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IL MESE DELL’ARATURA E DELLA SEMINA

 

P a n i s   c i b a r i u s

 

 

   Quest’oggi un vento gelido aggira i poggi, questurino importuno va indagando ovunque, persino tra le dense, spinose fratte; ma la valle è nel sole! Il sole di novembre dal raggio spesso schivo, ritroso, alquanto restio; eppure, intenso è tutt’intorno il brillio della moltitudine delle foglie sorprendentemente colorite sulla ricca tavolozza autunnale.

   Novembre, il nono mese dell’anno romuleo, il mese della semina frumentacea: grano, orzo, farro, avena; è il tempo dei trapianti, il mese in cui si piantano i frutici, gli alberi; il sole si trova nella costellazione dello Scorpione e la durata della notte supera di cinque ore la luce del giorno. Lo Scorpione è segno d’acqua e attiene alla potenza che plasma e dà forma, il concipere, l’immaginativa, l’ideare, oltre che ai moti interiori e all’espressione dei sentimenti; lo precede la Bilancia, segno d’aria che concerne le facoltà intellettive e la capacità comunicativa. Equinozio, pari durata delle ore di luce e d’oscurità: in realtà giova misura, equilibrio. Libra: ragionevolezza, una dote di ponderato giudizio, per sostenere il solare intendimento che, nell’illimpidente visione ossia comprensione piena, legittima il suo agire. Segue poi, a Scorpione, il corpo biforme del Sagittario che è segno di fuoco, infatti vi s’afferma l’estro creativo, il potere della mente di conciliare, di componere e quindi di più cose farne una, armonizzare in uno la varietà. Dal solare intelletto, da un bilanciato intuito, discende la facoltà plastica del concepire, dell’immaginare e ideare, quindi genialmente si compone quel modello d’ordine, quell’ornata armonia, che è il Cosmo, nel quale raffiguriamo l’Universo. In conclusione, accordare, (concorde, lat. concors: cum + cor, cordis = cuore, animo, e reddere, rendere, fare); pertanto, era ritenuto vaecors, fuori di sé, pazzo o malvagio, e excors, privo d’intelletto, tutto che fosse discordante, dissonante e provocasse discordia, contrasto.

  Excors e quindi vaecors, forsennato e malestro questo mondo, che gira su sé stesso scosso dalla vertigine del contagio pestilenziale, senza più una meta, sotto la sferza tivvudica, uno strumento penitenziale nel pugno del gran Banchiero, cerebro e cor di coiame, dalle mani farinose di gran fariseo, giacché le tiene sempre in pasta, e ha faccia dura, di bronzo! Al servizio di tal Busto di Bronzo, che trovasi esposto nei principali musei di tutti i paesi del mondo, una pletora di saccenti e saccentone, una grossa penitenzieria. Tal Servizio penitenziale ben istruito all’uso dello staff-ile, recita tuttodì con tono pontificale, cioè con loquela clerical-inquisitoria, con prepotenza tirannesca dai tratti maniaco-depressivi, una perenne monotona broscia ad uso e consumo della greggia penitente, segnata tutta con il carbonio e graffiata capo per capo al grafene. I massmediologi guidano il mondo, che trascinato dal mainstream, affogato nel politichese, ultimamente è massime acciucchito! Ed ormai assoggettato all’assolutismo pandemico della Santà-Covìd, grossolanamente sino-yankee, filantropicamente banco-finanziario e affiliato alla vaticana Compagnia degli Incappucciati della Brava Morte. Democraticamente garantito: battesmo e nel contempo estrema unzione, gratuiti – qual divino favore! quanta benevolenza! – con puntura ipodermica al grafene. E…ancora! con il green pass interplanetario dopo la sedicesima dose, gran presa per il bavero e insieme per i fondelli, onde sfuggire ai terrori del disastro ambientale, al surriscaldamento globale etc., un costoso covidiolesco funerale, che democraticamente garantisce il rispetto per la salma: niente necroscopia, nessuna tortura!

   Udiamo qualche urlo:  Mah! Che mondo è questo? Un luogaccio! Un indescrivibile mondaccio! Non c’è un luoghicciolo lontanissimo, in capo al mondo… un luoghettino solitario, dimenticato? –

   Un luoghettino solitario, dimenticato… Dimenticato, giust’appunto! C’è, c’è! Certo che c’è! E più prossimo di quanto stiate immaginando. Signorsì, sul serio! Davvero propinquo, vicinissimo! Non vi fidate delle vostre orecchie tele-rimbombanti, dei vostri occhi dispersi in labirintici tele-lumeggiamenti, della mente quotidie tele-idiotizzata. Liberatevi di tanta fantasmagoria, allontanate dalle vostre giornate la falsificazione, salvaguardate il vostro prezioso qui e ora, sia il vostro dì lucente, sentitevi  l i b e r i  nel raggio del sole; se poi vagano lassù le nuvole e la pioggia bagna la terra, godetevi la pregnante fecondità dei grossi nembi e della pioggia, ambita dalla terra per il suo verdeggiante vigore. Quanta sterile boria in quel vile apparecchio e che spreco di tempo! Mettete a tacere la voce di quel ventriloquo, i suoi ibridi sproloqui cosmopoliti, oggidì prevalendo il barbarico accento sino-yankee, l’arida voce della desertificazione. Che taccia!  Con un calice di nuovo vino, cogliendo il momento, libiamo al raggio del sole che fulge e dispare, mentre il vento infuria improvviso e il rombo del tuono accompagna lo scroscio vivace d’inattesa procella. E libiamo anche a tanta purità degli elementi, fuoco aria acqua terra, che di continuo si rigenera.

   C’è! certo che c’è, perdinci! Sì! un luoghettino segreto, ma dimenticato. Ed opportuno, anzi necessario è cercarlo. Soprattutto importa trovarlo. Ignoriamo tutta quella robaccia, quel mondo prepotente e violento, perciò perituro, che non ammette, né intende rigenerarsi, voltiamogli definitivamente le spalle! Un mondo tutto cerebrale, artificioso e menzognero, un mondo che non respira, perinde ac cadaver. E lasciando alle nostre spalle, senza alcun rimpianto, anche la nostra persona cerebrale, raccomandiamo a noi stessi il coraggio e intraprendiamo la via del cuore, vedremo, proseguendo senza cedimenti, la nostra mente riaprirsi alla purità e alla bellezza del concepire senza macchia. È così che s’inizia, e poi con verità e rettitudine si procede: per ritrovare il mondo avito, per tornare uniti e concordi, all’ornata armonia. Necessita far di sé stessi un esempio degno, tanti esempi degni, e di essere largamente generosi di esemplarità, di vita, di carattere, di comportamento esemplare. Esempi di rettitudine, di nobiltà, di saggezza. Un esempio che sia splendore di virtù, pulcritudo virtutis! Ritroviamo dunque e riaffermiamo, anche attraverso il ricordo vivente in noi tutti, quel luogo segreto, ove risiede la nostra origine ossia la nostra appartenenza, quel reame troppo a lungo dimenticato: la Terra dei Padri, la nostra Patria!

   Ed ora torniamo al nostro novembre, e allo Scorpione che segna questo tratto d’autunno. Negli ‘Astronomica’, che andiamo seguendo, Manilio (IV 707) così detta: “Libra colit clunes et Scorpios inguine regnat, la Libra ha in cura i glutei e lo Scorpione regna sull’inguine”, cioè sorveglia la regione inguinale, la regione tra la coscia e il basso ventre che si restringe ad angolo di fianco ai genitali, stando così a difesa degli organi della riproduzione; quindi il tutto è vigilato da Scorpios. Il verso si trova nel passo che va dal v. 701 al 710 ove l’umana figura è per membra separate distribuita fra i segni zodiacali, quantunque esse costellazioni abbiano una comune tutela su tutte le parti del corpo. Novembre è il mese dell’aratura e della semina cerealicola per la riproduzione dei frumenti (panis cibarius); un momento che non si può trascurare, assolutamente imprescindibile nel ciclo agricolo dell’anno. In novembre cade anche il tempo dei Ludi Plebei e delle relative tradizioni e festività popolari, e siamo nell’antica Roma. La plebs è puranco la folla, una moltitudine di persone, il popolo; la plebs generativa, che si riproduce, perché la pòlys, la città, deve riempirsi di popolo, dunque necessita l’elemento atto a generare, a fornire popolazione. In conclusione novembre non può non essere il mese religioso della plebe, dato che esso è in tutela dello Scorpione che controlla l’inguine e quindi vigila anche sulla riproduzione, per la quale è indispensabile il popolatore.

   Benveniste (Vocabolario Ind.) sostiene che un termine “avente nella radice l’esser ‘gonfio, potente’, si spiegherà come ‘pienezza’ per indicare il pieno sviluppo del corpo sociale”; e così “la radice ple- ‘esser pieno’ tal quale il gr. plēthos ‘folla’, e anche il lat. plebs ‘plebe’. Quindi per plebe s’intende pur la folla, una moltitudine di persone costituente un popolo, infatti deriva dalla stessa radice del greco pòlis, che concerne il costituirsi del popolo in una nazione. Oggi nel linguaggio corrente il termine plebeo ha senso dispregiativo. In Roma antica con Plebe s’indicava invece l’ordine del Popolo, distinto dall’ordine dei Patrizi che era il custode del patrimonio dei Padri, di quanto costoro avevano bene operando raggiunto. Narra Livio (Ab Urbe Condita, I - 8) che Romolo, popolata la città, “soddisfatto di quelle forze ivi convenute, per esse istituì un Consiglio. Poi nominò cento senatori, o ritenendo sufficiente quel numero, oppure perché solo quelli potevano essere creati senatori, sicuramente sulla base della loro dignità; e per questo furono chiamati padri, e patrizi i loro discendenti”. Così lo Stato si componeva del Senato, Patrizi, e del Consiglio della Plebe. Si fondava quindi, lo Stato romuleo, sulla guida saggia dei Padri e sulla “pienezza”, la forza o kràtos del Popolo. Garante il Rex della salus civitatis, garanti i Patres della rectio et cura rei publicae, garante la Plebs di un sanum genus, moenia urbis Romanae.

   Dalle caratteristiche del mese novembrino sottoposto alle influenze della costellazione dello Scorpione, ottavo segno dello zodiaco – segno provvido, propenso a sodisfare le necessità, non ultime le esigenze alimentari della popolazione che dipendono dalla buona aratura e da nutrita semina: il cottidianus panis – si desume l’evidente appartenenza delle festività del mese alla Plebe romana, vale a dire, alla diligente osservanza da parte di essa dei propri costumi e norme religiose. Senza il frumento e senza le opime greggi, ossia senza il pane, il latte e la lana, si stenta a crescere numerosa figliolanza e a mantenere sana e forte la stirpe. Allora, era così! Ma anch’oggi, nonostante tante sovrastrutture, le fabbriche e lo standard alimentare, le sofisticazioni forestiere e la sleale concorrenza, la cosa dovrebbe rimanere più o meno così; ma non sussiste più cura alcuna a sicurezza dell’animo e della mente del popolo; precario, sempre più scarso, il sostegno alla salute delle nuove generazioni. Massima incertezza, buio il domani… il domani? Sì! s’intende tutti i giorni di poi…                                                

  A cura e sotto la tutela degli edili plebei in questo mese a Roma nel Circo Flaminio venivano celebrati i Ludi Plebei, corrispondenti ai Ludi Romani che si tenevano a settembre nel Circo Massimo ed erano organizzati dagli edili patrizi. Anche i Ludi Plebei erano dedicati a Giove, e seppur distinti, andavano perfettamente a corrispondere ai Ludi Patrizi di settembre, di cui seguivano la struttura, ma nei limiti d’una dimensione religiosa esclusivamente popolare, e tuttavia pienamente rientrante nell’ordine sacrale e giuridico romano; insomma come scrive il Dumézil : “le due classi sociali, patrizi e plebei, avevano armoniosamente coordinato gli omaggi alle rispettive divinità”. Gli uomini n o n sono uguali, come oggi pretende una certa ideologia comunistoide dominante; se disgraziatamente si verificasse tal cosa, l’UOMO non conoscerebbe giammai la p r o p r i a libertà. Tanti sono i gradini che portano alla conoscenza del divino! E tanti gradini tanti livelli di cognizione, tanti stadi di consapevolezza, eppur sempre identico è il dio, non cangia; ma gli uomini legitime si distinguono rivelando nella evidentia della pratica cultuale, con la raggiunta virtù e la propria singolare natura, cui (cor)risponde un divino essente, il proprio demone, o perché virtualmente percepito con devota credenza, o perché liberamente e per tanto realmente acquisito come propria intima verità. E non c’è pretensione né appropriazione che conti a fronte della realtà; per questa ragione il patriziato con i suoi culti si appartava nel mese di novembre e lasciava il campo alla religiosità e alle festività dell’ordine plebeo. Epperò tutto, ludi, giochi e festività, di cui erano curatores rispettivamente gli edili, curuli e plebei, restava, insiste il Dumézil, “sistematicamente simmetrico”, nel romano ordine.

 

*

 

    Sì, i governanti dovrebbero essere soprattutto seri! Serio governante è quello che usa verso sé stesso una    grande severità e si serve con somma attenzione del braccio della bilancia quando agisce per il bene della propria Patria, per la salute, la libertà e l’agiatezza del suo popolo. Colui che con saggezza attende alla Giustizia e alla Verecondia. Colui che consegna mente e cuore alla cura della patria tradizione. Che conosce il modo medicale adatto a propiziare e quindi suscitare le energie favorevoli per mantenere in salute le genti, per far prosperare in virtù le famiglie e quindi il popolo intero. Essere il fermo custode della patria cultura e della storia patria nel lume della veridicità e della concordia, promuovendone il culto e il rispetto. Sono governanti da preferirsi quelli che non hanno l’animo turbato da malefiche ideologie e che non si servono subdolamente dei massmedia per diffondere il politichese da essi aggradito; son da detestare quelli che hanno la mente corrotta dalla demagogia, utilizzata senza ritegno per soddisfare il loro egocentrismo e la loro ambizione.

   Sì! Un popolo per essere credibile, affidabile e rispettato, deve essere rappresentato da governanti seri, informati, beneducati e accorti; non arroganti, ma nemmeno sottomessi o addirittura servili. Un popolo dignitoso reclama il rispetto della propria libertà, perciò rigetta la demagogia, che è la degenerazione della vera potenza insita nel suo organismo plurisecolare; potenza che non deve convertirsi in impulsi istintuali poi irreparabilmente degeneranti in ferina discordia. Travolto fatalmente da un cieco cosmopolitismo, decompostosi in comunismo liquido, concezione contrannaturale sostenuta dai teologastri della liberazione sessantottesca. Non deve, un popolo degno, rassegnarsi a subire la definitiva perdita della patria distinzione, del patrio costume, della patria cultura, cioè della connata libertà, quella che viene dai Padri, gli antichi fondatori. Non deve offuscare la lucentezza della propria voce nel mondo, con la perdita del pregio della propria lingua e la corruzione dell’itala parola. Scorderà l’essenza di sé stesso, una volta disgregate nel suo seno le famiglie, dissolti i legami più sacri e declinato il felice compito di popolatore, di sovrano delle generazioni, di forgiatore d’una immutabile patria fede. Deve respingere l’imbelle demagogia, la confusionaria oclocrazia di ambigui figuri! Deve accogliere festoso gli eletti che nascono dal puro seno della Patria, votati cuore e mente alle virtù dei Padri, che non vanno in giro bramosi tramando l’ambire, ma decisi s’incamminano sulla strada da quelli percorsa al cenno severo e ammonitore del patrio Nume, e solo a quel Nume obbedienti.

   Una volta ci assidemmo tutti in circolo ad ascoltare il Consiglio del Sole: Sol, che è Marspiter, che è Liber Pater. Torniamo a quel Consiglio!  Necessita nella società umana far ricorso a una “sistematica simmetria”, a una sapiente collaborazione e concordia tra ben distinte componenti; un ritorno al romano ordine! Soprattutto qui, nella nostra ingiustamente mortificata Italia. Una scelta di fede: la persuasione sincera ad operare per una rinascita; per un vero risveglio!

