale dello scritto ‘Proditores patriae’ in fondo alla pagina ‘Calendimaggio’, cui si rinvia.

 

    Non fu un caso, né fu un evento improvviso, ma tutto fu preparato e con sottile perfidia. Innanzi tutto s’avanzò il bieco intento di svilire il primo e sommo monito, ‘nosce te ipsum’, per sostituirlo con l’intimidatorio ‘memento mori’, eppure da tempo immemore è consueto agli uomini il nascere e il morire; ma ci saranno di poi ancora l’anno mille, le pestilenze, la tv, il rischio ambientale, la bomba atomica e gli Armageddon. Insomma, terrorizzare, narcotizzare, stordire, drogare. Si è puntato con tali mezzi a la scomparsa dell’uomo attestatore di sé stesso, e cioè testimonianza viva dei suoi propri avi, confermativa d’una presenza dell’antica religio, del mos maiorum. Si è voluto, con calcolata nequizia, eradicare la fides dal cuore delle genti per degradarne giustizia e verecondia, e così far vacillare le menti indirizzandole all’esercizio d’un cerebralismo irrequieto e dubbioso, con il fine maligno di inficiarne l’azione e assoggettare la vicenda umana ad una fatale, inesorabile legge di gravità. Si sostenne dapprima una concezione di vita edonistica e utilitarista e poi se ne incentivò la pratica (ciò soprattutto provocando la degenerazione del governo dei migliori, gli ottimati, e suscitando l’avvento delle oligarchie democratiche e mercantiliste); infine si passò a stimolare una ricerca febbrile, negatrice d’ogni spinta spirituale, di benessere, svago e piaceri, mirata a diffondere un materialismo che tutto coinvolge (filosofie, religioni, chiese) per ancorarsi di conseguenza al ferreo attracco d’un meccanicismo disanimante il mondo intero. Un nichilismo asfittico e nero che continua a scorare e a sradicare i popoli e a impedire alla persona umana, indebolendone la fibra spirituale, la solare volontà d’azione.

 

    Il mondo rovesciato dal tradimento contro gli avi e la terra degli avi, patria terrena e soprattutto patria della cultura dell’animo, quindi tradimento verso la divinità di Liber Pater, la solare intelligenza che unifica mente, cuore e azione e con la raggiunta plenitudine della coscienza, equilibrio e misura, fa l’uomo libero. Il solar raggio spurga la mente dalla malizia, che al contrario la ottenebra, purifica il cuore dai maligni sensi che lo fanno tristo, indirizza l’azione al giusto agire sgominando ogni malvagità. Non più un passivo figurante, un asservito, perché risvegliatosi nella luce, maestro del buon consiglio, l’Uomo sciente è in sé libero, e quindi può con giustizia agire da protagonista nella realtà del mondo. Realizzazione in interiore homine quindi e non supina accettazione di una qualsiasi ‘rivelazione’ divulgata dall’ esterno, imposta alle menti e agli animi con aprioristica supponenza come articolo di fede.

 

   A onta di tante micidiali minacce, appaiono segni che sta per tornare il tempo dell’UOMO; il nemico dell’uomo, ormai così interno allo stesso uomo, sta per esser sconfitto e il vermo da cui procede ogne lutto sta per essere stanato dal tristo buco. Sulla soglia del Tempio ricompare Minerva, sul capo il fulgido elmo, impugna la lancia; ma non temete è la Minerva Medica che viene a liberare la mente degli uomini dall’angoscia, dalle ossessioni, dal terrore e a rendere ad essa ciò che le era stato sottratto, il concepire immacolato, cioè la facoltà di osservare il mondo (lat. ob-servare, anche nel senso etimologico di custodire), la natura e la vita sine labe, in salute, nella piena integrità. Premessa d’armonia e di ordine nel mondo, di amicizia tra le genti. E l’antica promessa di Liber pater ancora una volta raggiunge gli uomini e la natura tutta, il vivente mondo; tornano chiare e limpide le acque, tornano a circolar sane linfe, a maturar novellamente i dolci succhi, e nella sacra cavità dell’albero cosmico si riudrà la singolare, astrale canorità della mellifera fucina, in concordia operante.

 

 

   E, sopra tutto, colui ch’ esperto è nel guerreggiare, exercitatus et sciens belli quia vere liber et vagus est, prestantissimo quindi nell’alto,solare concipere sine labe, pro patriae civitatisque libertate. Liber pater, primus auctor triumphi!  

                                                                                             

  Libere ac lubenter. . . lubenter ac libere . . . In tal guisa intendiamo suggellare questo nostro lungo scritto? E, per il lettore frettoloso, forse anche troppo . . . Che? Troppo prolisso? Eh, il tempo, il tempo! E questa nostra mania da buontemponi d’andar contro tempo . . . Cosa ancora? Siamo controtendenza? Davvero? Mica ce n’eravamo accorti! E, allora? Al riparo, al riparo! Al riparo di Liber pater, nel mitico tempo, nella mitica stagione dei liberi, perché ingenui...cioè patricii. Fuor dalla ria stagione dei ‘mala tempora currunt’, ovver della temporaneità del demo-liberalismo illiberale, in altre parole forse più veritiere, di Sua Signoria la Tirannide in vestaglia carnevalesca; il tiranno infatti indossa la veste che più aggrada ai suoi imbelli sottomessi cui ha fatto duramente piegar la cervice. L’imbelle è colui che non sa condurre alcun genere di guerra, ma ciò vale anche per il tiranno; il tiranno è l’avversario, e quest’avversario può star dentro ed esser fuori; infatti il guerriero sa sconfiggere il tiranno, perché il guerriero, sempre vigilante, per primo ha sconfitto in sé le insorgenze egolatriche e quindi tirannesche. Per tanto egli è al riparo dagli affronti, dai soprusi. La lorica, qui figura retorica per indicare l’arma di protezione contro il prepotere dell’avversario, l’abbiamo rinvenuta nel mitico tempo della stagione guerriera di Liber pater che è Marspiter che è Sol . . . Su, sveglia, lustriamo le nostre loriche, che sappiano risplendere nel sole!

 

   Ebbene? Riteniamo ancor possibile che si possa apporre un suggello a questo lungo discorso? Un discorso che, di buon grado e con piacere, vuol esser, di sua natura, liber et vagus . . .  

    

PINO LORICATO
PINO LORICATO

 

 

 

 

F L O S  L I B E R I

 

 

tralcio autunnale
tralcio autunnale

 

 

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grappolo di Sagrantino, liber et vagus nel cielo autunnale dell'Umbria
grappolo di Sagrantino, liber et vagus nel cielo autunnale dell'Umbria

 

 

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Vindemia - offerta a LIBER PATER
Vindemia - offerta a LIBER PATER

 

 

 

NOTA ACCESSORIA

 

   La sera del 30 gennaio 2015 (il racconto è su questo sito alla pagina ‘Discorsi interplanetari di Ser Spaventacchio’ - Discorso I - Sul volto di Pietra) discorrevamo tra noi del clericalismo che da secoli fa il bello e il cattivo tempo sul suolo d’Italia, riferendoci non soltanto al dominante clericalismo ecclesiale che ha sempre imposto il suo spregiudicato  divide et impera (regola nefasta prettamente clericale), ma anche ad ogni altro genere di clericalismo in concorrenza con il primo al solo scopo di frammentare questo popolo già tanto vilipeso, dividerlo in fazioni perennemente avverse con il culto della partigianeria e così ridurlo all’impotenza; altro che democrazia! Tutto ciò sempre a scapito della sua millenaria cultura che ha dato lustro all’intera Europa, e sempre a detrimento delle sue libertà, cioè a dire i diritti, civili e politici. A questo popolo è stato addirittura preclusa, e da più decenni, una consona crescita civile e culturale, rendendolo in parte – nelle sue componenti soprattutto politiche: dirigenti, ideologhi, educatori – imbelle ad adempiere i suoi doveri, tra cui quello primario e imprescindibile di non far scadere il prestigio della patria soggiacendo alle tirannie allogene. I bendisposti, pochi, restano inascoltati e, ignorati, vengono isolati.

   Il clericalismo, comunque formulato, è sempre diseducativo e divisivo; esso racchiude sempre un fondo settario, infatti è totalmente dottrinario e assiomatico, poi sterilmente esclusivista e quindi intollerante. Il clericalismo non è mai aristocratico, non si adatterà mai alle cerchie e alle sodalità di ottimati, a meno che questi non si pieghino alle superstizioni fideistiche, cedendo a religiosità di tal sorta e alla pratica devozionale. Se poi il clericalismo procede strettamente congiunto con il confessionalismo per una lunga durata di secoli, affermando tra l’altro nelle masse con rigida intransigenza un modello astratto delle sorti dell’umanità le cui vicende vengono da esso affidate ad una improbabile provvidenza divina in cui l’individuo umano deve confidare, ne deriva che esso è pur nefasto ai popoli, perché provoca grossi squilibri nella loro percezione identitaria e quindi nel loro essere unitario, come già detto, separando le genti dall’originaria fonte del loro mos e inducendoli a non vivere più more maiorum, ma in un tribolato esilio che li precipita nell’abisso cieco di un’esistenza nullo more, cioè senza ricordo, senza tradizione, senza il pregio della cultura avita. Il monotono, intimidatorio avvertimento, quel secolare prolungato suono di campane a martello, quel funesto, deleterio “memento mori” ha prodotto infine la cultura del materialismo con lo svilimento della presenza dell’uomo nel mondo, la svalutazione della sua esistenza e del suo agire con il sopraggiungere del nichilismo.

   Sul frontone dell’antico tempio di Apollo in Delfi, leggeva il viandante la scritta celebre: “Nosce te ipsum”. Il monito sapienziale era rivolto al visitatore voglioso di apprendimento: l’uomo non può accedere alla conoscenza se prima non si rende conto dei limiti, i difetti e le carenze, posti dal suo egoismo. L’agire utilitario fine a sé stesso, aridamente egoistico, è sterile, infruttuoso e vano; ragion per cui al visitatore volenteroso e combattivo i sapienti indicavano con quella massima il cammino, liber et vagus, del Sole; di Liber pater il buon consiglio, l’agire giusto e virtuoso, la conquista del lume radiante conoscenza. I padri sapienti infatti tendevano ad avvicinare l’uomo alla conoscenza, preparandolo al risveglio dell’intelligenza ermetica – summa est autem velocitas mentis … ideo pennis Mercurius quasi ipsa natura solis ornatur – onde potesse con la solare operosità del suo animo, il sole è la mente del mondo, penetrare il mistero, l’aureo mistero della vita. Ma la furia del settarismo clericale distrusse il tempio e cancellò la scritta dal marmo e dalla memoria delle genti.

  “Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”. . . don, don . . . don, don … nihil … nihil … nihil … annichilamento …  don … don … don … ad nihilum!

  È vero, non ci si fa caso, ma anche queste cose, per esempio quel martellare insistente, s’annidano tra gl’intrecci degli avvenimenti, si nascondono (cause svianti, elusorie?) nelle pieghe dei secoli e della storia; incidono profondamente sull’animo dei popoli, plagiano il carattere degli individui e delle genti.