 

 *

 

  Apprendiamo che in questi giorni di novembre al grido di “libertà! libertà!” le folle hanno riempito in molte città le piazze; vibranti proteste contro il green pass imposto dal governo ai lavoratori non vaccinati, ritenuto un provvedimento anticostituzionale, perché limitativo delle libertà e del diritto al lavoro, quindi provvedimento autoritario e antidemocratico. Insomma pare sia intervenuta nell’ambito democratico una frattura tra Pro Vax e No Vax, come si definiscono i contendenti. Questo astioso rinfaccio pare, al momento, voglia sostituire il vetusto diverbio ‘fascismo/antifascismo’, ma stiamo là, la demagogia vive di queste ridicole sceneggiate. Rivendicazioni, malumori… tutto va bene a tirar l’acqua al suo mulino. Pro e contro, la stessa pastetta! Il Puparo è il personaggio che conta, lui muove entrambi i pupi, recita l’uno e l’altro, porta l’avventura al suo proprio buon fine, e indifferente invita gli spettatori dell’una e l’altra parte a suonare il calamo. Quelle folle potrebbero solleticare il talento di qualcuno, le sue nascoste aspirazioni a far da ‘capopopolo’… Troppo tardi potrebbe accorgersi che dal Puparo era stato designato a quella parte, e allorché il Puparo decide di far calare su quella scena il sipario…

   A nostro parere, nel gran teatro del mondo, tutto ciò non vale un ‘fico secco’, e in ciò è compreso anche il Puparo; nonostante la sua ipermenesia, la sua ‘memoria ipertrofica permanente’! Davvero tanto durevole? O soltanto l’illusione d’un oligoemico, cui giovano i crepuscoli, i tempi in declino, e non resisterà al raggio del nuovo sole?  Saranno per lui insopportabili le torri troppo lucenti della Città del Sole.

  Forse tra quelle folle c’è un indizio di sofferenza; tra tanti, qualcuno sospira e pena per la patria tradita, vibra il battito d’un giovane cuore che aspira al risveglio? Son più di uno? A costoro, a tutti i bravi aratori, ai buoni seminatori, e anche ai nostri amici lettori dedichiamo questo frammento da Polline d’un giovane poeta vissuto in tempi di paura e terrore, nell’ultimo trentennio del ‘700, il Novalis, invitandoli ad ardite riflessioni:

   “Il popolo è un’idea. Dobbiamo diventare un popolo. Un uomo completo è un piccolo popolo. L’autentico divenir popolo è la meta suprema dell’uomo.”

 

Buon novembre e buona semina!

 

 

    

19 novembre 2021 – Veneris dies, luna plena

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faber est suae quisque fortunae

 

 

 

 

  Lungo è il tempo

ma il vero avviene

            F.Hölderlin

 

 

   Proverbiale è la frase di Sallustio che dà il titolo a questo scritto, dice in sostanza che ‘ciascuno predispone per sé la propria fortuna’, e tanto, si sottintende, vale per gli individui come per i popoli. Cicerone, affrontando il tema aggiunge, e par con tono ammonitorio, che occorre in primo luogo avere a guida la virtù e semplicemente poi compagna la fortuna: virtute duce, comite fortuna, ei pronuncia in un icastico latino. Ma già molto prima, e parlando al popolo, Plauto dalla scena aveva declamato: “Sapiens fingit fortunam sibi, è il sapiente che sa plasmare per sé la fortuna”; vale a dire, per fabbricarsi la fortuna occorre possedere la sapienza; un governante, un legislatore saggio ed esperto fa la fortuna del suo popolo, un duce accorto e valoroso la fortuna del suo esercito. E questo in ogni tempo e paese, nell’antico Egitto, ad Atene, in Arcadia, a Roma. Ed oggi? Fortunato, e soprattutto in questi ultimissimi tempi, è chi sa fare i soldi, chi sa vendere la propria anima al diavolo, e perfidioso promuove sé ad arcidiavolo e padrone di tutto l’inferno; l’inferno, che oggi è il mondo intero. Ve lo scordate un angolo di paradiso, quaggiù! E i paradisi fiscali, e il Bank! Bank! Bank! tutto questo ben di Dio, tanta dannata fortuna? è nel totale possesso del grande Usuriere! Il devotissimo di Mammon Mammona, che fa tanto soffrire tenendole perennemente crocifisse e a lui genuflesse le spoglie risorte del ‘parco sparagno’! Sorte su sorte, son venti secoli, interesse su interesse, perpetuamente la stessa sorte; dumilanni di atroci eventi e misera sorte! Afflizione, triboli e affanno! L’infernal preda: il profitto, il lucro!

 

*

 

 << L’ uomo che ordisce mali a danno d’un altro li prepara a sé stesso, ed il pensiero malvagio è pessimo per chi lo ha concepito.

 

   Ora io narrerò una favola ai detentori di potere, e pure a coloro che sono assennati. Queste le minacce che gridò lo sparviero all’usignolo dal collo variegato, lassù tra le nubi, stringendolo negli artigli; quello trafitto dalle adunche ugna forte gemeva, e a lui con tracotanza lo sparviero: “Sciagurato, di che ti lagni? Ti tiene in possesso chi ha dalla sua la forza; tu andrai là dove ti porterò io, pur se sei un bravo cantore; farò di te un pasto, se voglio, oppure ti lascerò andare. Stolto, chi vuol contrastare i potenti! A lui impossibile è vincere, e oltre allo scorno patirà dolori”. Tali cose disse lo sparviero dal volo veloce, l’uccello dalle larghe ali.>>

 

 Tanto ci giunge dalla seconda metà dell’VIII secolo avanti l’era cristiana, fase religiosa quest’ultima che caratterizza il periodo finale dell’Età del ferro e quindi l’attuale periodo storico, tempo estremo delle superstizioni, della confusione e dell’offuscamento. Queste le parole con cui Esiodo si raffrontava ai suoi tempi, gli argomenti che rivolgeva ai suoi contemporanei; son tratte da Opere e Giorni, il suo poema che tratta della diva Giustizia disconosciuta e distorta con loro vicendevole danno dagli uomini. Gli Immortali avevano dato al mondo Giustizia e Verecondia, largamente i beni migliori e dai quali deriva alle umane società il benessere. Ma gli uomini offendono questi beni divini, ciò comporta che le loro stirpi diventeranno sempre più oscure e violente nei tempi avvenire. Gli inoperosi sono invisi agli dei e agli uomini dabbene; infatti, il valore umano si consolida con la fatica, perché il sentiero che porta ad esso è un sentiero non breve, ma un cammino di giorni e giorni, soprattutto erto, e riserva anche dure prove. A chi raggiunge la cima s’aprono i vasti orizzonti, son coloro che preparano un’età luminosa, al patrio futuro giusta e costumata progenie. Il poeta pertanto consiglia ai suoi contemporanei di mettersi all’opera e, nell’ordine, compiere con misura le opere necessarie; allora sì, essi godranno al giunger della buona stagione d’una felice e abbondante raccolta.

 

   Noi abbiam sempre riposto illimitata fiducia nell’alto ufficio creativo e formativo dei Vati, nelle Muse educatrici, pur attraverso il lungo decorso dei secoli e l’evoluzione dei tempi; pensiamo quindi che la voce persuasiva di Esiodo e il suo verso semplice e mite possano essere accolti dal buon sentimento delle attuali generazioni, condividenti con lui la rigorosa sorte che la quinta delle Età del mondo, ferrea e buia, riserva ai mortali e aprire i cuori e le menti al risveglio. “O Perse, fratello, questi suggerimenti riponi nella tua mente e porgi attenzione alla giustizia, il sommo tra i beni divini; l’ignobile violenza tu dimentica”!

   Davvero, amici, la barbarie s’addensa come nera nube e il mondo sempre più s’offusca, ma il coraggio adamantino dei  d e s t i  ha già al presente spezzato la dura servile catena di rigido pesante metallo, qui e ora rifulgente d’oro: il prezioso monile!

 

*

 

   “Non prenderemo in considerazione le retoriche e stolide dichiarazioni degli uomini pubblici, ma la voce della montagna, quella sì! E ancor più i segnali che ci giungono dalle profondità della terra; staremo attenti e prenderemo in seria considerazione i sussulti che ci provengono da laggiù.

   Questo lungo terremoto che, partendo dal cuore della penisola ‘è avvertito in tutto lo stivale’, con particolare ‘allarme nella Capitale’, è l’istintivo, viscerale incitamento del suolo d’Italia ai suoi figli veri, invitati al risveglio e a voltar la pagina d’una triste storia per liberare la Terra del Sole da quanto di estraneo e barbarico vi si è insediato e vi spadroneggia sotto l’usbergo padronale delle nemiche insegne (costumi e usanze); ad affrancare la patria dall’inganno d’un oscuro nemico cui va il nome di Disgregatore”.

 

   Il virgolettato soprascritto è tratto dalla pagina DOPO L’ARMILUSTRIO, su questo sito, in cui ai paragrafi ‘Gaia e l’Homo torpidus, la Danza del Risveglio, Ingens motus’, parlavamo anche del ‘lungo terremoto’ che scosse la terra umbra in quell’ultima decade d’ottobre 2016, or sono esattamente cinque anni, con le forti scosse del 26 a tarda sera e quella ancor più forte al mattino del 30. E, in quell’anno, già la terra d’ Italia aveva tremato con la devastazione di Amatrice e molte vittime nella notte del 24 agosto.

   Prendemmo sull’istante le distanze dal retoricume dei politici di turno, ma ascoltammo e trattenemmo nella mente le voci dei montanari che coraggiosamente sostenevano di mai abbandonare quei luoghi, perché   il buon montanaro sa che a lui spetta adattarsi, corrispondere, affratellarsi alla montagna, e ciò ei deve con naturalezza realizzare, cioè senza ombra di vile rassegnazione. Voci sincere, benauguranti all’avvenire dell’Itala gente!

 

   L’ottobre di questo corrente anno ha subito inondato di brume la valle e, annunciate da tuoni benevolmente risonanti, vi ha fatto scrosciare le piogge e scorrazzare i suoi venti; ma le ha anche donato giornate tepide, temperatamente calde e liete, nel profumo di brezze leggere. Nonostante qualche cruccioso crepuscolo, tutto sommato un ottobre amicale, intimamente amicale.

   L’aria rinfrescata dalle piogge autunnali si muove, instradata da una brezza leggera, tra i poggi ancor verdeggianti che il raggio caldo del sole rinfranca.

  

   Il clima dell’ottobre di cinque anni fa non dovette essere molto diverso dal clima di questi giorni, un clima autunnale; ma in quell’ultima decade ottobrina dell’anno 2016, dal nettuniano sottosuolo d’Umbria, cuore d’Italia, vibrò un tal colpo di tridente, da far tremare l’Appennino e sino ai colli romani. L’agricolo forcone, attrezzo campestre, innocuo nelle mani dei contadini! possente scettro degli dei Shiva, Poseidone, Nettuno – India Aria, Ellade, Roma –! Utensile cerealicolo, scettro, e arma vibrante! E ciò che forte vibra fa vacillare e tremare, e anche intimamente scuote. Scettro, ossia bastone significante distinzione e quindi simbolo d’autorità regia e teologale.

   Sotto il tallone, la parte bassa, il fondo del corpo umano, quel calcagno che conculca la terra, il rombo nettuniano del tremuoto destato dalla secca rebbiata del tridente; sul capo dell’uomo, la parte superiore, ove è il termine e il governo dell’intera figura somatica, dell’organismo vivente o spoglia mortale, il gioviale stridore, l’accecante luce dell’alata folgore. Eppure. . . tra quelle due parti terminali, estreme, tra lo scettro che solleva dal basso, quell’ingens motus, e lo scettro di luce folgorante che si cala dall’alto, sta il firmus bastone di comando, l’aureo scettro dell’auctor sui, il respiro della coscienza cosmica. L’oltre, la meta, il fine. Il Compiuto interminabile, infinito.

 “ La Terra e il Cielo sunt dei magni, Divi qui potes. Principes dei Caelum et Terra, il Cielo e la Terra sono gli dei supremi”, scriveva il nobile Terenzio Varrone. Or bene, anche l’uomo è cielo e terra, ma, dice il poeta Hölderlin nella sua lirica Mnemosyne, ‘trattasi d’un segno che non ha pregio alcuno, anonimo, ordinario, perché l’uomo nell’esilio ha perduto il linguaggio. E quando nel cielo si svolge una contesa riguardante gli uomini, allora parlano i mari, i fiumi, le forze della natura e cercano i loro sentieri. Infatti l’Uno non dubita mai; può egli di continuo trasformare, e appena si presenta la necessità d’una legge’. Ed è così! I moti, le agitazioni popolari, le rivolte, i turbamenti degli uomini non reggono al confronto, non sono commensurabili ai moti della terra, del sole, delle lune, degli astri tutti. Eppure. . . tra l’ingens terrester motus e il folgorante Giove siede prodigiosa la grande Virtù virile, splende l’aureo scettro dell’auctor sui.

   Pertanto riteniamo magni pretii, umanamente saggio, ciò che dissero quei forti montanari tra le macerie del terremoto dell’ottobre 2016, in risposta ai millantatori politici: “Questi signori forse non lo capiscono, ma siamo noi che dobbiamo adeguarci alla montagna.” Ancora: “Sono un montanaro, non temo il terremoto; non abbandonerò mai il mio luogo, voglio rimanere montanaro”. Queste, tra le più schiette e recise, ce le annotammo e non le abbiamo dimenticate. Ricordandole ci fanno pensare ai tanti Alpini, soldati di montagna, che hanno valorosamente combattuto nelle guerre con volontà salda e rocciose gambe per difendere la montuosa, sassosa patria, che dal nome di Italo – un re montanaro? – oltre trenta secoli orsono si chiamò Italia. E, poi, in quest’ultima decade d’ottobre, in cui si sono ingrossate dovunque nel Paese le proteste popolari contro la pandemia penitenziale, gesuitica disciplina imposta ferreamente soprattutto al popolo italiano, forse che vale raffrontare l’ingens motus dell’anno 2016 a questo moto aperto di popolo?

   Quel grido di libertà che sale dalle piazze a che tende? Va manifestandosi in esso un cenno veritiero, robusto, un moto d’animo davvero indipendente, pari a quello che abbiamo riscontrato nelle voci della montagna durante l’ottobre di cinque anni fa? C’è una giusta conoscenza, una vera consapevolezza di quel che deve intendersi per libertà?

 

   Sulla pagina “AESTIVE” ne abbiamo discusso a lungo, evocando anche l’antichissima divinità del Liber pater e i suoi figli, i Liberi dell’antica Roma. Vi abbiamo manifestato il nostro disgusto per la retorica e l’euforia libertaria, per il libertinaggio e la scostumatezza che nascondono il liberticidio, perché quella ‘libertà’ che presume e sostiene un suo vangelo è soltanto fanatismo libertario; ché la libertà non la si acquista e consuma come una qualsiasi merce, essa infatti non è agevole e senza sforzo ma conquista d’ogni giorno, e davvero sofferto è il custodirla. Giusto è che l’uomo libero non si pieghi alle minacce tiranniche, ma nemmeno libertà viene dalla pressione delle calche, delle folle. Soprattutto non v’è libertà nei mondi che sono al declino; le età decadenti presentano labile indole, ignavia, inettitudine; libertà invece è fortitudine, perché entrambe si nutrono del libero bagliore del cielo, del libero profondo respiro della terra, sono un unico germoglio. Libertà è nobiltà, saggezza e coraggio!

   Eppoi occorre che cada nell’oblio il mito progressista del Nuovo Mondo, mito subdolamente artificiato. Frattanto ancor s’annida nel subconscio delle masse, ivi purtroppo racchiuso come una congenita minaccia, il terrore dell’olocausto nucleare in quel terribile agosto del 1945. Eppoi, si eviterà fra non molto di confondere le genti propagandando il credo religioso nei benefici illusori forniti dalle democrazie d’ogni tipo? dai fraternalismi, dai costituzionalismi scientemente involuti e meramente cartacei, dai mondialismi finanziari, dalle globalizzazioni mercantili, dai populismi et cetera? La democrazia specie l’attuale, dell’oggi, somiglia sempre più a una ideologia totalitarista, intollerante, che mette capo a diffuse tirannie dai molteplici aspetti, tra cui quella d’una terrizione, non solo meramente formale o solo psicologicamente presunta, ma effettiva, per un evento pandemico (inverosimilmente straordinario!) senza fine. E ci sono di quelli, intellettuali in prima fila, che annunciano l’intenzione solenne di voler restaurare la democrazia, così come sorta dal grembo ‘liberatorio’ del micidiale fuoco sceso giù dai cieli in fiamme, e che arse in un lampo centinaia di migliaia di vittime innocenti. Boh!

 

   Dell’ amicale ormai compiuto ottobre non dobbiamo intanto trascurare queste penultime giornate che con il caldo sole rallegrano la valle, ravvivando ancor più la nostra confidenza in un divino cangiamento degli eventi nel sofferto mondo. I lucenti tramonti e l’imminenza di Venere sull’imbrunir lento dei monti, confortano l’occhio errabondo e la Mens intenti a procurarsi il ritorno dei patri Lari. Questo grido che si leva – Libertà! Libertà! Libertà! – va oltre l’angusto momento, oltre lo stretto contingente? S’amplifica dunque nell’etere? Ed ivi viene inteso e ricevuto come la invocazione al ritorno d’un Augure, d’un buon Legislatore, d’un vero Pontefice? Oppure è solo il grido innanzi tempo d’una consapevolezza ancora incompiuta, impedita, ma che s’annuncia vicina a realizzarsi integralmente in un avvenire non troppo lontano?