   Relegando l’individualità umana in un astratto fideismo, le varie chiese nulla hanno fatto per avvicinarla alla conoscenza del mistero della vita; anzi hanno abbandonato quest’indagine alle scienze empiriche e al positivismo ateo e materialista. La fede in una verità che si vuole rivelata, e in seguito viene proposta con una dottrina predeterminata e rivolta alla generalità degli uomini in modo indistinto, non sarà mai una certezza, una singolare conquista, una conoscenza acquisita con la personale fatica e con la consapevolezza assoluta del proprio essere; rimarrà una devota, comune aspettativa, una dubbia attesa oppur fanatica speranza; di rado e in particolari persone, per distintiva natura, un mistico tendere.

  Di solito il clericalismo esordisce fanatico e intransigente, cioè ha un avvio settario. Il settarismo diffondendosi si duplica, si triplica; proliferano le sette; una base, un fondamento comune, ma iniziano le divergenze, i dibattiti, le liti: idee, pensieri, regole, convincimenti diversi si fanno strada. Infine la fazione più agguerrita si porta sulla strada più agevole da percorrere, perché più adatta alle opportunità del momento; la strada che ti dà vantaggio, che ti fa avanzare. È la setta che ormai si è affermata e consolidata, numerosissimi sono i proseliti. Un’adunanza di gente disparata che s’eguaglia nell’accettazione d’una stessa credenza e dottrina religiosa oltre che d’un capo indiscusso, e in ciò ripone una cieca fede e una sconsiderata speranza. E quella che fu una setta si compone in una chiesa, accoglie il suo gregge cui impone i pastori, cioè il proprio clero, e, per tutti, una uniforme dottrina. Una ripetitività che durerà per secoli, mentre, e nonostante la pretesa universalistica, il settarismo coverà perennemente sotto la magnificante monumentalità dei mistici apparati. Ritornano le divisioni, le chiese separate, d’oriente e d’occidente, gli scismi, le sette e le chiese protestanti; e poi con i mutamenti conciliari i dissidi interni, le divergenze dottrinarie, il logoramento dei dogmi . . . è l’animo settario in agguato; la vantata universalità equivale dunque solo a una inattingibile pretesa?  Una convenienza o forse necessità epocale? Comunque una situazione storica transitoria.  Trattasi in fine di saper giudicare e soprattutto di saper vedere, infatti solo da una vista sapiente sgorga un limpido discorrere, da quest’ultimo discende semplice e puro il giudizio per poter indi giungere ad una piena, verace comprensione.

    Non intendiamo affaccendarci nei corridoi e nei ripostigli della storia per investigarne i grovigli e rincorrerne gl’andirivieni, troppa carta e troppi calamai! Veniamo perciò al dunque di questa nota aggiuntiva che si connette agli accidentacci politici ultimi che hanno inzaccherato lo stivale. I clericali son maestri di impicci e impiccerelli, oltre che abili aggiratori ed esecutori di finzioni e fraintendimenti e i loro colpi di scena non hanno nulla di stupefacente, sono banali ovvietà. La chericherìa del parlementarisme italiota può stupire soltanto l’acritico fideista democratico e il popolo eletto della Carta con i suoi padri-archi, i sovranisti costituzionali del terzo millennio. Di clamoroso, forse, il raggiunto culmine di tapinità democratica e di cialtroneria da politichini degli onorevoli “maganzesi” in campo; appellativo, quel di maganzesi, che abbiam tratto dal gergo dei pupari, infatti sono i marionettisti di sempre, quelli del potere che conta, che hanno, ovviamente ancora, inscenato il vergognoso teatrino. Il grottesco o, di più, l’assurdo è che le marionette, non accorgendosi dei fili che le tirano su e giù, vantano la dignità d’uomini liberi e, via . . . in gran sbrigliatezza a darsele di santissima ragione, a sputarsi addosso accuse e rancori! Il rancore! dal latino rancŏr, ōris = rancidume, derivante dall’aggettivo participiale rancens, entis = rancido, putrefatto, da cui la loro rancidŭla democrazia.  E il popolo? Il popolo assiste alle burattinate, c’è chi parteggia per l’uno o per l’altro e chi si indigna, ma avvezzo a clericaleggiare per lo più batte la fiacca; il gesuitico clero massmediale, con tipica scrupolosità e modalità pretesca, inocula continuamente nell’organismo popolare dosi di narcotici e il soporifero politically correct; tartufesca correttezza del corrente giornalismo! E così il popolo viene svuotato del suo kràtos, della sua forza, del suo vigore e se ne sta buono. Ma se osasse solo un momentino! . . .  basterebbe in quell’attimo ammonirlo richiamando alla sua intimidita memoria il corruccio del “nostro potente alleato” e loro affabile padrone, oppure il rischio delle incombenti catastrofi ambientali et cetera. L’intento più mostruoso del clericalismo è il voler avvilire moralmente questo popolo per provocare la distruzione della sua forma identitaria e culturale con l’oblio delle sue origini; pertanto gli han messo alle calcagna una prefica furente con un petulante seguito ancillare. Questa grottesca masnada, asservita al vermo reo del tradimento, incalza, con un largo sostegno mediatico, turbandola profondamente la buona gente, la grande proletaria d’un tempo, e la sgomenta con la minaccia-rischio della diminuzione delle nascite e la eccedenza delle morti . . . il fatidico don don del “memento mori! Osservate, amici, questa democrazia quanto costa al popolo e quanto è sdrucciolevole e fasulla! Le dame e i dami della masnada, che qui abbiamo descritto nella sua vera peculiare natura, sono purtroppo rappresentanti del popolo italiano ed essi ne ricambiano in tal modo la fiducia accordata. Il popolo, del quale occorrerebbe esaltare l’operosità e il vigore ingenerando in esso felicità per invogliarlo a esser fecondo, viene depresso e addirittura persuaso all’impotenza generativa. Insomma non legiferano al fine di agevolare la crescita di nuovi nuclei familiari per incrementare le nascite, ma perentoriamente predicono che tra quaranta/cinquant’anni l’Italia sarà un paese di vecchi senza figli e nipoti. Vogliono l’abbattimento dei patri confini e auspicano la migrazione nelle nostre città e campagne di milioni d’africani che, così sostengono, saranno “l’avanguardia di un rinnovamento civile e sociale e di un nuovo stile di vita che ci farà avanzare sulla strada della futura civiltà”. Dunque un futuro afro-italiota a guida nigeriano-senegalese e con sottocultura di ispirazione bergogliana, cioè amazzonico-maoista. Ohé! sveglia! sveglia! Ohi là, che cacchio di gente è questa! Che diavolio! si fossero spiritati i porcai? Ehi sì! sì, guardate proprio in quel ambiente, nella porcilaia, nel troiaio del fazioso clero radical chic!

   Il clericalismo! Covatore di risentimenti, di faziosità, d’una moltitudine di sette . . . Il clericalismo millenario che cala di secolo in secolo come un incessante massiccio sipario sul fascino della natura vivente, allontanando sempre più l’uomo dall’arioso splendore del giorno, dalla fiammeggiante vita, dall’operosità solare e lo confina nei crepuscoli d’un’esistenza che si spegne nell’ansietà delle attese . . . le attese inquietanti dei temibili giudizi scanditi dai lugubri rintocchi delle campane a morto. Funerei cleri evocanti di continuo la dissoluzione! Il clericalismo, anzi i clericalismi che son fatti di giorni e giorni ininterrottamente cupi.

    Occorre ridare alle genti la gioiosità, i giorni festosi di Libero padre che è Marte padre che è il Sole, rendere quindi ai popoli il carattere, l’animo, la forza e il vigore, il loro proprio genio e l’innato sentimento patrio, la mente e il cuore della loro cultura avita; e, con il kràtos, anche l’aspirazione all’autorevolezza ch’è propria dell’aristocrazia, ed è appunto il governarsi con la generosità e le virtù  conseguite per solare operosità: giustizia, verecondia, e l’intelletto fortificato dalla vista del VERO. Questi in un popolo i segni chiari e veridici della riconquistata libertà.

   Riallacciamoci adesso all’inizio di questa nota e a quel . . .

 

    ““Tardo pomeriggio di tempesta. Il vento urla furioso. Uno tra noi ricorda il bel film di Kurosawa del 1975 nel tratto in cui il personaggio principale, il piccolo uomo delle grandi pianure (è l’anno 1902), il cacciatore sciamano della foresta siberiana Dersu Uzala svela al capitano Arseniev l’anima dei luoghi. Indicando gli astri, la luna e il sole, li chiama 'uomini forti', grandi compagni di viaggio dell’uomo; così simboleggia, personificandoli, gli elementi, il fuoco, il fiume, il vento 'altro omo forte'… E il vento fuori si fa sentire, soffiando vigoroso…

   Frattanto la tivù trasmette notizie dal Parlamento, dov’è in corso la terza votazione per la presidenza della Repubblica. Il vento 'omo forte' soffia sempre più vigoroso… D’improvviso vengono trasmesse immagini della torretta del Quirinale. Preciso, l’occhio della telecamera inquadra l’arco campanario ed il pennone centrale spoglio della bandiera, mentre il vento africo agita lassù, sotto la croce dell’arco, “lacerandolo”, il tricolore che con rabbia ha slegato dall’asta.

  L’amico che aveva introdotto il discorso sul film di Kurosawa esclama: "Perché 'omo forte' ha fatto      questo?"

   "Che c’entra 'omo forte'…" Replica la voce d'una donzella, che noi chiamiamo scherzosamente la “matterella”.  "E’ il vento della storia," insiste, "il nostro tricolore è fragile, andrebbe potenziato con l'aggiunta d'un emblema forteSu quel palazzo, che fu dei Papi, in questo momento storico pare voglia prevalere un più cinico dominio clericale... S'alzerà una ventata insolente di clerico-populismo..." E si zittì!

 

   All’Altare della Patria risuonano le note del Piave…

All’alza bandiera un volto terreo impietrito è fisso al tricolore che sale…

   "È tempo di cambiamento . . ." Aggiunge ancora la nostra sibilla. "E chissà, nel Volto di Pietra il volere di chi prevarrà?"

 

   È uno dei sette colli, il Quirinale.””

 

   Era la fine di gennaio dell’anno 2015; poi dal primo di giugno 2018, data dell’entrata in carica, seguì il governo del cosiddetto “cambiamento”, che suscitò tante illusioni in Italia tra larghi strati della popolazione. La delusione, che ha colto di sorpresa quanti avevano riposto ferme aspettative nella combinazione chiamata “giallo-verde”, non ha minimamente sfiorato la nostra attenta considerazione di quei fatti; né ci ha sorpreso quel capitombolo degl’inizi di settembre né la precipitosa comparsa del successivo governicchio in carica dal quintidì del fruttidoro scorso. Una giacobinata niente affatto sensazionale, o piuttosto una goliardata da chierico della Puglia? Qualcosa di risibile, insomma una ridicolaggine. Tutt’altro che serio e dignitoso, si assiste a un darsi da fare incerto e subdolo a un arrabattarsi equivoco, a iniziative frettolose; poi una rabberciata qua e una là, e, al potere da qualche settimana, si presentano in tv e ti descrivono il paese di Cuccagna. Fantastico! Ma per adesso . . . Ahi serva Italia!