 

   Giunga a noi dal Nume antichissimo, il dio della Saturnia Tellus, d’Ausonia, dei Liberi, figli di Roma, dal Nume d’Italia, Liber pater, che è Marspiter, che è Sol, il giusto consiglio che rafforzi e confermi la fede nella Salus Populi Italici, onde possa esso tornare un popolo saldamente unito e artefice della propria sorte, il libero fabbro di virtuosa opera, del patrio apice.

   E a coloro che si pongono tanti interrogativi sul mondo (vecchio, nuovo? democratizzato del tutto? un comodo spazio per traffici mercantili e finanziari? globalizzato oppur no? un Gùlag appestato di virus etc.?), suggeriamo di non lasciarsi intimidire né suggestionare, e consigliamo invece di riflettere insieme su questo illuminante frammento di Novalis: “Il mondo è un tropo universale dello spirito – una immagine simbolica di esso”.

   E con il sempre giovane Novalis, morì a ventinove anni non compiuti, e sull’esempio del suo pensiero eroico, non impiccioliamo il nostro mondo, involgarendolo, globalizzandolo, o altre meschinerie.

 

30 ottobre 2021, dies Saturni

 

 

 

 

 

 

DISCIPLINA PATRUM

 

 

Sulle inaccessibili cime,

Nella tacente austerità rupestre

Che d’impalpabile etere s’avvolge,

Là si pone l’aquila a morirsi

Cedendo le veloci piume,

I saldi artigli e il rostro

All’immutabil quiete delle alture.

 

Di novo rostro e novi artigli e piume

Pronto a prender l’aire è l’aquilotto,

Quel dell’antico genitore volo

Che mai ebbe a temer folgore e tuono.

 

Fiaschino di mosto e fichi settembrini al forno
Fiaschino di mosto e fichi settembrini al forno

 

 

Cinta la fronte d’astri settembrini,

fiorito dono dell’autunno all’ape,

facciamo un brindisi con il fresco succo della odierna vendemmia:

sia l'offerta sparsa in terra e in aria, rivolti al sole!

Libiamo e propiziamo a noi la divina Salus,

augurando alla Italica gente che torni la Bilancia  a tenersi in perenne

e q u i l i b r i o,

onde la mente in armonia con il cuore.

 

 

 

Pro salute Populi Italici
Pro salute Populi Italici

 

 22 settembre 2021, dies Mercurii - Equinozio d'autunno

 

 

 

 

ALLA ITALICA GIOVENTUTE

 

 

 

fan schiavi i privilegi dei e uomini

                                                         eraclito

 

 

   Se bene ricordiamo – dato il tempo trascorso – fu da un’autorità politica, indubbia mente democratica, che udimmo esporre il seguente concetto: “l’eterno presente è una trappola”; addirittura, una trappola che “ignora il passato e oscura l’avvenire, deformando il rapporto con la realtà!” Esortava quindi “a non star fermi nel presente”. E pertanto con algida, adiafora favella il tristo dem invitava gli uomini a “venir fuori dall’eterno presente”; cioè dall’esistente, il creator mundi, che in continuo è eterno? Un ostile invito a espatriare? Dunque un consiglio da non accogliere. Eterno è l’ESSERE, nel qui ed ora e sempre; e comprende in uno il passato e l’avvenire, è appunto l’ETERNO PRESENTE:  fu,  è,  sarà.

   L’Essere è il tutto, è Vivente Spirito, perennemente presente. E – in esso – l’UOMO integrato nella SOLARITÀ dell’Essere. L’Uomo libero, il figlio di Liber Pater, che è il Sole; il mercuriale petaso, il cappello alato del dio: l’intelletto attivo, “la folgore che governa il mondo” (Eraclito) da cui riceve impulso la Minerva che con retta arte e ragione governa la civitas: lo Stato, la nazione.

   Fuori, la transitorietà del tempo, l’apparenza che non dura, il caduco, l’istantaneo che passa, il tumultuare delle masse, il mortale come lo intendevano gli antichi: l’Ade, l’ombra, il tempo frale, il corruttibile.  

 

  

    Monito ed esortazione all’itala gioventù provenga dai Padri e siano esempio e sprone ad essa propizi. Indomita, non tralasci l’esercizio della virtù! Ritornino i giovani e le giovanette ai patri costumi, alle tradizioni avite e soprattutto allo studio altamente proficuo della cultura classica. Si dedichi la gioventù, affrancatasi una buona volta dalla faziosità, libera da ingannevoli pregiudizi ed emendata la mente dal ‘politicamente corretto’, anche allo studio obiettivo della nostra tormentata storia patria, troppo di sovente male esposta, travisata, appositamente distorta, tradita. A ciò si adempia come a un dovere, a un patrio compito e in piena, assoluta consapevolezza.

    S’incontri finalmente e riunisca in tal modo una gioventù ferma, salda e costante, coerente e concorde a perseverare nella diritta via della giustizia e dell’incorrotto verecondo agire: il romano honeste (virtuosamente) vivere! E individualmente, ognuno abbia cura del suo giardino interiore, come ammoniva Paracelso. E poi che ci siam trovati a citare il famoso medico e filosofo germanico, ai giovani oggi esposti alle lusinghe ideologiche del materialismo utilitaristico e del pansessualismo debordanti nel cosiddetto ugualitarismo radicale, leggi comunismo liquido, vogliamo ad essi ricordare quanto egli ebbe a scrivere sulla duplice natura dell’uomo: “L’uomo ha una natura duplice, mortale in parte e in parte eterna. Ognuna di queste due parti accoglie il proprio lumen da un dio, e infatti non vi è nulla che non derivi da quel dio”.  Da leggere con attenzione per coglierne l’insegnamento più riposto. I giovani di buona volontà cerchino anche, con proporzionata disciplina, di ottenere le virtù essenziali a riscoprire in sé il padre celato per avvicinare il divino intelletto, l’illuminante, acché una destra e coltivata ragione sia sempre esercitata e pronta al sano e giusto scerre. Allora si manifesterà, pronto e libero di agire, il combattente dello Spirito, libero d’ogni egoismo e particolarismo, d’ogni mondana passione e faziosità, un rifondatore della Patria. E un tal combattente della Tradizione non ha, dettata da destra ragione, altra scelta che rifarsi saldamente alla scienza degli antichi, un’arte oggi ignota a coloro che inseguono il cosiddetto “PROGRESSO”, grosso vocabolo designante un concetto senza costrutto, che si perde nelle nebbie del futuribile, ma fin troppo caro ai protervi politici implicati nel fallimento d’una pseudo 'civiltà' fondata sulla menzogna d’una scienza sinistramente titanica, come va evidenziandosi sul finire del primo quarto del secolo corrente. Ed è sempre il buon medico von Hohenheim, degno emulo dell’antico medico romano Cornelio Celso, e quindi Paracelso, a ricordarci, dai lontani anni della prima metà del ’500, il secolo in cui visse e praticò la vera medicina, che gli antichi conoscevano una scienza alla nostra superiore, cioè erano realmente scienti, sapienti e non scienziati, che vuol soltanto dire edotti in una umana caduca scienza: “Non so chi possa scoprire queste arti non note, ma ben so che sono arti molto antiche e che presso gli antichi godevano di gran reputazione e anche segretezza, infatti le tramandavano l’uno all’altro. Riponevano gli antichi tutto il loro tempo nell’immaginazione e nella fede, così inventarono e dimostrarono mirabili cose. Oggi non si trova più tra gli uomini fervida immaginazione e fervore di fede, perché l’uomo s’è rivolto a quel che porta vantaggio e giova alla carne e al sangue e fa quel che sollecitano gli appetiti, sol di quello occupandosi”.

 

  E quindi, o gioventute, non lasciarti distogliere dall’attenzione a quest’oggi, dalle urgenze del presente, anzi poniti immantinente all’opera, ché la via della conoscenza è lunga e ad augusta per angusta, e in più, come ammonisce Virgilio nelle sue Georgiche “fugit irreparabile tempus” e maiora premunt, infatti le cose più urgenti da fare sono davanti a te, in te qui e ora, hic et nunc; devi e con fondatezza accrescere te stessa in virtù e conoscenza, devi coltivare il tuo spirito, mettere ragionevole ordine  intorno a te; se non agisci con prontezza sarai sopraffatta dall’immanità del male: da tanta isteria confusiva, dalle contaminazioni massive eterodirette dalla inonesta tirannide feneratizia dell’usureggiante in perpetuum, l’Usuriere, l’infestus che s’è impadronito del mondo a danno delle genti e per il suo esclusivo sovrapprofitto. Vuoi dunque rimanere vittima di un’eteroeducazione che ti viene imposta dall’inimico al fine del tuo definitivo estraniamento? Estraniamento dalla libera solarità dell’ESSERE! Rinunci al tuo PRESENTE, al tuo hic et nunc: EGO SUM PRAESENS? Ti privi del consiglio paterno, del luminoso consiglio del Sole? Ti lasci sedurre dalle concessioni e dalle ricompense (terrene, ultraterrene!?!) di turpi potentati? O giovine, tu rinunci ad avere una volontà, una fede intima; incauto e vacillante, t’abbandoni a vivere da vacuista, esponendo la tua mente al maligno rostro d’un infernale vulture. Ti lasci sopraffare da un deprimente tecnicismo che va sempre più tecnicizzando le ore della tua giornata e così rapina la tua mente, dissecca l’anima e t’inaridisce la vita. Moderno giovannita ti sottoponi al nuovo battesimo – spaventato dalla pronuncia papesca: “chi non si vaccina non è cristiano!” – e timoroso offri il tuo braccio al vaccinostilo dell’infettatore tivvudico per ottenere la gratificazione della immunità di gregge, di branco, e così doppio appecoronato goderti i diritti costituzionali. L’Anonima Tirannide ne trae beneficio, quella che ha preso possesso del mondo con la sanglant guillotine illuministica, e più dappresso con le spaventose vampe atomiche dell’agosto 1945 e ancora più dappresso, pria col terrorismo bombarolo stragista e infine, crudeltà sopraffina, col terrorismo pandemico. Ora non sei più “fermo nel presente”, senza preoccupazione alcuna pensi già al domani e a quanto sarà bello il futuro? Sei difatti seduto al tavolo del ristorante: ahm! ahm! ahm! Buon appetito, figliuolo! C’è tanta gente ai tavoli: ahm! ahm! ahm! Buon appetito, brava gente! Sia benedetta la immunité, privilège del gregge!

 

   Per adesso, dunque, nel tempo presente, diciamo or ora, ci tocca fare appello a una minoranza, ai coraggiosi, a quelli dotati come Sigfrido, quel giovine tanto capace da uccidere il drago che gli impediva lo stretto passo, eppoi, bagnato dal sangue del mostro che lo rese invulnerabile, acquistò l’intelligenza soprannaturale e con essa il prezioso, nascosto tesoro. E tanto avvenne perché il giovine Sigfrido non sprecò il suo presente. Non si lasciò sorprendere dall’immediato, il momento presente, il drago, ma di quella presente energia, di quell’essenza imperitura impossessatosi, conquise l’invulnerabilità, cioè il tesoro inestimabile della libertà fulgente di consiglio solare, l’intelletto aquilino, che procede direttamente dal Padre: Liber Pater, che è Marspiter, che è il Sol. La libertà vera che rende invulnerabile l’uomo ed anche eroico; invulnerabile persino tra le fiamme del rogo e da ogni pestilenza.

 

   Gioventù italica, non lasciarti defraudare del tuo presente, non lasciarti estraniare da esso, circuire dalle preterie progressistiche e calamitare in domani incerti, in un nebuloso tempo che verrà! Nella conquista dell’oggi è il tuo domani, è nell’oggi, nel qui e ora, che romanamente affermi la tua lungimiranza; ciò che oggi hai creato, questa realizzazione sia il tuo domani! Operando nel presente, attuerai in esso anche quel certo domani da te liberamente deciso e con ciò il trionfo della tua cerca, purché essa non sia scaduta in un questuare; ma pura e scevra di finzione, sia la cerca della virtù nobile che in ogn’istante respinge e allontana la viltà. Opponendoti oggi all’incalzante imbarbarimento, oggi onorerai la patria sull’esempio dei nobili padri, e sul tuo retto esempio i tuoi discendenti domani. Passato, presente, futuro: un tutt’uno. L’eterno presente.

 

   Ricorda, o italica gioventute, che il dio Apollo, il Sole, ha posto nella tua faretra, il tuo hic et nunc, uno dei suoi dardi lucenti; in quell’astuccio, ch’è il tuo presente . . .

 

 L’ AUREO STRALE

 

 

21 settembre 2021, dies Martis

 

 

 

 

 

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D E  C L E R I C O  vel  D E  D O C T I S

 

ovvero

 

INTELLETTUALI  IN  COMBUTTA

 

________

 

 

L’INTELLETTO  AQUILINO

 

 

   Il cielo comanda dunque solo all’animale e non anche all’uomo. È il cielo che rende mite, benevolo e paziente l’uomo, sì che si potrà dire di lui che è quieto come una pecora e chiaro come il sole e che possiede la natura, la sapienza e l’intelletto della pecora; il sole dominerà in lui come in una pecora e non come in un uomo, poiché l’animale dipende dalla costellazione. L’uomo sarà giudicato perciò alla stregua della sua costellazione, ma limitatamente alla sua natura animale. Chi è rabbioso, lo sarà a guisa d’un cane furioso, e non a guisa d’uomo; chi è assassino, lo sarà a modo d’un orso; chi è ladro, lo sarà a guisa della gazza; chi è adultero, lo sarà a modo d’un cane; chi è superbo, lo sarà come il gallo; chi è infedele, lo sarà come un cane; chi è buon compagno lo sarà a guisa d’un cane. Tutto ciò è bestiale e a modo delle bestie. Ora, l’orgoglio, l’assassinio, l’adulterio, l’infedeltà e così ogni altra qualità umana hanno la propria stella, e le stelle si comportano nell’uomo non diversamente dal modo in cui si comportano negli animali. E l’uomo che possiede una natura bestiale a quel modo, e cioè una natura dotata di virtù animali, ha in sé la costellazione di quella specie animale. La medesima stella domina dunque il lupo nelle foreste e il lupo nell’uomo, ecc. Bestiale è dunque la ragione che somiglia a quella animale. Il cielo domina sovrano negli uomini che sono bestiali e che vivono e si comportano a modo delle bestie. Da ciò deriva l’uso di dire a lode di uno, che è come un leone, come un lupo, o come una volpe. Queste sono delle lodi bestiali, che muoiono nella bestia; e sono lodi peggiori dei bruti della foresta: ma l’uomo ha da essere uomo e non bestia. (PARACELSO)

 

______

 

 

Tanto bravo a ciarlare, del tutto incapace di parlare 

                                                                     Eupoli, I Demi

 

 

   Pare si sia allargato il secolo degli intellettuali; o meglio, questo ventunesimo secolo pare straripi d’intellettualità; ma no! non pare proprio, che questo secolo possieda la facoltà del comprendere. Diciamo, allora, che questo secolo straripa di dotti, eruditi et cetera; è affollatissimo di cerebrali. “Cerchiamo di intenderci, non ci confondiamo; non suscitiamo equivoci, di che roba si tratta? di qual genia di individui, se di individui si tratta, voi intendete parlare? Di qual terrestre specie?” In tal guisa ci apostrofa un tale, ovvero il solito quidam interloquente. E, ha perfettamente ragione! La cosa sorprende anche noi, di cosa vogliamo trattare?  Par d’aver messo mano a un che di vacuo, indistinto, evidentemente sterile, disutile. . . davvero imbarazzante! “Ma se avete pur testé detto che di tal gentame c’è un pigia pigia, una ressa incredibile?” Davvero, ha ragione il quidam, abbiamo affermato proprio questo! E l’intasamento, il far folla di tal genia è davvero spropositato… S’accalca dappertutto; la trovi al governo centrale, nei governi periferici, nei sottogoverni, nelle università, ai vertici del crimine organizzato; è distribuita tra tutti i partiti, nelle frammassonerie, nel basso e nell’alto clero, nei sindacati, tra i medici guastando per intero la farmacopea, tra i giuristi falsando il giure, nelle redazioni dei giornali e soprattutto nei massmedia e, declinata in ambo i generi, su tutti gli schermi tivvudici… Su, confermiamolo, sono proprio loro, gli/le intellettuali! La combutta degl’intellettuali del ventunesimo secolo! Oddio, che fottio!!! Uhi, uhi, sono i plagiatori, i gazzettanti dell’oggi! i contraffattori dei nostri costumi e della storia tutta, di ieri e dell’altrieri.