   C’è da chiedersi, esistono più menti capaci di riflessione? Vivono ancora spiriti meditativi? Spiriti pensosi delle responsabilità che comporta il loro agire politico e atti a far di quest’agire l’arte del buon governo?  Come può aver contezza d’esercitar bene il proprio ufficio chi non ha raggiunto la piena consapevolezza di sé, chi non ha maturato un sano autocontrollo e nel suo agire saggezza ed equilibrio? Il buon governante deve coltivare la generosità che è benevolenza e amorevolezza, perché deve perseguire la giustizia e curare la costumatezza nella società, non trascurandone il benessere nella moderazione. In breve, deve possedere ed effondere tanta cortesia e affabilità, che non sia vacua ostentazione, ma espressione della mente e del cuore che risoluti s’aprano salutarmente alle genti. Egli, il governante, deve esigere a sé stesso l’esattezza del suo pensamento e dei suoi atti, onde la sua opera risulti compiuta con gran cura e precisa e, tolto via il guasto e il superfluo, appaia conforme al vero, alla pura realtà. E invece assistiamo a questo volgar moto – e quanti pur vi partecipano! – a questa agitazione inurbana, chiassosa, sfacciata e che trascina gli animi a uno scontro continuo.

   Catto-laici, clerico-fascisti, catto-comunisti, catto-umanitari, democristiani, social-clericali, catto-mediatici, catto-solidaristici e poi il clericato radical-marxista e quel che resta. Questi ideologisti con i vari sottogruppi tendono tutti e senza discernimento a risolvere i problemi della vita e quindi i problemi sociali con il tassativamente ideologico, dunque in modo astratto; difatti l’ideologia deve predominare sempre sulla osservazione immediata, senza cioè interposizioni, della realtà; pertanto, e rovinosamente, il loro impianto concettuale, basandosi su principi e concetti ideologicamente precostituiti, subisce l’ideologia e si perde nell’astrazione e le loro menti e le loro azioni divergono, senza che lo si possa  evitare, dal concreto, dalla realtà; così si vanno a generare anche sterili prolungati contrasti tra concettosità opposte, spesso solo apparentemente. E a godersela è il Gran Tosatore: i clericalismi sono le sue greggi, la sua officina lanaria produce a ritmi crescenti. In pecore pecunia consistebat, così era ai tempi del buon Varrone; e il bestiame d’oggi? Il gregge clericale, con la mista accozzaglia ideologica, la turba mediatica, l’accolta degli ateisti; chierici e schiericati, tutti nella stessa folla, la moltitudine dei devoti al buon padrone, il Tosatore atomico.

   L’ideologista non ha mai sufficiente acume per penetrare il vero, spreca tempo ed energia nell’attività d’una ricerca intellettuale astratta o nella cura che pone a motivare le pretese ideologiche del suo partito.  L’ideologizzare discende direttamente dal clericalismo dottrinario che deriva dalla dottrina gnostico-cristiana predicata dall’ebreo Paolo di Tarso e che fu un misto rielaborato di proposizioni e dimostrazioni neoplatoniche volgarizzate, di suggestioni del tardo orfismo e dell’insegnamento del rabbi esseno Yeshua, che più che dottrineggiare faceva grande uso della parabola.

    Al dottrinarismo e all’ideologismo s’affianca quasi sempre il messianismo inteso come attesa fideistica in cambiamenti radicali e straordinari. Mitomani e visionari a braccetto, dottrinari, ideologi e messianici non fanno altro che inseguire i propri desiderata, cioè quelle realtà fatue che sono solo il prodotto del loro immaginare, eppure diventano l’oggetto ossessivo della loro voglia di possederli per davvero; oh, quei desiderata! Quando sentite lo slogan “la fantasia al potere”, state in guardia, possono essere guai e nel più pacioso dei casi amare o ridevoli disillusioni. Cercate di non smarrire la facoltà di osservazione diretta della realtà, non vi lasciate sopraffare dal predominio dell’ideologia, non vi lasciate sedurre dalle dispute ideologiche, sono apparenti contese; sempre la stessa untuosità, quel mellifluo, mucido dottrinarismo; sono accalappiatori secolari i dottrinari e anche abbindolatori seriali, ci son cascati interi popoli e anche menti dotate, queste ultime per loro natural propensione e divozione, e nulla c’è da eccepire; inoltre c’è sempre da distinguere la religiosità e il culto sincero dal cupo dottrinarismo clericale e ipocritamente devozionale. Papa Bergoglio ha i suoi seguaci e il Papa emerito i suoi sostenitori, bella gara tra bacchettoni! a quale delle due sette attribuireste un immaginario premio Strega per il beghinaggio? Riteniamo che dovrebbero spartirselo in parti uguali. E con questo esempio, improvvisato alla bell’e meglio, speriamo di aver chiarito l’aspetto più nascosto dell’ultra millenario, proteiforme clericalismo. E, una volta infranto il frontone del tempio di Delfi, riflettete seriamente di quanto quel millenario clericalismo abbia potuto incidere sul carattere delle generazioni d’occidente.

   Il demo-clericalismo di casa nostra anch’esso è vecchio di secoli, anche ai tempi dei guelfi e i ghibellini funzionava come abbiam detto; il Papa scomunicava l’Imperatore, ma la presenza d’un vescovo ghibellino era assicurata alla corte imperiale. Quanto agli amori insani il clericalismo li praticava nel medioevo come ai giorni d’oggi. C’erano gli ordini meditativi dei mistici e c’erano gli ordini combattivi. Il clericalismo non s’è fatto mai mancar nulla. Papi, vescovi, cardinali han praticato il mecenatismo e hanno assoldato e protetto artisti, architetti, filosofi e letterati; ma i pensatori ribelli che rifiutavano il dommatismo venivano incarcerati o messi a morte tra le fiamme. Il clericalismo è stato sempre egalitario, pietoso, cedevole, compiacente, nel contempo duro, rigido e anche inclemente. Non popolano e sostenitore del popolo, ma populista senz’altro, perché dai tempi del fondatore, Paolo di Tarso, nel dottrinarismo clericale è insito un modello totalitario etico-sociale di tal fatta e per l’appunto comunistico, il cosiddetto gregge cristiano. Ma questo secolare clericalismo appare ormai in fase di obsolescenza, giorno per giorno esplodono le sue interne contraddizioni. Non sarà in grado di affrontare e resistere alla metanoia prossima ventura, cioè al vero profondo cambiamento. Così anche, e di conseguenza, la democrazia vacilla; come scrisse Platone: “In tal maniera la democrazia muore: per abuso di sé stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo.”  È ciò che sta qui accadendo, in questi mesi, e chiaramente lo si scorge nella cupa temperie politico-culturale della Roma ‘etrusca’ della Raggi, di Bergoglio, Mattarella e il chiercuto bis Conte della pochette(ezza) dal musetto volpino.

 

   La prima ventata insolente di demo-clerico-populismo è passata, ce ne sarà un'altra? Oppure verrà, il gran Chierco escluso, una schietta ventata popolana, invocante a una voce la venuta del buon nocchiero? Una vigorosa ventata italica?

   Non più stantie dottrine e ideologie, ma una visione. Una solare visione del mondo rigenerato dal buon consiglio del radiante astro vere liber et vagus: Sol Marspiter Liber pater.

   La vista lunga, la vista del vero.

   L’Urbe attende gli indispensabili netturbini, che spazzino via il mondezzaio e la superstizione. Attende che i fantasmi della Tuscia vengano scacciati e restituiti agl’inferi.

 

*

 

   I poeti comici greci della commedia attica antica, insuperati beffeggiatori dei demagoghi e dei metodi democratici di quei tempi, ci tramandano che in città non erano visti di buon occhio quei notabili che deambulavano lemme lemme, cioè con andatura timida e indecisa. Peggiore il biasimo verso quei notabili che procedevano lungo la strada cauti, quasi sospettosi, palesando grande diffidenza, con il collo incassato tra le spalle e la testa un po’ curva. Il commediografo Frinico, contemporaneo del rigoroso Aristofane, segnalava questo difetto in Nicia, famoso politico e stratego ateniese che Plutarco accusava anche di superstizione e pusillanimità.

 

   Adesso, nel prender commiato da questo scritto, vogliamo augurare ai nostri lettori, e a noi altresì, di goder felicemente delle splendide giornate d’ottobre e dei dolci succhi che colano dai frutti autunnali tanto cari a Liber pater. Rinunciata la vite, egli già s’incorona della sempreverde edera; che il suo caldo raggio allieti questi giorni autunnali operosi e meditativi e il plenilunio d’ottobre riversi la sua fertile luce sui nostri campi e sui tetti delle nostre case e, a noi tutti viandanti, schiarisca le notturne vie.

 

  E ancora una volta concludiamo con la nostra sibilla: “È tempo di cambiamento . . .”  – ci ripete di nuovo  “E chissà, nel Volto di Pietra il volere di chi prevarrà?”

 

    È uno dei sette colli il Quirinale.  

 

 

meditabondo il colchico autunnale è tornato a fiorire nel nostro campo
meditabondo il colchico autunnale è tornato a fiorire nel nostro campo

 

 

 

 

LIBERARSI DELLA LIBERTÀ

 

 

  

   Lo scritto che vien dopo questa nota è la composizione d’anni addietro che ritrovammo tra le nostre carte nei primi giorni dello scorso luglio e di cui abbiam fatto cenno trattando di Liber pater. A rileggerla ci è sembrata una sorta di “grida”, ovver proclama, volta ai tanti tardivi giacobini nostrani che hanno perpetuamente sulle labbra la parola libertà, per giunta declinata sempre al plurale e congiunta al possessivo, le mie, le tue, le nostre, le vostre libertà . . . uno spreco! Ma più che uno scialare nella libertà, che sarebbe come un disperdersi nel libertinaggio il che avviene e con gran frequenza, trattasi anche di un’ostentazione, cioè di far vanitosa pompa d’una virtù non acquisita e quindi mal praticata; un mero snobismo. E sappiamo bene cosa coprono i comportamenti snobistici: con la mellifluità si insinuano dubbio e malizia; con la maleducazione e la malacreanza si diffondono sempre di più scortesia e sgarbatezza, ch’è mancanza di amabilità, di benevolenza e si prepara infine il terreno alla discordia. La società invece di fondersi in una unità si frantuma in una moltitudine di egocentrismi che si coagulano in seno ad un volgo becero e vile e vi serpono odi ed invidia; poi, superando i limiti della convenienza, alligna e cresce ogni licenza, corruzione e depravazione. Infatti la corruptio opinionum, prima o poi, determinerà la corruptela morum e accadrà l’irreparabile, perché ogni corrotto sarà a un tempo anche corruttore.

 

    L’arrovesciatura prende il posto della dirittura, della rettitudine. E sopravviene la tirannide degli arrovesciati, sempre più forte se n’addensa il lezzo. Si misconoscono le convinzioni, i meriti, le imprese dei padri, si disconoscono le patrie virtù, le nobili tradizioni. Corruttela dei costumi e depravazione, declino culturale, disfacimento sociale, decadimento e di conseguenza asservimento politico e, ancora, assoggettamento alle voghe, alle arti, alle simbologie, ai linguaggi stranieri. E poi, la trasgressione . . . evviva il trasgressore! evviva la trasgressora! Quelli che trasmodano, quelli che trascendono il mascolino e il femminino genere, che operano le trasmutanze, le trasmigrazioni, le transumanze ormonali, tutti esiti delle apostasie clerico-sessuali. Sì, perché interviene anche il polically correct, locuzione appropriatamente anglo-americana, ad esaltare e santificare tutto questo rimescolio, e guai ai guastafeste che pretendessero di rifarsi alle leggi divine, della natura o degli uomini; e proprio a quest’ultime frattanto si rifanno i transfughi e le transfughe invocando le cosiddette libertà o diritti civili, anzi ne pretendono un dismisurato ampliamento. Puntano, insomma, al massimo dell’arbitrio e della licenza oltre che a un transessualismo dispotico, bolscevico, totalitario, per inaugurare quanto prima l’era del globalismo con il ginandro prodotto in laboratorio, senza più gl’impicci di ascendenti e discendenti, padri e madri, figli, figlie e nipoti. Un ginandrismo comunistico globalizzato, sterilmente sessuomane, con opinioni, usi e costumi radical-chic e con una classe di robot altamente specializzata in ogni settore della tecnica; un massivo desolante sterilume! Ma forse, e detto in giovinastro, questa gente davvero sclera, e di brutto.