 

   Nella seconda metà del V secolo a.e.v, comparve in Grecia la democrazia, e vi perdurerò per tutto il successivo IV secolo, e con essa spuntarono come i funghi i sofisti. Parallela dunque alla democrazia, la sofistica si costituì come scuola e una guida per formare esperti dell’affermazione in politica e del sapere ben tenere il campo con successo: i politicanti, i faccendieri dei tempi nostri! I sofisti intrapresero una incalzante critica dei valori tradizionali, ponendo al centro della riflessione filosofica l’individualità umana; sprezzando ogni ipotesi cosmologica e argomento metafisico, circoscrissero la loro indagine ai problemi contingenti riguardanti soprattutto la politica e la vita sociale con l’aggiunta del condimento, o diciamo pure il sale d’una relativa pubblica morale. Un’etica sentenziosa, perciò pedantesca, parecchio esteriorizzata, e in pratica ipocrita. Tra l’altro è bene qui annotare che i sofisti si guadagnavano quotidie la vita vendendo il proprio ‘sapere’. Tanto razionalismo si prodigò quindi a valorizzare il mondo fenomenico e praticò la dottrina della soggettività d’opinione; si rivolgeva tutta l’attenzione dell’individuo al conseguimento dei beni materiali, giacché il pensiero dei sofisti, puramente cerebrale, riteneva sussistere nella materia il principio chiarificatore, quindi trovarsi in essa la spiegazione del Tutto. Con il predominio dei valori della ‘dea ragione’ (da intendersi non come raziocinio, buon senso, ma come dialettica e retorica dei lumi), la verità nel pensiero dei sofisti risultava esclusivamente dalla esperienza del soggetto, e da qui prese forza il relativismo che s’accompagna appunto all’empirismo. Di conseguenza, in quell’ambiente di decadente clima democratico-mercantilistico, con il pensiero sofistico, andarono diffondendosi, apertamente pubblicizzati, l’edonismo e con esso l’ateismo.  A proposito del pubblicizzare, una convenevole osservazione è qui da non trascurare: i sofisti, democraticamente peraltro, tenevano in gran conto la tecnica della persuasione; curavano molto le pubbliche adunanze che si tenevano nell’agorà, la piazza principale, dove i politicanti da loro istruiti si esercitavano nell’arte dialettica e della retorica; l’arte della parola suasiva che riesce a convincere e a pensare in un certo modo (programmato), e anche a fare oppure a non fare, califfo volente o califfo nolente.

 

   Ma la provvida Sapienza volle che la colta Ellade a fronteggiare tanta impudenza e ignoranza donasse tempestivamente al mondo il divino genio di Platone. In aggiunta, tanto sfacciato malcostume e l’arzigogolato argomentare dei sofisti vennero biasimati e fustigati dal genio comico dei poeti ateniesi, tra i più famosi Eupoli, Aristofane, Cratino.

 

   Molti studiosi han ritenuto di poter definire “illuminismo greco” l’avvento in Grecia della democrazia e della connessa sofistica per tutta la durata, ossia men d’un secolo e mezzo, per poi precipitare tarde nel baratro della decadenza. Non contesteremo questo convincimento, anche perché, con riferimento a quei specifici contesti storici, riteniamo giusto dar ragione al Machiavelli, dove asserisce che “Tutti i tempi tornano” e aggiunge: “li uomini sono sempre li medesimi”, il che ci pare segnatamente confacente al caso che andiamo trattando. Infatti, nonostante la plurisecolare distanza, non ci sembra considerevole la differenza dei caratteri, le componenti di natura e quelle qualitative, tra i sofisti dell’antica Grecia e i moderni illuministi settecenteschi, se addirittura identico fu e resta il sostrato dottrinario; unica distinzione, il divariare dei tempi e dei costumi per la comparsa e l’affermazione sul continente europeo del cristianesimo giudaico e poi del conseguente catto-giudaismo. Credenze, queste ultime, che nondimeno, nella nativa costituzione, nel loro organismo politico-religioso e diciamo pure nei propri reliquiari, serbano insito un primitivo fermento comunistico, che in questi ultimi tempi va apertamente manifestandosi. Latrie che per secoli hanno imbottito i cervelli di pregiudizi e illusioni, che hanno sostenuto assurde argomentazioni sofistiche e imposto i loro dogmi con la persecuzione e i roghi. Nel frastorno oblioso dell’affratellamento universale hanno abbandonato alle mattanze fratricide masse innumeri di fratellame (dannazione! ohi, ominosa ANONIMA” del fraternalismo globale! avara succhiatrice d’energie e d’uman sangue!). Certo, o studiosi emeriti, dotti delle democraticissime Accademie globali, un idillio fu quell’illuminismo greco; un idilliaco assaggio, ma esiziale semenza! Perniciosa, sì, se da quegli ovuli sparsi, fecondati dalla rabida invidia, ebbe origine e attecchì il sofisticume gnostico-cristiano!

 

   Il monachismo zelota, brandendo il simbolo mortifero e biasciando in giro testamentarie litanie, abbatteva i templi luminosi infrangendone il decoro dei solenni frontoni, spezzando le salde, candide colonne, erette a sorreggere il cielo. In interiore homine il cielo crollò, oscurità avvolse le menti, si rabbuiò il mondo intero.  Il lungo buio dell’età oscura! Tristia tempora! I tempi del livoroso zelota, del lividume levitico, della preteria fanatica, del sofista capzioso; l’evo dell’insolenza dei clerici, il secolo dell’arroganza dei dotti. I tempi della smisurata cupidigia, della dannosa avarizia, radice dei più ascosi e recenti mali. L’era delle prave opinioni, dell’iniquo operare e quindi della vana gloria; i giorni e le ore innumeri dell’ipocrisia. L’epoca del malanimo della marmaglia, dell’invidia cristiano-giudaica avverso la bellezza e lo splendore, l’armonia e la misura del mondo classico; l’invidia del claudus Paolo e della sua congrega di feneratores e battezzieri avverso l’Urbe eterna e le sue leggi divine e umane – iura divina et humana – come le definì Cicerone, aggiungendo che quel diritto era amato per se stesso da tutti i galantuomini: omnes viri boni ius ipsum amant; ma quei sopravvenuti erano una masnada d’impostori, sebbene addottrinati con raffinato acume in sofistica e sottili conoscitori dello gnosticismo settario. Insomma, un ambiguo erudito giudeo-cristiano e una grossa combutta cosmopolita di infidi intellettuali, presuntuosi e furenti.

 

   Dobbiamo una risposta all’interlocutore, il quidam di cui all’inizio di questo scritto. Ai giorni nostri cerebrale e intellettuale sono pressappoco sinonimi, e ciò indubbiamente provoca confusione. Ma occorre distinguere. Intellettualismo vale cerebralismo, entrambi i termini equivalgono a concettosità. Or dunque, il concetto è soltanto il pensiero astratto della realtà, e ciò implica complicanza; ma il complesso, che non è mai piano, lineare, e facilmente accessibile, è conseguente a un’artificiosità di pensiero, a un opinare artefatto e quindi a una realtà contraffatta. L’attività del pensare, dunque, sarà continuamente artata, sforzata, sofisticata. Il cerebralismo e l’intellettualismo suo sinonimo invischiano la mente cerebrale, l’opinare cervellotico, in una materiale complicazione, che corrisponde a una involuzione e quindi ad un oscuramento della coscienza. Una mente passivante, ingabbiata, lontana dalla realtà e dal vero.

 

  E abbiam detto che occorre distinguere. E dunque questo mentale catturato, ridotto a condizioni materiali (financo a una mente macchinale, automatica), decisamente lo distingueremo dal soffio leggero di quel fuoco invisibile ch’è l’intelletto, sciente, attivo, solare. Non fatua, vana esternazione, immaginazione esposta a subitanee trasformazioni, ma la reale manifestazione dell’inalterabile vero. La vista del saggio che sa discernere le cose vere, le sceglie e le separa dalle false: l’intelletto sciente che ben vede e attua con giustizia. La realtà vera e giusta, la sola che preserva la integrità della natura umana, e la cultura dell’uomo e la sua dignità. Dante l’annuncia così: “Luce intellettual, piena d’amore; /amor di vero ben, pien di letizia…” L’intelletto sciente, raggiunto  il mondo delle idee perfette, incorruttibili, ove si giova della visione compiuta del vero bene, quel giusto bene che partecipa della realtà assoluta, deve a un tempo adoprarsi per confermare tanto bene e giustizia anche nella realizzazione terrena, quale saggia acquisizione d’una conoscenza unitaria non asservita ai vincoli sensoriali, ai limiti posti dalla percezione materiale; il completo godimento dell’unitiva virtù della conoscenza, lungi dalla seduzione del relativismo positivistico ovvero dalle sofisticherie d’ogni genere e tempo.

 

  Pertanto, impiegando il simbolo dell’aquila, ecco come Cecco d’Ascoli significa l’intelletto attivo: “E l’aquila per tempo si rinnova /Volando ne l’eccelsa parte ardente, /… Nel gran volato le sue penne ardendo, /Riprende giovinezza…

 

 

 

                        Sì mi rinnova nel piacer costei,

                     Ed arde di vergogna la mia mente

                     Quando s’aggrava pur di seguir lei.

                     Spandendo l’ali della sua virtute,

                     Allora cresce l’intelletto agente

                     Mirando di bellezza la salute.

                      … … …

                        Sì come donna delle giuste genti,

                     Disterpa d’ogni vizio la radice

                     Dal cor che mostra poi gli atti possenti.

                     Misericordia avendo e caritate,

                     Alla viltà del mondo contraddice

                     Facendo degna nostra umanitate…

 

 

  Questo aquilino intelletto dal dritto, ardimentoso volo che si leva alto, e superando le umane passioni e bruciando le percezioni sensoriali, passività, apatia, tutto ciò che invecchia, rinnova il mondo nel gran volato, e l’uman genere riprende giovinezza. E allora la mente si responsabilizza e segue quel volo. Si espande lo spazio d’azione della riacquisita virtù e l’intelletto agente impone il bene della salute in un mondo che ritrova le giuste proporzioni esistenziali. Come una signoria che regge genti giuste, estirpati i vizi dal cuore, dimostra l’efficacia del retto e giusto agire, così anche l’agire dei saggi che governano con la pietas cordis, con la comprensione, detestando la barbara spietatezza. Unità d’intelletto sciente ed intelletto attivo: in sostanza, quando saviezza, equilibrio e giudizio governano le nazioni, dal mondo sparisce discordia e viltà; con l’orbe in pace, l’uomo torna degno, nobile, magnanimo.

 

   “Li uomini sono sempre li medesimi”. E così i sofisti dell’antica Grecia e i moderni illuministi settecenteschi si possono agevolmente accostare, pur se non accomunare del tutto. Occorre tener primamente conto del divariarsi dei tempi e del mutar dei costumi e soprattutto delle credenze. Per quel che concerne le credenze, poi, e sempre in riferimento ai tempi, la distanza è grande. La Grecia dei sofisti era ancora il luogo ospitante il ricordo d’un tempo in cui “gli dei camminarono tra gli uomini”, come dice un verso di Hölderlin e dove, nel canto del poeta, “i cuori perennemente ardevano d’un eroico amore, come la fiamma di Vesta, e con fierezza e gioia la giovinezza s’eternava, similare ai frutti delle Esperidi”. E senz’altro l’agorà, splendente di marmi seppur gremita ormai di sofisticatori, tra mercanti, demagoghi e filosofanti, era un luogo aperto, esposto al sole e all’aria, e non certo i chiusi, tartufeschi salotti nobiliari o le ombrose, soffocanti logge ove s’adunavano gli illuministi del 18° sec. Ma della stessa natura, affine, il dottrineggiare con sottigliezza, con acribia, e puntuale la doppiezza farisaica degli atei che sguazzano nel più sudicio edonismo. Non intendiamo però trascinare i nostri gentili lettori in nessuna di quelle cortigianesche accolite o para-massonici consessi ove si esponevano i segreti Lumi d’un credo massimalista nei secoli sempre in agguato. Che noia tra quelle braies nobiliari in rivolta unitamente ai feroci Sans-culottes, tra cui s’aggirava l’ombra segalina e sinistra del boia di Place de la Concorde a Parigi. E quale orrore in quella agorà parisienne, a Place de la Concorde negli anni 1793 e 1794, gli anni del Regime del Terrore, gli anni della nascita della democrazia esportabile: quella d’oggi, ancora in corso negli USA e in Europa!

 

    L’oggi! E, “li uomini sono sempre li medesimi”! E sono tutti qui, oggi! Adunati dal sommo Clerico, le turbe cerebrali, la plenitudine dei dotti, i sofisti, gli illuministi, i gazzettanti e gli intellettualoidi tivvudici dalla rigidità decerebrata, fantocci massmediali al servizio d’un marcescente regime demo-pandemico e della Propaganda Fide Vaccinara. Una propaganda che riduce a carne di vacca e di manzo gli abitanti femmine e maschi di questo mal avventuroso (da quando si mise nelle mani dei battezzieri) Paese da tali propagatori immaginato come lo stereotipo d’uno stivale di vacchetta o, fuor di metafora, abbassato a bestia vaccina; il che è proprio una spregevole vaccata! E già! son quelli di sempre, zeloti, gnostici-paolottisti, sofisti, illuministi et cetera; il dottrineggiare è sempre lo stesso, non muta, catechismo cristiano, catto-giudaico, comunistico, la stessa pappetta o pappaccia. Soltanto vogliamo rilevare che la pericolosità del loro pensiero è andata di grado in grado accrescendosi nel tempo; e sempre più, dal tempo della cosiddetta idolatria pagana a giungere ai tempi della salvezza messianica. Dallo xiphos greco, la spada acuminata del linguaggio suasivo risonante nell’agorà, in piena e avanzatissima cristianità si passò alla ghigliottina che tagliava fila di teste, teste umane (mal) pensanti, per persuaderle al pensiero illuministico; trascorre poco più d’un secolo e la cristianissima Europa, che affonda, a dir degli edotti, le sue radici nel giudaismo cristiano, viene travolta in una sanguinosissima guerra fratricida, seguita in Russia da una spietata ed altrettanto sanguinosa rivoluzione. Poco più di due decenni dopo, la II Guerra mondiale. Questo secondo conflitto ha fornito a lor signori armi d’incommensurabile potenza. Eh! passeggiare convinti che nelle tasche si possiede l’arma atomica, non è cosa da poco, ci si sente padroni del mondo; si resta convinti d’aver toccato la luna e il pianeta più prossimo con le dita, e sotto tanta mole una moltitudine d’inermi nanerottoli.

 

   Poi giunge il terzo millennio; han fatto guerre dappertutto, hanno esportato ovunque la democrazia e quindi è giunta l’ora di far capire ai popoli ch’essi sono i sovrani d’un bel niente. Sono loro invece i capi assoluti, quelli che hanno investito nelle guerre democratiche; gli affari sono affari e il denaro deve tornare all’investitore, con gl’interessi. Ma sì, è d’uopo una pandemia! una pandemia su scala planetaria, e poi diffondere il terrore, la paura d’un morbo pandemico sempre in agguato… Basta confidare nella dissennatezza del mondo e nella combutta degli “intellettuali”. Infatti, i padroni del mondo, quelli che tiranneggiano i popoli servendosi del democratismo illuminista, credono di essere loro i “super-intellettuali”, i cervelloni del mondo, la materia grigia dell’intero pianeta, e perciò se ne stanno comodi, intenti ai loro affari; con torme di battezzieri al loro servizio, stanno quindi piegando la gente ai rituali vaccinici e alla adorazione della Madre Vacca progenitrice. Così vuole la Teologia della Liberazione: la religione della Pachamama, la Grande Madre, oggi, al passo con i tempi cosmopoliti, venerata come Sacra Vitella o Vacca Amazzonica nei giardini e negl’ ipogei Vaticani. E già s’ode il fatidico grido dell’intellettualità tivvudica che accompagna l’urlo della tirannide: al rogo i no-vax!  come già toccò agli anabattisti, fratelli in Cristo, che rifiutavano di battezzare i bambini perché inconsapevoli.

 

   Qualcuno si chiederà: donde tanta dissennatezza? Gentile amico, ogni animale vivente sulla Terra ha un suo cervello. L’uomo usufruisce di una massa cerebrale più dotata, e vanta il possesso d’una materia grigia raziocinante. Bene! Fin quando, vivendo populariter nel dominio sensorio  –  limite fisico del percepire – egli riuscirà ad esercitare un sano raziocinio, mens sana in corpore sano, pur trascurando la conoscenza del sé, egli vivrà onesto e virtuosamente; ma se questo raziocinio non riceve luce, lume non giunge alla mente dall’alto, anzi rifiuta il sostegno del buon esempio, non accetta d’una saggia guida l’ausilio, di un’ etica efficace, d’una pietas religiosa e anche d’un sistema giuridico sicuro la tutela, inizia la decadenza dell’individuo e delle società, s’oscura il buon senso, il raziocinio comincia a vacillare, e di malo esempio in malo esempio, si precipita nella dissennatezza; con l’irragionevolezza si cade nell’assurdo, poi peggio, nell’aberrazione e nella depravazione; allignano i vizi, dilagano l’ignoranza, l’inettitudine e il crimine. Distrutto lo Stato e la sua Religio, il potere passerà nelle mani degli usurai: una seva tirannide, con gli ambiziosi e i vanesi trascinati al suo servizio.