 

   Arrovesciarsi, in latino inverti, l’infinito nella forma passiva del verbo, inverto, is, inverti, inversum, invertere, nel senso di invertire, rivoltare, capovolgere, sconvolgere, insomma l’inverso, quel che va nella direzione opposta a quella giusta; è il verbo appunto che denota l’operar sciagurato d’una società in disfacimento; una società vuota, insensata, spiritualmente esausta, senza una ben augurata arte politica. Quell’arte sapiente che governa i popoli e le loro necessità, ne regge i costumi e le virtù sociali e civili e ne custodisce i supremi principi spirituali, etici e culturali come trasmessi dalla tradizione avita; una tradizione appunto sapienziale. In Roma la trasmissione patricia risalente al culto arcaico di Liber pater e, difatti, i popoli sani, per esser liberi, con naturale inclinazione quindi spontaneamente, aspirano ad esser guidati da mani sapienti, e perciò han fatto sempre affidamento nella provata avvedutezza e nella lungimiranza e saggezza dell’età matura, della mente esperta; da ciò la nascita del senato antico. Nei tempi declinanti, quando l’uomo vien meno e il mos dei padri è disatteso, allora i popoli si affidano creduli ad una insussistente provvidenzialità oppure a ideologismi futuribili, astrazioni progressiste o ad altre fumose superstizioni.

 

   Sapienza e fortitudine. Con una guida sapiente il popolo prospera in costante armonia e con costumi inalterabili cresce in cultura, avanza e migliora. Un popolo nobile, vigile e forte, rende le sue genti libere.

 

   Quando un popolo rinuncia a nobilitarsi e non aspira più all’elevatezza dell’insigne virtù che fu dei suoi padri, ma si lascerà sedurre dal materialismo e beffare dalla larva della libertà che vi si accompagna, disconoscendo la propria identità, ch’è la sua ingenita essenza e libero fondamento, l’intimo suo stato, ebbene quella turba, non più popolo, meriterà sul serio la tirannia degli arrovesciati, il più deprecabile e isterico dei dispotismi.

 

   Buona cosa è che qualcheduno suoni la sveglia, perché il malgoverno degli insicuri e inetti, cui irreparabilmente segue depravata sopraffazione, si rivelerà un’aborrevole disavventura.

 

   Incredulità, dubbi, incertezza, timore e angoscia . . . Tanta angoscia! Nondimeno un’agitazione eccessiva, una folle agitazione . . . una foga incontenibile! Oh, che andirivieni, che trambusto, che confusione . . . e che affanno! E quante preoccupazioni, e infine tanta ansia! Affrettarsi, muoversi, sbrigarsi, accorciare i tempi, inseguire il progresso . . . Oh, immensa libertà! Libertà, libertà, libertà . . . brama di sempre maggiore libertà! Tutti presi dalla passione per la libertà! Libertà di odiare, d’insultare, di vilipendere? Anche. Libertà di lodare la falsità, di esibirsi nel malcostume, d’ingannare la gente? Anche. Nessun rammarico? Ahi, no! Oh, sfrenata passione per la libertà! Oh, ambiziosa passione! Oh, febbrile ardore! Ancora la libertà celebra le sue feste dal tempo della presa della Bastiglia, eccetera . . . Articolisti, pubblicisti, inviati speciali, strilloni tele, in un’unica voce, di continuo giorno e notte tessono le lodi di questa inebriante passione e un vento impronto investe il globo intero. Sconfinata adorazione! Oh, idolatrata Libertà, ecco il tuo servo: qual immenso clero!

 

   E noi: tutte queste cose che voi libertari protestate con urla e saccenteria, che biascicate con mellifluità, che ipocritamente opinate, non ci convincono. Non ci convince questa vostra passione. La passione, qualunque passione, non rende libero l’uomo. Per tal sua intemperante passione Robespierre andò incontro ad una morte orrenda, non fu mai un uomo libero e così i suoi aguzzini, anch’essi febbrili amanti della libertà. Nella mente e sulle labbra di tanti e tanti, perciò, questa parola passa come uno spento alito di vento, solo un flatus vocis.

 

   Quando anni addietro scrivemmo la composizione che seguirà, associando libertà e valore, eravamo consapevoli di declamare concetti e parole estreme onde evitare di cadere nel comune, volgare intendere la libertà, che usa non differenziare, ma tutto ordinariamente risolvere, tra l’altro, in chiave ideologica e quindi a livello collettivo. Si tratta, in sostanza, di concedere al paese le cosiddette libertà o diritti civili in conformità alle previsioni costituzionali. Tutto qui! Ma se poi t’avvedi che quel paese è solo relativamente libero? Puoi ancor ritenere che quella gente e quelli che la governano, insomma quella Nazione sia davvero libera? E se inoltre t’avvedi che interi popoli vivono sotto la minaccia di catastrofi e spaventose apocalissi? E ben sai che i sommi chierici tengono a bada i loro greggi con lo stragismo, la paura dell’immiserimento o del ridurli alla fame e, peggio, con il terrore degli ordigni a gittata nucleare, che eufemisticamente chiamano armi di distruzioni di massa; e per eufemismo dicono così, perché diffuso è il detto “aver compagni al duol scema la pena”.

 

   E l’uomo? L’uomo scompare nella totalità, nella globalità! Il sistema è totalitario a livello mondiale, e il despota è invisibile. E intorno a quella invisibilità tanti ipocriti, maggiordomi e servi. Cultura sessantottina, livrea radical-chic.