 

   Qui, dappertutto oggidì son grandi rovine, in Italia, in Europa, nel mondo.

 

   Tempo è che l’aquila si levi nel gran volato. L’italico intelletto, sciente ed attivo, non può più soggiornare in un nido così mal ridotto. Tempo è che il cuore italico, in unità con la mente ringiovanita, torni a manifestare il possente agire che già fu dei padri Romani e, com’essi agirono, ancora una volta contraddica alla viltà del mondo, ed estirpando alla radice tanta corruzione e fradicia barbarie, restituisca l’Italia e l’Europa intera alla romana Civiltà.

 

 

5 settembre 2021, dies Solis

  

    

 

 

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 I L  M E S E  A U G U S T A L E

 

SPES    VICTORIA    SALUS

 

 

Abbaiano i cani a quel che non conoscono

                                                                 Eraclito

 

 

   Provenienti dal fronte del Sannio giunsero a Roma “notizie allarmanti, più di quanto in realtà i fatti, e spinsero il console Lucio Postumio appena convalescente a partire. Egli, dopo aver dato ordine ai soldati di concentrarsi a Sora, inaugurò, prima di mettersi in marcia, il tempio della Vittoria che aveva fatto edificare sul Palatino in qualità di edile curule. A Sora si ricongiunse con l’esercito, raggiungendo poi il campo del collega nel Sannio. E accadde che i Sanniti si ritirarono, privi della speranza di poter fronteggiare con successo i due eserciti.” Questo è il racconto liviano dell’inaugurazione del tempio della Vittoria, operata nel giorno I° sextilis (poi calende d’agosto) dell’anno 459 di Roma (294 a.e.v.) dal console Lucio Postumio Megello, dell’antica gens Postumia. In quell’anno il console assestata combattendo la situazione militare nel Sannio, s’inoltrò in Etruria ove sconfisse duramente gli Etruschi in campo aperto presso la citta di Volsinii e conquistò Roselle; le altre città etrusche, tra cui Arezzo e Perugia, s’affrettarono a negoziare la pace. Rieletto console nel 291 consolidò ancor più quelle posizioni, sconfiggendo gli Irpini e conquistando Venusia, che divenne un’importante colonia latina. In precedenza Lucio Postumio, eletto per la prima volta console insieme a Tiberio Minucio Augurino, aveva inferto nel 305 un duro colpo ai Sanniti, determinando la fine della seconda guerra sannitica e della loro potenza militare. Gli eserciti dei due consoli che marciavano separati, su comando di Postumio si riunirono e d’improvviso piombarono sulla citta di Bovianum, roccaforte sannita. Il console Minucio morì in combattimento, ma la battaglia di Bovianum vide la rovinosa disfatta dell’esercito sannita con la cattura del suo comandante in capo, il meddix Stazio Gellio. L’anno seguente i Sanniti stipularono una pace con i Romani.

 

   Di tali fatti storico-militari abbiamo scarne notizie persino dallo stesso Livio, ancor meno da Diodoro Siculo, e null’altro; eppure dovette trattarsi di interventi rilevanti e risolutivi se si considera che il Sannio era una nazione di gente bellicosa, ma ristretta in un particolarismo regionalistico, bene armata, servita da generali abili e valorosi, difesa da un territorio malagevole, montano, e con munite roccaforti, un esercito duro da piegare e pervaso da fanatismo etnico. Del tutto legittima quindi l’inaugurazione d’un tempio alla Vittoria in Roma, sul Palatino, da parte d’un valente e vittorioso generale, quale certamente fu il console Lucio Postumio. Accanto al tempio voluto da Postumio, circa un secolo dopo, nel 193 a.e.v. una aediculam Victoriae Virginis M. Porcius Cato dedicavit biennio post quam vovit, annota Livio. Porcio Catone, il Censore, ebbe gran reputazione d’esperto agricoltore, ma anche di ottimo soldato e combattente su vari fronti tra cui quello d’Africa con Scipione Africano, ove ebbe modo di ben vagliare da vicino la minaccia dell’invida strapotenza di Cartagine, da cui la sua implacabilità verso il nemico punico: “ceterum censeo Carthaginem delendam esse”. Non contrasta con tal carattere la dedica d’un tempietto a Victoria Virgo accanto a quello votato alla Vittoria dal console Postumio sul Palatino, il duce che aveva strenuamente combattuto e vinto l’ostinato sannita. Il primo agosto si festeggiava anche la ricorrenza del tempio a Spes nel Foro Olitorio, che fu votato nel corso della prima guerra punica dal console Attilio Calatino in ricordo della vittoria romana nella grande battaglia navale di Capo Ecnomo (Licata) combattuta nel 256 a.e.v. In età augustea poi il Senato dichiarò giorno festivo le Calende di agosto, per la consacrazione del tempio a Marte Ultore dopo l’esito favorevole della battaglia di Filippi con la quale furono puniti i criminogeni propositi degl’invidi assassini di Cesare, e infine per celebrare con la presa di Alessandria, avvenuta all’inizio d’agosto del 30 a.e.v., la vittoria su l’invido Oriente al cui trionfo ambiva l’invida Cleopatra sostenuta dal tradimento orientaleggiante del sedotto Marco Antonio. Ottaviano aveva così posto fine alla guerra civile; gli verrà conferito il titolo di Augustus.

 

   Spes, Fidanza, Fede vittrice: Victoria! La Realtà Vittoriosa, il Vero sacro, l’Augusto.

 

   Quando la gloria del Sole s’espande, l’invida oste si dilegua, svanisce.

 

   Il decadere sempre più precipitoso, a strapiombo ormai, che il mondo contemporaneo è costretto a subire, e non se n’accorge, è da coloro che s’atteggiano ad  avveduti – presenti soprattutto sui social media e siti web – attribuito con convinzione allo stravolgimento delle regole democratiche e costituzionali (dittature sanitarie, governo occulto dell’alta finanza, lobby et cetera); invece, questo cadere sempre più dabbasso, altro non è che il “logico” tragitto regressivo di una illudente ideologia eretta a sistema di governo planetario e per di più  con le basi in un mondo minaccevole, vivente sotto l’incubo nucleare. Una sovversione globale affidata alle liturgie tivvudiche, un apparato massmediale al massimo dell’incisività ed efficacia, e appiccata al nodo scorsoio delle cabale finanziarie. Dite, dite! come farà l’avveduto circospetto, sia esso fautore del costituzionalismo, o marxiano, steineriano, no vax, eleusino, antiquario catto-giudaico che tira archibugiate al ventre amazzonio della gesuitica Teologia della Liberazione et cetera, ad esporre il suo credo democratico dal profumo di giglio solitario, a miliardi di elettori democratici in tutte le ore del giorno globalmente “comunicati” dai democraticissimi, gonfi d’invidia, battezzieri tivvudici? Si suole dire: un buco nell’acqua! Vivano da convinti democratici questa età democratica! il tempo del’invidia: non potrà esserci un’età più democratica della presente età. Una democrazia più pandemia, ossia presentemente comunitaria, di questa d’oggi che va realizzandosi nell’or ora operante attualità pandemica. E di grazia, abbiate la cortesia, soprattutto voi che conoscete il greco e il latino e vi vantate “filosofi”, di non definire élite, o aristocrazie, i male olenti spiriti che oggi pretendono di governare le nazioni attraverso il suffragio delle urne e i demoni occulti (nascosti cioè nella nebbiosa disattenzione, oscuramento della mente umana) che governano plutocraticamente il mondo direttamente al servizio del Disgregatore. Piuttosto leggete e invitate a leggere La Repubblica di Platone; ci dite ch’è roba ormai vecchia? noi vi diciamo che è una buona lettura riguardante proprio il momento attuale. Noi siamo dalla parte del dèmos in questa battaglia; noi amiamo il nostro popolo, l’Italiano sempre ben disposto, e vogliamo che emerga rinnovato il suo valore, la virtù distintiva del suo kràtos, onde abbia il buon governo che si merita, il reggimento dell’àristos, dei suoi migliori, degli ottimi. Non lasciate evaporare quel po’ di simpatia che v’accreditano in giro o peggio di attirare il dubbio che possiate essere degl’invidi… aspiranti agli onori e agli scranni democratici… a divenire degli oligarchi! Oligarchia infatti è la giusta definizione di quelle cricche che voi definite impropriamente élite. Oligoi-archè = supremazia di pochi, il potere in mano di pochi, generalmente ricchi mercanti ieri, oggi strapotenti finanzieri. Una degenerazione del concetto di aristocrazia, quindi anche una degenerazione della stessa democrazia, il che dimostra che il kràtos del dèmos non può essere retto che dalla virtus dell’àristos, dell’ottimo, il migliore ch’esso esprime. La corruzione dell’àristos nel seno d’un popolo comporta la decadenza del popolo stesso. Quella che vien definita democrazia, nella realtà vissuta non ha alcun senso, i governi democratici mascherano sempre l’oligarchia, un declino, la decadenza, l’asservimento d’un popolo deprivato della sua virtù e della sua forza; un popolo, naufrago nell’invidia e in balia di spinte e interessi alieni. La democrazia sopprime la patria potestà e così distrugge la famiglia e lo Stato, il patrio costume, l’avita cultura, e poi “muore, a dir di Platone, prima che nel sangue nel ridicolo, e viene la violenta tirannide che si distingue tra tutte le precedenti” (L. VIII - La Repubblica).

 

   La democrazia è suolo fertile per l’invidia, vi s’avvantaggia sempre l’egoista, l’ambizioso, il rancoroso e il malevolo, ch’è appunto l’invido. Dove allignano malevolenza e invidia non v’è concordia; le società infestate da tal malanno conoscono un’incessante guerra civile; non necessariamente un’ostilità aperta e frontale tra due fazioni, pur se non mancheranno i morti. L’arma tossica, venefica, sarà la politica, poi il terrorismo, le lobby, le società criminali, le armi corruttive, le armi di persuasione occulta, i mass media e la micidiale arma tivvudica, l’arma “giocattolo” per eccellenza; si scatena l’avversione, scorre a fiumi il malanimo!

 

   Scrisse Platone che per reprimere l’invidia deve compiersi incessantemente il bene, o meglio la società, stando al dir del poeta, abbisogna di “accostarsi a virtù che il bene aspetta” (Cecco D’Ascoli), e affinché ciò avvenga occorre che un popolo sia forte, concorde e libero, e i suoi governanti non siano marionette mosse da estranei poteri. Nella sottomissione ch’è servaggio cresce l’apatia, s’afferma e diffonde l’indifferenza, si smarrisce la patria cultura.  Le acque ristagnano, s’ammorba l’aria: l’animo del popolo, con le virtù avite, le sue linfe vitali, si corrompe, la sua memoria, custode d’una tradizione di norme, di valori, di ideali civili, conquiste di millenni, si svia. Allora la salute è persa, compare la “pestilenza”, che porta distruzione e rovina. Una tirannia, prepotente e distruttrice, s’appropria di tutto e piega l’imbelle alle sue voglie.

 

   L’invidia, che il mondo no abbandona

E fura la virtù dell’intelletto

Ed arde ciecamente la persona,

Manduca l’alma distruggendo il core.

. . .   . . .  . . .

   Questa è tristezza dello bene altrui

Ed allegrezza del dannoso male

Che vien per caso nelli tempi a nui.

 

   Questo dannoso male, dice il D’Ascoli, travolge le virtù accecando l’intelletto delle persone e corrodendone l’anima distrugge la civile concordia. La sconsideratezza umana che si combina con tempi ad essa confacenti, periodi di turbamento o conflitto sociale, di confusione, di attriti politici, di dissensi ideologici e tant’altro, tende a deprimere e avvilire il bene altrui (ma saggezza vuole che il bene altrui è anche di tutti) e a stoltamente rallegrarsi del dannoso male.

 

   Contro questo male che acceca, corrode, dilania, divide, consuma, Roma dovette adoprare il gladio e combattere, come sopra abbiam detto; combattere contro l’ invido Etrusco decadente, adorante i sepolcreti e il lusso mondano; contro il Sannita, arroccato nel suo egoistico particolarismo, che alla generosa lupa iperborea opponeva il segno  che arresta, l’invido intralcio del bove tauro, la roccaforte di Bovianum; affrontare il poderoso predominio degl’invidi punici,  idolatri di Moloch e Melqart, fosche entità protettrici  dei traffici con cui vessavano l’intero Mediterraneo. E, poi, il male più grande, l’invidia che s’agitava nel seno stesso dell’Urbe. La guerra civile e l’invidia congiuratrice. Contro il male che “il mondo no abbandona”, a quei dì, ed era giunto il tempo felice dell’Augusto, s’erse il Marte Romano; il Marte che vendicò la paternità oltraggiata, il Marte punitore dei congiurati, dei fomentatori della discordia civile, tutti traditori della Romanità, ebbe il suo tempio sul Palatino, il tempio a Marte Ultore, consacrato alle calende d’agosto, quando dappertutto s’espande la gloria del Sole.

 

   La tempra di agosto, la sua natura vittoriosa, richiedeva anche che si celebrasse alle none (5 agosto) un pubblico sacrificio al tempio di Salus sul colle Quirinale nel luogo chiamato collis Salutaris. Anche questo tempio fu votato durante la guerra sannitica, nel 311 a.e.v. dal console C. Giunio Bubulco. Il tempio alla Salus Publica Populi Romani.  

 

   Spes, la Fede vittrice, Victoria, indi – eliminata l’invidiaSalus.

 

    Agosto è quindi il mese della Salvezza, allor che il Vittorioso, cacciata fuori dal limen patrio la barbara invidia, proclama la Pax. Ora l’Augure leva la sua orazione a DIUS FIDIUS e impetra di assicurare la SALUS al popolo Romano. 

 

 

    Quando la gloria del Sole s’espande, con la vittoria dell’Augusto, torna Salus sul collis Salutaris.

 

*

  

   Il sole ha raggiunto lo zenit. Immoto l’azzurro del cielo. La valle è silente. Tacciono le cicale. Voce non s’ode. Un fruscio tra le fronde luccicanti dell’alloro, o un bisbiglio lieve: auge? Sì! s’accresce il silenzio, diventa intenso, rombante. È l’ora di Pan!  Compresa da sì alta quiete la natura tutta riposa.

 

   E, il coronavirus? Quello passeggia tra i vicoli urbici, laggiù oltre il fiume, oltre le schiene dei monti, stracco e sfibrato dalla grande bagarre, da un così perfido disordinamento civile, dalla pestilente invidia dell’umana folla, dall’umana follia.

 

  

   Dies solis, ferragosto 2021

 

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IULIUS FELIX   Felice luglio

 

salutando questo luglio 2021 che sta per passare il testimone

 

 

   Queste righe, che s’aggiungono alle precedenti di ‘Felix Prisca Gens’, le dedichiamo al mese che sta per trascorrere, al Felix Iulius di questo anno 2021; a lui unicamente le dedichiamo, e, vogliamo intendere, in un modo speciale, privato, intimo. Ha voluto, all’occhio della nostra mente, rappresentare l’attenzione costante dovuta all’inconsutile veste solare, che portiamo con noi, e dentro di noi, nascendo a questo mondo. Veste che va preservata, ponendo una giusta cura e una misurata, lucida tensione dello spirito, soprattutto nei momenti più oscuri e decadenti, in cui si manifestano gli impulsi distruttivi, che provengono da maligne brame e sono mossi e ‘diretti’ da malevoli intenti; intenti oscuri che però dispongono di armi micidiali, con le quali, senza occorrenza di filo spinato, gabbie e garitte, costruiscono i loro mostruosi gulag, popolati di folle ignave, abuliche, di apatici, di coatti per vocazione e, ancora, di gente pavida, di clerici, d’intellettualoidi  timorosi e di vili. A guardia di questi gulag i cosiddetti ‘governi democratici’ e gli ideologi del mainstream; relegati all’opposizione – una parodia di necessità – i fascistoidi di comodo.

 

   Ma, peggio, la paranoia del nemico dell’uomo, la nevrastenia tipica del cospiratore, il socio della scurità, della sterilezza che disgrega e desertifica, dell’ignoranza, influenza le masse che vengono gravate d’oscure forme di sofferimento in cui attecchiscono e si propagano ogni sorta di disturbo, pena, malanno, o si riesce facilmente a infiltrare il virus di morbi alienanti e persino angoscianti pestilenze. Morbi ‘incurabili’, ma che possono curarsi, badate bene, solamente con la vaccinazione di massa, la sola, a lor dire, ch’assicura l’immunità di gregge, perché, come si è udito dal tal sacro soglio, “chi non si vaccina, non è cristiano”, cioè non fa più parte del gregge; diventa egregio (ex e grege, abl. di grex, gregis) e, quindi, si distingue dal gregge; il che, per un essere umano, ci pare cosa appropriata e ottima.

 

   I pavidi, incoraggiati dal tivvudismo imbelle e asservito, sono ancora molti, e i battezzieri, armati d’ago, siringa ed acqua santa, il cosiddetto vaccino, sono ancora gli stessi del tempo che fu, fanatici, incorreggibili Zeloti; attualmente seguaci d’una zelotica “Teologia della liberazione”, in veste moderna essi professano un comunismo fondatamente materialista (la materialità e il progresso tecnico-materiale come fine ultimo) e un pansessualismo indifferenziato; è questa l’ideologia che prende piede ed essi vogliono s’affermi nel mondo intero. Oggi, poi, che si sono impadroniti del seggio catacombale di Pietra-vatica si sentono i dominatori e li trovate dappertutto, da Washington a Beijiging; sì, anche con gli occhi a mandorla, e sì, pur di pelle nera. E, tutti, cristiano-tecnici specializzati in globalizzazione e in un bibbie-cabalare. Finiranno con lo sdrucciolare su quest’acqua santa sparsa a sfascio, ancora più viscosa e untuosa che non quella di pria, ch’era semplicemente un favoloso vaccino contro il virus del peccato originale.

 

   Difatti, tutta questa invenzione pestifera, che continua ossessiva, ha portato un’aria stagnante, un morbo che ha causato morte e povertà, e ha diffuso in qualsiasi luogo un’atmosfera palustre, pesante, minacciando condizioni di vita inerte, ha cancellato tra la gente vivacità e alacrità, spesso la fiducia in sé stessi e la voglia di rinnovarsi. Una estesa palude: acque pantanose.

 

   Torniamo alla vera medicina! La medicina che cura l’anima e insieme il corpo; la medicina che è innanzi tutto in noi stessi, nella nostra mente segreta; il medicamento, il rimedio, che il buon medico conosce e ci aiuta a ritrovare. Ricordiamoci primamente che Salus è in noi ed è divina e intoccabile, ma solo se lo vogliamo. Volere non significa pretendere, e nulla e da nessuno; aiuto si può chiedere, ottenendolo da chi è in grado; sempre però pronti a rendere, a ricambiare. Quando è o vien messa in pericolo la salute, e non solo quella individuale, ma ancor quella familiare, sociale, o la patria salute, bisogna combattere senza indugio, e combattere bene; chi esita o si rimette a dubbie mani per inerzia o pavidità d’animo, rischia.

 

   E veniamo al nostro luglio, IULIUS FELIX, il mese felice, il mese che non dirazza, che serba integre le sue radici, che obbedisce alla sua ratio, alla sua natura, alla sua norma, alla sua condotta; radix e ratio che gli derivano da un principio, da un’origine unica, che sono la sua ragione e scienza d’essere. Egli ci ha svelato la condotta infida del nemico e per combatterla ci ha porto il suo gladio, dalla tagliente lama di luce solare, con esso difenderemo l’inconsutile veste; nulla abbiamo da temere dal contagio, dagli untori tivvudici, dai furori vaccinali degli Zeloti, pungenti e irritanti battezzieri.

 

   Il combattimento è iniziato, le lugubri ‘scelte’ governative cominciano ad essere seriamente avversate; già la giornata di ieri, con il tempo arieggiato, ventilato, la limpidezza del cielo e le tinte rasserenanti del tramonto, ci ha davvero riportato nei campi felici dell’estate. Augurale, stamane, il silenzio della valle contornata dai vecchi monti, raccolta nella sua verzura, allietata da trilli e gorgheggi e da un venticello leggero. Ehilà! Sì, laggiù. . . sotto quell’arco di fronde, ove s’addensa un boschetto di pini, elci e piccoli cipressi! Sì, ve’, ve’! Quelle figure leggere, leggiadre, quei movimenti di rami sottili, di ramicelli, di foglie, nell’insieme ricordano. . . simigliano figurine snelle, di fanciulle! Su, suvvia, dai! Non cadiamo nella pareidolia, immagini illusive, apparenze! E, quella grazia, e quelle mirabili acconciature ninfali? Beninteso la natura è tutta animata, altroché! Accade! certi suoi movimenti, visioni, fantasie o immagini che si presentano alla nostra vista, ci sgravano dalle ansie, ci alleggeriscono l’animo e la mente. La Natura ha i suoi ritmi e le sue leggi ed è sempre alleata dell’uomo che quei ritmi e quelle leggi rispetta. Manca di saggezza l’uomo che di esse non ha rispetto, nella sua natura corporea e fuori, ignorando quindi la vera medicina: homo infelix, miser!

 

   Un luglio felix e i suoi felici campi, giornate solatie, senza l’opprimente afa vaccinale, ambienti puliti, gente spensierata e felice, acque che scorrono dolcemente fresche e chiare; tutto avviene semplicemente, naturalmente, senza artificio, senza inganno.

 

   Per uscir fuori, e definitivamente, dal pantano – epidemico e peggio – oltre all’aria sana occorre che le acque tornino a scorrere chiare, fresche e dolci nelle corporeità umane, nella mente degli uomini, nella vita delle famiglie, nella mente delle società umane; ché esse vengano nuovamente riaffidate al governo dei saggi! Occorre quindi recuperare la saggezza; ma la saggezza originaria, è sepolta sotto una plurimillenaria ignoranza; la saggezza degli inizi, sapientia ianualis, sarà di ritorno sulla terra solamente alla fine di questa età oscura, ultimata l’età del ferro. Per il riacquisto di tal nume tutelare già operavano i più saggi tra i Romani. Il 25 luglio a Roma si celebravano i Furrinalia, festa dedicata alla dea Furrina, divinità dal nome misterioso e che aveva relazione con le acque.  Varrone al VI, 19 del L.l. lascia queste notizie: “I Furrinalia hanno il loro nome da Furrina, poi che questo giorno è in modo ufficiale a tale dea consacrato. Il culto di questa dea era particolarmente vivo presso gli antichi. Infatti per lei erano istituiti annui sacrifici, e le fu assegnato un flamine; ora a malapena, e da pochi, se ne ricorda il nome”. Dice proprio così: “nunc vix nomen notum paucis”. Siamo con Varrone ai tempi di Cesare e di Ottaviano e quel nome divino solo a pochi era noto. E pochi eran coloro che operavano per il riacquisto della saggezza originaria, la preziosa acqua di Vita, l’aqua Mercurii, che, indispensabile come indispensabile è l’acqua, non poteva e non può mancare, ma che, obliata dai più, scorreva, già allora e oggi ancora, in profondità ignote.

 

   Questo luglio combattivo, ci ha insegnato anche questo, occorre non far ristagnare le acque. L’avverso non ama i campi dell’estate, fa i suoi profitti là dove la gente affoga nel padule tra zanzare e tafani e soffoca nella mala aria.

 

 

Il lettore interessato può anche leggere o rileggere quanto da noi già scritto sulla dea Furrina andando sulla colonna a sinistra: L’INAUDITO PLAUSIBILE Continuat Iter, poi alla pagina NEPTUNALIA raggiungere il capitolo: 25 Luglio – FURINALIA.

 

 

Veneris dies, 30 luglio 2021

                                                                  

 

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 FELIX PRISCA GENS

 

 

 

 

Beatus ille qui procul negotiis

ut prisca gens mortalium … (Orazio)

 

Felices arbores Cato dixit, quae fructum ferunt,

infelices, quae non ferunt. (S. Pompeo Festo)

 

Mea sententia, qui rei publicae sit hostis,

felix esse nemo potest.(Cicerone)

 

 

 

   La Musa oraziana giustamente celebrava colui che si tiene lontano dai traffici e dai luoghi ove si sbattaglia, si briga e ci s’affanna, luoghi d’artifici retorici, insidiosi, oscuri, eleggendo così felice, tra tutti i mortali, la gente prisca. E bene diceva Catone, che felice è l’albero che porta il frutto, infelice l’albero che non dà frutto. E chi sarà talmente bieco e sinistro da rimproverare a Cicerone di aver severamente affermato: “a mio giudizio, colui che si mostra avverso alla patria, mai potrà essere felice”?

 

   Europei 2020, 11 luglio 2021 a Wembley – notizie ANSA.it: “una Italia da impazzire: siamo campioni d’Europa. Inghilterra k.o., 4-3 ai rigori, è  f e l i c i t à  per tutti gli italiani. Festeggiamenti nelle piazze di tutta Italia. A Milano 15 feriti, tre ventenni ricoverati d’urgenza, due dei quali in codice rosso per lesioni da bombe carta”. Ancora un crescendo di esaltazione: “Ma certo, lo possiamo urlare senza rischiare la lesa maestà, perché il calcio è di casa in Italia, ed è una bellissima casa tutta azzurra. Siamo sul tetto d’Europa [ma davvero?], ci torniamo sotto gli occhi del presidente Mattarella a distanza di 53 anni e lo facciamo nel giorno esatto del 39° anniversario del trionfo mondiale in Spagna: non potevamo mortificare una data simile . . . Siamo stati più forti degli auguri della Regina Elisabetta, dell’incitamento di Boris Johnson e dell’imbocca al lupo telefonico di Tom Cruise, perché la missione impossibile [nientemeno !!!…] stavolta l’hanno portata a temine attori italiani”.

 

   Sta bene la vittoria in una competizione sportiva e il rallegramento che ne viene, poi il vivo compiacimento del popolo per i propri campioni, ciò si può comprendere ed è anche normale. Meno comprensibile è la smodatezza dei deliri delle folle, e addirittura stranente la retorica del potere politico affiancato dai mass media, che di queste effimere febbri delle folle profitta per ancor più snervarle e confonderle con discorsini melensi e clericaleggianti  che, fino alla noia, propongono i consueti cliché imposti dall’ideologia dominante: la globalizzazione tecno-mercantilista, un demo-comunismo liquescente, estremo, annullante ogni distinzione, filantropicamente voluto dai grassi padroni della finanza mondialista, nella cui disponibilità, oltre ai fiumi di denaro, è anche ogni arma bellica, dall’atomica alle armi psicologiche integrate con ogni sorta d’aggressivi chimici e, in più,  gli spaventevoli  armeggi sul morbo pandemico. Ma il dato di fatto oltremodo deprecabile, sciagurato dunque, consiste nel controllo che costoro, uniti in consorterie di pochi individui, le famigerate lobby, esercitano sulla psicologia delle folle per condizionarne i comportamenti e nella quasi totalità dell’orbe terraqueo; padronanza raggiunta e assicurata attraverso l’uso saputo e accorto dei mass media, cinema, giornali e soprattutto della tivù; né essi trascurano di adattare ai loro fini, cogliendo il momento propizio, persino le opportunità offerte dagli eventi sportivi. Una mostruosità! E tanto è stato iniquamente da essi raggiunto anche attraverso l’imbarbarimento della mentalità delle masse, lo sradicamento delle nazioni e il controllo dei governi, con la degradazione dei popoli più evoluti e d’antica civiltà, spinti sugli strapiombi della decadenza da un clero insincero e trafficone, contorto e ambiguo, vocato alle catacombe e ai lunghi crepuscoli; un clero avverso agli Umani in cui ferma è la celeste dote, gente viva e fiorente che sul sentiero boreale, nella luce del Nord, dirizza i suoi passi. Fu già il cammino della Roma arcaica, nella superna luce delle sue aurore polari.

 

 

*

 

   Immerse nel rosa, nuvolette insinuano sorrisi d’aurora, mentre il sole tramonta; in lontananza, l’altipiano montano s’affoca d’ostro; di quaggiù, la cima sottile d’uno slanciato cipresso si ritrova con la precoce luna. Grave, sostenuto e incoraggiato dal caloroso tramonto, il frinire delle cicale si protrae nell’ora vesperale. Più tardi, silente e serena la valle riposa sotto la luce selenica; ed ora Trivia, contornata da vistoso nimbo, una verde aureola di vivo smeraldo, si gode l’alta, profonda tranquillità d’una soave notte di luglio.

 

   Sotto il cartellone pubblicitario, in specie quello tivvudico, della zelanteria vaccinatrice, nell’odioso trambusto dei pro e dei contro, la gente frastornata, intontita e spaurita, oblia. Poi, una folla di pensieri contrastanti, di preoccupazioni, di timori, di sospetti e la gente, travagliata dalla vita, oblia. L’oblio! Tutto involve l’oblio nella sua notte, annotava il Foscolo. La notte dell’anima, la infelicità: la vera peste!

 

   Davvero ci si era dimenticati di luglio, dei sugosi frutti lugliatici, della prima uva?  Sì, purtroppo! L’ intristita folla, ormai imbavagliata, è inerte di fronte a così imponente offensiva mediatica tutta a favore dei vaccini e dei vaccinatori, una nuova levantina genia di battisti e battezzieri ancor più subdola della precedente; le meningi sopraffatte dall’urlamento giornaliero degli strilloni tv, novelli clerical-cekisti che tolgono agli ospitati, se contraria alla tendenza dominante la parola, quando questa può risultare scomoda, cioè sgradita ai padroni dei media. Un’estate per niente festosa, pur se quel 11 luglio, domenica, e il dì seguente, con Inghilterra k.o. per un 4-3 ai rigori, accidempoli “è felicità per tutti gli italiani, che salgono così sul tetto d’Europa”! Ohi, ohi! felicità, signori?! Probabilmente un’effimera esultanza di folla, un’eccitazione festereccia e confusa, un’euforia urlata, su cui s’è artatamente sovrapposto l’istrionismo dei politici e dei governanti. E, tanta gloria all’arcifanfano!

 

   Felicità, signori? Felicità non è parola insignificante, ma di pregio, con essa si esprime l’essenza di una virtù che accresce, innalza e sublima, perché aderente al divino.  La felicità vera è consapevolezza d’una realtà feconda, che produce, genera, rigenera, dà frutto. Felicità è là ove ha posto sua sede concordia. E riflettete bene, in profondità: può esserci felicità senza concordia? E non è dunque concordia a ingenerare felicità e ad esser sua custode e difensora? E non sono entrambe, strettamente unite, numi tutelari della patria, delle genti e delle famiglie?

 

  Una breve interruzione nel nostro discorso, ci sia qui consentita, per suggerire agli amici e alle amiche la lettura o rilettura della bellissima lettera che Epicuro indirizzò al proprio figlio Meneceo, in essa il filosofo insegna la saggia maniera per raggiungere la vera, reale felicità; beninteso senza farci latori del meccanicismo democriteo, dottrina che Epicuro in parte fece propria. Abbiamo fatto una ricerca su internet e per i nostri lettori scelto un’ottima traduzione; è sufficiente cliccare LIBRERIAMO – Lettera a Meneceo.

 

   Luglio è un mese ianualis, un mese importante, infatti inizia il secondo semestre dell’anno, vi matura la prima uva, l’uva luglienga; ed è anche un mese rigoroso e risoluto, non ammette e quindi respinge le avversità, i morbi, le sventure, dato che è lui il mese per eccellenza felix, fruttifero. Il mese che offre alla vista del sole fulgente le ricchezze della terra, i suoi doni felici. Ma la gente, sviata e in preda al cattivo umore o travolta da entusiasmi effimeri, si è dimenticata di luglio, del mese felice. Allora le infelici folle attirano su di sé ogni malanno; e or si infliggono la soverchia forza del sole ardente, potentia solis acrior, oppure di Borea il freddo penetrante, Boreae penetrabile frigus (citazioni virgiliane, Georg.), con conseguenti sciagure, com’ è accaduto nel cuore del luglio in corso e in questo tristo anno. Eppoi, si dà la colpa ai mutamenti del clima e al surriscaldamento del pianeta; ma fatto è che l’uomo non si lascia guidare dalla saggezza, e ancor peggio le folle nel disordine, prive del nocchiero, senza buoni esempi e modelli. Si rivolge tutto l’interesse, le più sollecite cure e somma apprensione alle cose materiali; il male, secondo il giusto parere di Epicuro, deriva dall’agire dell’uomo, “dalla scelta umana che si istituisce all’interno della sua libertà”.