 

   Anni addietro – che volata d’anni! – osservavamo che la pusillanimità s’avvantaggia tanto in questo mondo ultimo e perciò cresce e insuperbisce; scompare la generosità e prevale ovunque l’egoismo, cui s’accompagnano arroganza, discordia, vigliaccheria e vizi d’ogni sorta. E la gente confondeva allora, come tuttora confonde, questo disviare dalla virtù con la libertà; ed era solo cieco egoismo. E scrivemmo questa “grida” estrema, Valore e Libertà, un duro proclama contro il fanatismo libertario, cioè contro l’arbitrarietà e la licenziosità del libero pensiero.  Non c’è libero pensiero . . . elementare, Wattson! . . . Dovrebbe esserci però l’uomo libero. L’uomo che conosce sé stesso e vincola il pensiero alla raggiunta consapevolezza e a una saggia conoscenza del mondo. Conoscenza vale pure padronanza (da pater), dominio, custodia, pieno controllo di sé. L’uomo della conoscenza è libero, ed è lui che genera e norma il pensiero; pensiero profondo, limpido, misurato, casto; sempre appropriato, vantaggioso e soprattutto giusto. Il sapiente, libero padre, regge il mondo custodendo Verecondia e Giustizia.

 

   E qui ci soccorre la edificante narrazione e ci viene in aiuto Liber pater che è Marspiter che è il sole, e il sole è il custode del buon consiglio e quindi dei retti pensieri, infatti Sol mundi mens est, il Sole è la mente del mondo.

 

   Avversi, e fermamente, all’astrattezza, quella che mai trova corrispondenza nella realtà, e alle parole che tentano di proporre nozioni e ideologie di tal fatta, volendo puramente attenerci alla verità reale, diciamo oggi con serenità a noi stessi, a voi amici e ai gentili lettori quel che segue. Colui che ben intende e vuole rettamente agire pro salute populi è precisamente l’uomo che ripromette a sé stesso – raggiunta con duro lavoro e disciplina la sovrana consapevolezza, coscienza intima e solare dello status di uomo libero – di educare, lui libero padre, i propri figli, i liberi, essendo loro guida nel culto della verecondia e della giustizia, e farne una gente virilmente libera, una società compos mentis, equilibrata e padrona della propria mente. Un tempo: il Populus Romanus Quirites, il popolo romano e i suoi patres, il senato.

 

    Quel sole, mente del mondo e custode del buon consiglio, è fuoco inestinguibile, amor che non viene mai meno. Al ritorno del culto di Liber pater e del patrio costume, con l’uso concreto nella vita delle genti del buon consiglio fuor da ogni astrattezza falsificatrice, ad affiancare obbedienti i liberi patres verranno i liberi

 

   Torneranno, nel sole, generazioni di liberi, sì, liberi! e liberi pur della libertà.

 

QUERNA  FORTITUDO
QUERNA FORTITUDO

 

 

VALORE e LIBERTÀ

 

“liber ego”. Unde datum hoc sentis, tot subdite rebus?

“io sono libero”. Donde t’è dato sentirti tale, tu soggetto a tante cose?

                                                                            (Persio)

 

Ben degli avi antichi valgano,

Simboli di gloriose genti,

La bandiera e le insegne.

Tali emblemi tu vanti, o Libertà!

Sì! tu non sei uno straccio

Di bandiera né enfatica insegna,

Retoricume vano!,

Non sei l’urlo furioso

Che si leva dalle folle in rivolta.

Non l’angelo o il genio dell’agiatezza

Né il demone che si cela

Nella storia dei tempi inquieti.

Non sali tu sul carro

Dell’invasor protervo

Quando preponderando

Barbarie insidia il mondo,

Né stai sul podio del tribuno,

Del demagogo non cedi all’inganno.

Tu ignori il vil compromesso.

 

Non boriosa epigrafe,

Nessun proclama può annunciarla o concederla

Né manco il tiranno sopprimerla.

Essa non è l’evangelizzatrice dei tempi nuovi

Che i settari del progresso pretendono,

Mai promosse e sostenne un suo vangelo;

Menzogna muove il labbro del fanatismo libertario.

 

Non di dubbio puntello

Neppur corrività supporta!

Fuori da tali erranze,

Sol chi è leale e fido

 

Teste d’operosa virtù

Vive in buon’armonia,

Di suo libero e vago

Agir saldo custode.

 

Libertà non può esser mitigata

Né limitata o, sediziosa pretesa,

Adattata al consumo dei più.

Essa è l’aurea catena che lega

Il trionfator dei tumulti,

Il ver sovrano, al nobile sentire

Dell’onoranda fede avita.

Pii, un tempo, farro offrimmo alla Fides

E al pio Sole, a Libero, il padre!

Buon sostentamento ai liberi

Erano allor la lealtà e il farro.

 

Tu non sei, Libertà, il cuculo che a suo comodo

Depone le uova nel nido d’altri.

Non sei agevole, mai senza sforzo.

L’asceta, l’eroe,

Nell’intimo lor t’allevano.

L’aquila ti conosce!

L’erta rocciosa ancora

E le vette innevate! I lottatori,

I grandi delle solitudini sublimi,

Gli unici, davvero valenti amanti,

Che in sé l’opera ardua eleggono,

Rigorosi, severi.

Mai ti piegasti alle minacce,

Mai assentisti alle bassure,

Mai alle moltitudini, alla calca.

 

Non è libertà nei mondi al declino;

La virtù non è di labile indole,

L’animo ignavo non sa libertà.

Non è infingardo chi libero è.

Fortitudine vale libertà:

Del nascente germe spiega il rigoglio,

Pur ogni fiorire è baglior di cielo

E della terra profondo respiro.