 

   Alle Kalendae di luglio accanto a Juno, cui appartengono tutte le calende, si festeggiava anche Felicitas, era questa per i Romani una entità divina affine a Fortuna? No! Infatti Felicitas aveva anche una connotazione guerriera, essa era invocata dai duci e dai generali nel momento in cui stavano per intraprendersi sul campo le azioni belliche. FELIX era appunto quel connotato che s’imprimeva nell’aspetto fisico della persona del duce vittorioso, come un’aureola di gloria solare che ne contornava il volto e la figura tutta, rendendola temibile, come parimenti e di rimbalzo la marcia delle legioni vincitrici.  Il tempio era sul Campidoglio e dedicato e fatto costruire da Silla, quale duce vittorioso, che impose a sé stesso l’appellativo di Felix. I romani non lasciavano alla dubbia fortuna, le loro imprese di guerra e le loro vittorie. Non erano del pari rimesse alla casualità stagionale la coltura e la cura dei campi; in luglio infatti, il mese che s’apriva con i festeggiamenti a Felicitas, si rendeva manifesta l’opera in uno feconda e felice dell’aratore, e il buon coltivatore veniva prodigamente premiato dall’abbondanza di doni della fertile terra con una felice, ricca mietitura. E ancora, a coronamento di tanto feconda e felice raccolta, nell’ultima decade di luglio, si festeggiava Concordia nel suo tempio nel Foro; era la festa dell’intesa, dell’unione di tutto il popolo dei Quiriti. Questa corrispondenza delle due feste, Felicitas alle calende e Concordia sul finire del mese, attraversava l’intero luglio come segno augurale d’un infrangibile legame tra i romani di qualsiasi ordine, a difesa di Roma. E Felicitas si ritrova in Concordia, unione della mente con il cuore. Da questo incontro e unione germinano e fioriscono amore e amicizia.

 

   Occorre qui un tantino sostare e riflettere bene. Felicitas, innanzitutto non è un nome astratto, ossia lo è soltanto dal punto di vista grammaticale, ma tal divina essenza si può manifestare nella realtà concreta, tangibile addirittura, dell’animo umano quando si eleva dalla mera condizione terrestre, allor ch’esso si sublima. Non può esserci felicità casuale, fortunosa, eventuale nel senso etimologico, o peggio ancora propagandata. Felicitas, una entità divina forse troppo negletta, ma non dai Romani di stirpe antica, abbiamo accennato a Silla, spesso tralasciata dagli studiosi moderni, i quali nemmeno ne suppongono la remota antichità, eppure Orazio la riferisce alla prisca gens mortalium, la gens che procedeva sul retto sentiero boreale, onde Roma e i Quiriti discesero. Ricolleghiamoci quindi al precedente paragrafo e agli esempi ivi prodotti. Non appare Felicitas su un terreno incolto, essa non è dei tempi infecondi, sterili, non visita dell’uomo le aride stagioni. Felicità è prolifica, richiama prole d’eroi, Felicità è fruttifera, richiama l’estate piena, solare, messidoro, termidoro, fruttidoro. Solo l’animo predisposto e l’indole incline, mente e cuore consapevoli, possono accedere al suo tempio, un animo ben orientato, obbediente, che ha prestato attento e fidato ascolto, dunque preparato e pronto al combattimento, cioè non pavido, imbelle. Spiega il grammatico Festo: “Imbelliam, belli inscientiam”, l’inettitudine al combattimento è la condizione dell’imbelle, quindi l’ignoranza dell’arte della guerra, la totale inscienza della dottrina e disciplina marziali; il vile, il pavido, il barbaro, non sono liberi; privi di solarità, non raggiungono il fulgido limitare, non possono aspirare al soglio felice, non raccolgono il consiglio del Sole. Felix è l’animo libero, la mente creativa. Non scordiamo che il bellicismo dello scorso secolo fece subire immani rovine alle genti; non ci furono trionfatori felici, ma un tracotante invisibile sopraffattore, e difatti quelle rovine a tutt’oggi perdurano, né quel bellicismo s’è mai spento, e penosa, oppressiva infelicità incombe dovunque nel mondo.

 

   Con Felicitas ci trasferiamo nella mitica stagione dei LIBERI, per superare tanta torbida consunzione e profligare la imminente barbarie, riconquistiamo adunque le terre doviziose, ospitali e felici, di Liber pater, che è Marspiter, che è Sol, andiamo tra coloro che sono esperti nel guerreggiare. Al fianco di colui che vere libere et vagus est, perché severamente exercitatus et sciens belli, e prestantissimo quindi nell’alto, solare concipere sine labe, pro patriae civitatisque libertate. Liber pater, primus auctor triumphi.

 

   Anzitutto, conseguiamo l’immacolato concepire per felicemente ritrovare compiuto il ricordo, che ci accoglie e ci unisce nella nostra interiorità, nel profondo del nostro animo. Ritorniamo ad essere noi stessi, felici in quel lontano noi stessi; distante sì, ma pur così prossimo; scongiuriamone l’estraneità! Scampiamo al pericolo di mai più aver per padri e madri la nostra felix prisca gens, quella che mai distolse il proprio cammino dai luminosi sentieri, il boreal cammino. Ricordiamo, dunque! Ma attenzione, che quel ricordo sia veritiero! Facile è illudersi. Il guerriero non deve mai ingannare se stesso.

   Ascoltiamo il vate tebano, l’ardito Pindaro, l’allievo di Mnemosine: “Tu non giungerai agli Iperborei, non ritroverai quella via, né con una nave, né percorrendo sentieri terreni. Quel sentiero che fu percorso, d'artico arcano nell'urente luce, dall’eroe Teseo, da Ercole l’invitto e dai Romulei Patres.  I Patres, che ci ricorda Cicerone, così pregavano prima delle grandi intraprese:

 

quod bonum, faustum, f e l i x, fortunatumque esset

 

 

 

Sabato, dies Saturni, 24 luglio 2021

 

 

 

 

 

 

 

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Mater Matuta
Mater Matuta

 

 

 

LE  BIADE  DI  CERERE

 

 

ite, bonae matres – vestrum Matralia festum –

  e recate flave focacce alla dea ...

 

Tempore item certo roseam Matuta per oras

  aetheris auroram refert et lumina pandit ...

 

 

 

   “Così al tempo prefisso Matuta richiama la rosea aurora per le plaghe dell’etere e diffonde la luce...”

 

 

    Sono di Lucrezio gli ariosi, aurorali versi; quest’altri sono di Virgilio: “… Phoebea lustrabat lampade terras/umentemque Aurora polo dimoverat umbram…”, cioè, “l’Aurora illuminava le terre con la luce del Sole/ allontanando dalla volta del cielo l’umido della notte…”.

 

   Di meravigliose aurore la dea mattutina, liberando dalle tenebre le plaghe dell’etere, rifulge nei mattini di quest’ultimo scorcio di giugno e ai monti, alle valli, ai campi, riporta il miro, italico sole. E il mese della mietitura, messidoro, già risplende dei maturi frutti, delle gialleggianti biade di Cerere, la figlia di Saturno e di Opi.

 

   È andata bene! Sarà una buona stagione. La tenebra è stata ricacciata; l’ostinata nimistà, l’unghia adunca del demoniaco è stata spezzata, il contaminatore delle menti si contorce nella propria impostura, nel viscidume massmediale informe delle sue coliche ideologiche. Il fallace inimico è stato battuto; non è riuscito a defraudarci della nostra estate, a devastarne la bellezza, a spengerne la ferace visione. Celebriamo, adunque, l’Aurora, che porta a noi l’astro della luce, sgombra da tenebra la mente del mondo e gli orizzonti apre e rischiara ai volonterosi. Questa raffigurazione guerriera dell’Aurora il Dumézil de La Religione Romana arcaica la attinge dai miti vedici. Un’Aurora, sorella della Notte, che battaglia “violenta contro le demoniache Tenebre”, ma che “è rispettosa e devota verso la Notte, che appartiene com’essa all’ambito buono del mondo, a quell’ordine cosmico, di cui esse sono dette congiuntamente le madri”. Sempre nei miti vedici e “secondo una singolare fisiologia, esse sono le due madri del Sole o del Fuoco sacrificale . . . altre volte l’Aurora prende in consegna il Sole o il Fuoco, figlio unicamente della sorella Notte, e s’incarica di averne cura.” Nel racconto che ci giunge dai Romani, invece – il Sole genito dalla notte e questa per niente una dea – è presente soltanto la seconda versione, come netto s’evince anche dai versi succitati.

 

   La Mater Matuta è l’Aurora, una dea molto antica sul suolo d’Italia, patrona delle madri e dei loro figlioli in fasce, a Roma il suo tempio era nel Foro Boario accanto al tempio della Fortuna Virginale; la festa, i Matralia, ricorreva l’11 giugno durante il corso dei Vestalia che si svolgevano dal 9 al 15. Matuta ha come radice ‘ma’ che è d’un arcaico mani, un neutro indeclinabile, poi divenuto mane, di mattino o di buon mattino, da cui, il (tempus) matutinum. Quel tempus primum, tempus initii (vano sforzarsi a scorgerlo), da quando essa era stata, et in omne tempus, continue, semper l’incipiente Aurora! E, con la voce ‘incipiente’, vogliamo intendere l’appartenenza all’ordine primigenio, che origina, quindi, dà principio, dà inizio.

 

   La festa era riservata, come accenna Ovidio nei versi in epigrafe alle bonae matres, matrone univirae, cioè sposate una sola volta. Le matrone dovevano lavare e poi ornare il simulacro della dea. L’accesso al tempio era riservato alle sole matrone, con l’eccezione d’una schiava, femina impura, che veniva ritualmente percossa e poi cacciata dal tempio; alla dea venivano offerte focacce, liba tosta, cotte in tegami di terracotta.Dopo di che, pregando e tenendo tra le braccia i figli dei propri fratelli, quindi appartenenti alla stessa gens da cui esse provenivano, raccomandavano i fanciulli alla dea e vi univano anche preghiere di salute per la propria gens, la famiglia d’origine e non quella del marito cui ormai appartenevano. Fu Dario Sabbatucci a rilevare questo significante particolare; in quel giorno e solo per quel giorno le matrone univirae riaffermavano la loro identità gentilizia, tornando nell’alveo paterno. E qui, è ancora il Sabbatucci ad opportunamente notare la relazione calendariale dei Matralia con i Vestalia. Nello studio su La Religione di Roma antica, scrive: “le vestali non si sposano e quindi la loro identità è tutta contenuta nella gens da cui hanno avuto origine; esse affermano – culto di Vesta a parte – la fedeltà alla gens paterna, così come l’affermerebbero le donne che pregassero non per i propri figli ma per quelli dei loro fratelli.” Ma, sostiene sempre lo studioso, come l’Aurora, manifestandosi, deve in breve dar luogo all’ingresso del giorno, così le matrone giusto per il tempo dei Matralia si ritroveranno nella loro gens d’origine, per far immediato rientro nell’ordine sociale e in obbedienza all’istituto matrimoniale. La festa di Matuta ha però ridato alle univirae, alle spose, alle donne romane, alle loro figliolanze, il divino tratto aurorale, che viene dalla propria mai rinnegata origine, e nelle giornate di piena, dilatata luce del solstizio d’estate. Non trattavasi pertanto d’un atto socialmente trasgressivo, rientrando nella circolare perfezione della religio romana. E, ancora, nel Foro Boario situato tra il Campidoglio, il Palatino e l’Aventino, accanto al tempio di Mater Matuta s’ergeva anche il tempio della Fortuna Virginale; trattavasi d’un culto peculiarmente femminile; in quel Fortunae fanum, infatti, le donzelle prossime al matrimonio deponevano, consacrandole alla dea, le loro togulae e i giocattoli dell’infanzia. Potevano mai le mulieres, le uxores, le dominae, le matres – le romane matrone – essere infide, e infeliciter trascurare o addirittura tradire la loro connata sorte, agire contro la personale congiunta JUNO, e così mutarla in una advorsa voluntas? La Mater Matuta non avrebbe (s)perso le sue figlie: in quel tratto aurorale gentilizio, in quel saldo segreto retaggio stava la loro virginale fortuna.

 

   Mercuri dies, 30 Giugno 2021. Nel sole, sotto la luce meridiana, appagata di canti e di voli, la mattinata s’acquieta e cede i campi e i poggi e i declivi all’ardore dei raggi febei. Subitaneo, inatteso, un vento gagliardo irrompe; velocissimo scorribanda per tutta la valle, non dà tregua alle frasche, alle fronde degli alberi, costringendole a un intenso, alto, continuo fruscio di cui s’empie l’intera valle. Un saettare di luce da poggio a poggio, tra le chiome agitate con furia degli alberi; e nel cielo d’un azzurro limpido e intenso, bianchissimi cirri in fuga, vascelletti alla mercé del vento. È il saluto con voce tuonante d’aria e di luce, il saluto di questo giugno 2021, prodigioso di biade, che sta per lasciarci; è il suo saluto alla valle!

 

   Poi una calma assoluta e il tramonto, sereno, tinge d’ostro la dorsale dei monti ove calato è il sole.

 

   Questo scritto si dedica alle nostre buone amiche e alle gentili lettrici.

 

 

 

 

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  I U N I U S - I U N O N A L E  T E M P U S

 

I U V E N T A

 

 hic quoque mensis habet dubias in nomine causas

 Ovidio

 

   Ovidio inizia il sesto libro dei Fasti dichiarando che anche il nome del mese di giugno ha una origine incerta. Est deus in nobis, però afferma; è, egli intende dire, quel numen che ispira e conduce il Vate – se questi ha unito in sé mente e cuore – a ideare, avendo pur cura di provvederlo dell’estro – ritmo e misura – che dà vita e sapienza alle cose, giacché in esso sono i semi della mente divina, sacrae semina mentis; per cui il poeta non inventa cose immaginarie o si lascia andare alle fantasticherie, ma canta fatti reali, sacra cano. Pertanto quando egli tratta, giustappunto nell’officio di vate, argomenti sacri, è come stesse di fronte agli dei, fas mihi praecipue voltus vidisse deorum.

 

  Quando ci s’interroga sull’origine d’un dato mese e sulla ragione o motivazione del nome attribuitogli, tal quale come per le stagioni, non è sufficiente riportarsi al calendario inteso in modo profano, come sistema convenzionale di divisione del tempo o di successione cronologica dei fatti storici, in termini volgarmente diaristici, cronachistici; insomma, nel senso moderno, utilitaristico, transitorio, volto ai bisogni e alle necessità giornaliere della specie umanoide formicolante. Occorre, per converso, non intralciarsi nelle effemeridi, quelle di ieri, di oggi, di domani e posdomani, ma oltre l’annuo, il bienne, il trienne, compararsi con le durate astronomiche, e senza tema attingere allo stato di ciò che è atemporale. Tale il calendario, le   stagioni, gli anni, i mesi, nelle epoche eroiche dell’UOMO, quando Terra, Cielo, sistemi planetari, galassie e il Cosmo intero non subivano alterazione alcuna. Immutabilità che attestava e nel contempo sosteneva una incorruttibilità irradiante il centro solare dell’interiorità umana cosciente, la costanza cultuale delle genti civilmente evolute, e la stabilità della stessa natura terrestre, stando tali entità in vicendevole concordanza, tanto che dappertutto dominava un’universale armonia, e la temporalità e le sue ricorrenze o cicliche occorrenze erano visitate dall’atemporale in sembiante di dei; della divinità, sive mas sive foemina, altissima evocazione!  Per tal motivo, ogni mese era segnato da festività solenni; ed erano esse festività un luogo distinto, separato, uno spazio consacrato all’atemporale, al nucleo solare, interno dell’animo umano, al cuore della civitas, al sole dell’Urbe.

 

   Intanto che si dava inizio a questo scritto e se ne stendavano le prime righe, spiavamo l’aspetto del cielo che già dal mattino andava sempre più illividendosi. Quasi mezzodì e giugno ha deciso di mostrarci il suo broncio; ed ecco giungere la buriana di giugno, lampi squarciano il cielo nemboso e riecheggia il tuono. Un grosso, esteso acquazzone!  Poi, smette; s’ode un gagnolare lontano e all’unisono il canto degli uccelletti. Ora, ci s’aspetta il sole, ma nessun cenno d’azzurro, non un raggio che penetri quell’aere cupo; anzi, giù, lungo il fiume si leva serpentina la nebbia e avvolge da ogni parte le pendici del monte. Così trascorre tutto il pomeriggio e a sera, all’occaso, in quel punto estremo dell’orizzonte, un tratto affocato di scura nube si stinge: è il cruccioso saluto di questa giornata di giugno.

 

   Ha le sue buone ragioni giugno per corrucciarsi. Non è forse egli il mese della gagliarda, provvida gioventù   immune dal timore dei morbi; gioventù a lui, al Genio della sagacia, dell’acuta, sottile Sapienza, affidata dai nobili e prestanti padri e dalle virtuose, generose madri, veterane procreatrici di figli alla patria? E, invece! Eccola, questa odierna gioventù, coscritta nei ranghi dell’ignoranza radicale, sottomessa all’arrovesciamento globale delle sessualità fluide, indifferenziate, attratta dai consumismi sfrenati e presa da vanità narcisistica. E ultimamente, addirittura in fila, a pecoroni, costretta a subire le terebrazioni vaccinali; prostrata dall’ingarbugliamento mentale provocato dalle prediche battologiche delle estenuanti serate tivvudiche. Non è questo un paesaggio gradito a Iunius, al mese di giugno, un paesaggio da Iunonale tempus, da mese sacro al nome di Giunone, la dea custode delle nozze feconde.

 

   Le prime giornate del mese si son rivelate d’una florida e prospera primavera, giornate di sana primaverile maturezza, il frutto giugnolo era sull’albero e facevano bella mostra sui poggi i fiori e le rose giugnine, ed ieri, al settimo dì, la giornata crucciosa, il disappunto di giugno per il giovanile eclisse, per una gioventù che nelle sue militanze, nei suoi propositi, nei suoi impegni, si dimostra imperita, malestrosa; presuntuosa, di mente rozza, da grillaia politica, da banco di pescetti tipizzati in sardine, sardelle, sardelline et cetera.  Voilà la nouvelle! e avremo menti lesse, affumicate, di onorevoli, sottosegretari, ministri...menti impegnate in grossi affari...affari interni, affari esteri, affari di Stato!  A tali impicci e beghe da beghine, e a tanto lor begare, il nostro giugno volta le sue ampie spalle lucenti di sole.

 

 E quest’oggi, ottavo giorno del mese, martedì, dal nostro luogo d’osservazione, o amici gentili, conosciuti e sconosciuti, e pur voi quondam amici (o, forse, apistofili?) possiamo assicurarvi che tutto procede bene, secondo natura, e che il sole prosegue lassù splendente come sempre, avanzando verso il culmine del suo cammino nel cielo. Stamane la valle è dappertutto sonora di canti e folta di voli; roride, le verzure sbrilluccicano nel sole. Il nostro orto è contento dell’annacquata d’ieri; più giù una merla si dondola su un ramo sottile del prugno, alcune tortore si calano sul prato a rubacchiare granelluzzi alle galline intente all’incessante razzolio. La naturalezza che vive sotto il sole, nel libero e vago aere! Commuove tanta purezza, la mattutina semplicità della natura, vivente da remota età su questo pianeta sotto l’arco del cielo lucente d’un eterno sole. In un luogo tenebroso, nell’erebo dell’artificiosità cacofonica, s’è confinato l’uomo moderno, fuori dall’armonia cosmica, segregandosi nella complessità annodata con fantastilioni di lacci; il laccio del denaro e sua comare usura che lucra su tanta pandemica follia, globale pestilenza. Gli inferni sono sempre involuti, oscuri, complicati, molteplici. “Guai a voi, anime prave! / Non isperate mai veder lo cielo.” Menti rozze, menti folli! Squilibrio nella vita dei popoli, nelle generazioni...per un sempre più esteso allevamento di anime ignave, nequitose.

 

 

*

 

  Sfogliando il Libro VI dei Fasti di Ovidio, giunti a l’8 giugno, veniamo a conoscenza dei festeggiamenti per la DEA MENTE (versi 241/246, ns trad.):

 

  E Mente pure, il nume ha; di Mente il tempio scorgiamo

a lei votato per la tema del tuo assalto, o perfido Punico.

Tu, sleale, rinnovasti la guerra, e per la rovina del console tutti,

attoniti, grandemente paventarono la furia Maura.

L’orrore aveva fugato la speranza; pronto, il Senato a Mente

fa voti: ed ella subito venne a noi più propizia.     

  

  La dira aggressione che Annibale conduceva contro Roma, una volta superate le Alpi con grande dispiegamento di forze, e soprattutto il proditorio agguato teso al lago Trasimeno con l’immane strage delle legioni del console Gaio Flaminio, avevano fatto cadere in preda allo sgomento la popolazione dell’Urbe. Si profilava una minaccia sempre più oscura e incontenibile, che scoraggiava gli animi, deprimeva e fuorviava le menti. Il Punico procedeva nei suoi sinistri progetti con piani perfidi e astuti, ben calcolando come trarre in inganno le avverse schiere, come lasciarsi alle spalle, senza grandi perdite, rovinosa strage e devastazioni. Devoto ai suoi Baal, Melqart, Tennit e ai suoi ignoti, innominabili DEMONI, non trascurava le superstiziose cerimonie e di celebrare i sacrifici. Al Trasimeno s’era persino ingraziato i loca, e a lui, un estraneo, s’erano tempestivamente palesati i posti adatti (alture, stretti valichi e gole) per l’imboscata come le vie di scampo, e il momento più favorevole con l’occasione della nebbia, che venendo su dal lago s’addensa fitta sui luoghi pianeggianti, ben controllabili quindi dall’alto.

 

   Ma cosa accadeva a Roma? Infausto segno era che, impune, Annibale avesse attraversato le Alpi accolto dagl’Insubri e dai Galli Boi; in realtà, per meglio dire, il solo fatto che ciò avesse osato. La prisca fortuna e la fides latina non avevano agito a tutela e salvezza del popolo Romano dall’oscura minaccia della Punica fides, dai malefizi dell’ingannevole ars Punica. Un qualcosa di lesivo era sopraggiunto ed era da accertare, da riconoscere all’interno della stessa civitas. Ora occorreva fare attenzione e affrontare la dura prova per ritrovare la forza e la virtù smarrite, compier l’opera da consacrare al patrio nume.

 

   Il primo scontro sul suolo italico si ebbe nel tardo autunno del 218 a.e.v., e avvenne in modo occasionale mentre le legioni di Publio Cornelio Scipione, attraversato il ponte sul Ticino da esse in precedenza costruito, ispezionavano quella riva del fiume e si scontrarono con l’esercito Punico proveniente dall’opposta direzione. Le legioni, abbandonate dai Galli che disertavano passando nelle schiere annibaliche, si trovarono accerchiate dalla massiccia cavalleria Numida, sorprese da un’avvolgente manovra sui fianchi e alle spalle. Il console ferito gravemente fu salvato da suo figlio, il futuro Africano, appena diciassettenne; protetto dai legionari che continuavano la pugna, nonostante la fuga disordinata degli arcieri, riuscì a organizzare il ripiegamento ordinato delle truppe e a rifugiarsi nell’accampamento. Con l’intento di salvare le legioni ordinò di levare il campo dirigendosi verso il ponte sul fiume, della cui distruzione incaricò la retroguardia, e dopo averlo attraversato ripiegò su Piacenza, ritirandosi sulla riva destra della Trebbia. Ai primi di dicembre viene raggiunto dal console Tiberio Sempronio Longo, dei Semproni plebei, che assume il comando stante l’impedimento di Scipione. In contrasto con il collega, Sempronio decide di attaccare le forze Puniche in un freddo mattino di dicembre. Si svolse quindi l’infelice battaglia della Trebbia che, nonostante il prode impegno delle legioni, vide la sconfitta dei Romani; questi, circondati dalla cavalleria e dagli elefanti di Magone, il fratello di Annibale, ebbero il grosso dell’esercito distrutto sul campo. Tiberio Sempronio Longo aveva fatto attraversare le acque algide del fiume a tutte le forze Romane sotto il suo comando in un mattino molto freddo, senza dare il tempo ai legionari di rifocillarsi, stanchi, digiuni e quindi debilitati, mettendoli altresì nella insostenibile situazione di combattere avendo il fiume alle spalle. Lo attendeva Annibale, il truce nemico, ma con la truppa in gran forma, in pieno assetto di guerra e padrona del campo. Evidente, nel campo romano, l’egolatria d’un comandante albagioso, presuntuoso, imprudente, e tutto sommato imperito, dalla mente annebbiata, perché priva del consiglio divino e di quella limpidezza d’animo che si consegue con la pratica cultuale; libidine di potere che acceca l’uomo, un duce, non penetrato dal supremo senso di responsabilità verso la patria in armi.

 

  Tanto e di peggio accadde al Trasimeno. Eletto una seconda volta al consolato per l’anno 217 a.e.v., Gaio Flaminio Nepote, dei Flamini plebei, era un homo novus, non incline a consultare il Senato così contravvenendo la tradizione; aveva anche coperto la carica di Tribuno della plebe e durante il precedente consolato fatto eseguire notevoli opere pubbliche, la via Flaminia, il Circo Flaminio; sconfitti con il collega P. Furio Filo i Galli Insubri, stabilì la Provincia della Gallia Cisalpina fondandovi le colonie di Piacentia e di Cremona per mantenere sotto costante controllo le irrequiete popolazioni galliche; era quindi un notissimo politico popolare. Costui però non osservava le prescrizioni propiziatorie inauguranti la elezione al consolato, era negligente, non curava le cerimonie religiose, i sacra. Pertanto, con le sue legioni raggiunte le sponde nord-occidentali del Trasimeno la sera del 20 giugno 217 al tramonto, senza aver provveduto ad una esplorazione dei luoghi e senza alcuna cognizione del terreno, ignaro d’esser spiato dall’alto, all’alba del giorno seguente s’avventurò fuori dalle strette, allo scoperto nella piana, e si trovò di fronte parte delle truppe nemiche, che a un convenuto segnale lo strinsero d’ogni lato convenendo da sopra e da tergo, chiuso quindi tra le acque ed i monti, completamente accerchiato dalle forze Puniche. Imprevista fu l’irruzione del nemico, così come impreveduta la nebbia che rapida e fitta sorgendo dal lago avvolse le legioni e il loro duce, che dovettero affidarsi a cieca pugna con grande rovina. Il generale Romano s’era del tutto dimenticato di Marte, accecato dalla presunzione e dalla nebbia offuscante. Arrogantia! Amentia! I Romani in città dovettero ricorrere alla immediata nomina d’un dittatore, e poiché il console era morto decapitato in battaglia, fu il popolo ad eleggerlo pur non avendone la facoltà. E i Quiriti elessero Quinto Fabio Massimo, dell’antica Gens patrizia dei Fabi.

 

  Queste notizie sono attinte dalla Storia di Roma di Tito Livio, e ancora testualmente da tal fonte: “Q. Fabio Massimo, nell’assumere la carica, adempiute tutte le pratiche religiose, convocò il Senato e spiegò ai Patres che il console perito in battaglia era caduto in errore non tanto per avventatezza e imperizia, quanto per aver tenuto in spregio le cerimonie religiose e gli auspici, plus neglegentia caerimoniarum; adesso, al fine di conoscere per qual via placare lo sdegno divino occorreva interrogare gli dei. Si ordinò ai decemviri di consultare i libri Sibillini, questo accadeva quando si manifestavano gravi prodigi. I decemviri, esaminati i libri, riferirono che si doveva rinnovare, e con maggiore solennità, il voto che era stato fatto a Marte per quella guerra e che non era stato ritualmente adempiuto. Si dovevano a Giove dedicare i Grandi Ludi e templi a Venere Erycina e alla dea Mente e preghiere pubbliche, et aedes Veneri Erycinae ac Menti vovenda esse et supplicationem”. E da Livio ci pervengono anche quest’altre notizie: “Fu Q.Fabio Massimo dittatore a votare il tempio a Venere Erycina, infatti nei libri Sibillini si leggeva che a pronunciare il voto doveva essere colui che  aveva maximum imperium in civitate; alla dea Mente consacrò il tempio il pretore T. Otacilio”.

 

   Cosa accadeva, dunque, a Roma? Veniva sempre più meno il governo, per dirlo concisamente, de l’optimus quisque, il governo degli ottimi cives, gli ottimati; l’Ordine del popolo veniva attraversato dalla passionalità dei politici ‘popolari’ che opponevano la folla, la moltitudine, i più, ai Patres; spesso questi ‘popolari’ si opponevano al Senato con atteggiamenti demagogici, tribuneschi. La stessa autorità tribunizia che doveva rappresentare le istanze del popolo, tranquillamente, senza contrasti, in termini equi, sempre più frequentemente andava avanzando oppositive pretese, se non rivendicazioni ostili. E’ pur probabile che cedimenti e concessioni e il carrierismo politico di tanti homines novi fossero il risultato di compromessi, anche fatti di nascosto. E così sulla scena politica romana si faceva avanti l’egotismo plebeo, con ogni sorta di ribollimento passionale, la sconsideratezza, la precipitazione, la fretta, e soprattutto la presunzione, la boriosità e il disconoscimento della sacralità, l’ignoranza del divino. Un tralignare dalla prisca virtù. Una dissennatezza, uno stato amenziale! E quando la demenza, la paura, l’angoscia coglie un popolo intero significa che son tempi tristi e i dì s’abbuiano. Ma, a quei dì, sulla Saturnia Tellus, ancor resisteva la fondazione romulea, e il Popolo dei Quiriti dette prova del suo kràtos, della sua forza, della sua capacità di autogoverno, abbandonò i demagoghi ai loro disastri ed elesse a tutore della patria un ottimate, discendente da prischi patrizi, Patres della Romanità, investendolo con la dittatura del pieno suo potere; potere d’un popolo che decisamente insorgeva in armi contro il nemico mortale. Contemporaneamente si consacravano un tempio a Venere Erycina e uno alla dea Mente, aedes Mentis, l’uno accosto all’altro sul Campidoglio. I due templi erano complementari; quello a Venere Erycina però, richiedeva la consacrazione da parte di colui che nella città aveva il maximum imperium e quindi di quel VIR che aveva raggiunto la compiutezza nell’unione di mente e cuore, integritas, perfectio. Era tra l’altro una dea a custodia dell’adolescenza, dei giovanissimi, nel suo tempio si allevavano bianche colombe, simbolo della puritas e della verecundia, insieme castimonia, correttezza, ritegno, discrezione, riservatezza, venerazione, rispetto, tutte virtù che elevano le pulsioni sessuali, le istintuali tensioni amatorie dell’uomo a una condizione salutifera che ne indirizza la mente al bene, alla conoscenza, alla verità. Insomma una protezione dei sentimenti e della mente umana dal rischio di essere travolta da un cieco abbandono alle cosiddette esigenze istintive, oggidì alimentate dalla pornografia violenta, che induce le menti sprovvedute al crimine; e le menti egolatre, eccitate dalla vanità, quindi immature, adolescenziali, ad esibirsi nelle grandi ambizioni politiche a danno dei popoli. La Erycina proteggeva la gioventù dall’eros vissuto come mero istinto sessuale, traviante, da un ribollimento di sentimentalismi morbosi, impulsi affliggenti, malumori, desideri prostranti e altrettanto dal narcisismo che preclude all’uomo di crescere in consapevolezza, di raggiungere l’età adulta, l’età della maturità, del giudizio, dell’equilibrio mentale, dell’intelletto alto, sottile, del discernimento che scandaglia le profondità.  Così con Quinto Fabio Massimo scendeva in campo contro l’ingiusto nemico, vinta ogni interna inimicizia, il Marte romano. Sereno nel fervore della mischia più irruenta, vigile, cauto, mai avventato, prudente, valoroso, dalla volontà e dal braccio possente, era ormai lui, Marspiter, a scandire le marce, e, sulla marcia delle legioni, il tempo; sì, tale era il temporeggiare di Fabio Massimo, perché così si era espresso il nume di Mens manifestandosi per mezzo del risoluto proposito e della ferma volontà dei Quiriti. Si sarebbe continuato a combattere, ma la minaccia punica era definitivamente infranta. Roma e il suo Stato erano salvi.

 

 

*

 

   La festività della dea Mente, ricorrente l’8 giugno, ci ha ingiunto una lunga riflessione sui gravi fatti bellici, battaglia della Trebbia e agguato/strage del Trasimeno, che sconvolsero Roma a causa delle azioni belliche scriteriate e soprattutto per la condotta sventata, anzi dissennata del console Flaminio al Trasimeno. Per rimediare a tanto offuscamento delle menti, alla scervellata imprudenza con cui s’affrontò il rischio bellico, esponendo a inutile, colpevole decimazione la gioventù combattente, il Senato fece consacrare il tempio a Mente. E di necessità, adolescenza e gioventù vanno protette e rinfrancate; la mente giovanile va tonificata, coltivata, affinché non venga sopraffatta da un’immaginativa viziosa e trascinata alla corruzione dai bisogni fittizi o addirittura al crimine come sempre più di sovente avviene. La gioventù va bene instradata, non deviata; è quello della gioventù il tempo adatto, il momento conveniente, Iunonale tempus, per i legittimi, felici coniugi. Lo Stato deve predisporre giusti progetti per la gioventù, non farneticar leggi sovvertitrici della naturale fecondità. La gioventù è l’avvenire della patria: una promessa ch’essa deve ai propri padri.  E infatti: “Iunius est iuvenum; qui fuit ante senum (ovidio)”, bene sì, giugno è dei giovani, quello di prima dei vecchi; or, se così, tempo è dunque di ricordarci, in tanta afflizione, della aedes Mentis (Mens quoque numen habet) e di pregare: ut mens italorum iuvenum ac nostrorum cunctorum sana sit, atque populi in omne tempus concordis, impavidus semper micet cor. Oramus ideo pro patria nostra ut semper sit mens sana in corpore sano.

 

   Nel ritornare, in conclusione, al titolo e all’inizio del nostro scritto, pare a noi che, pur se in modo indiretto, abbiamo sufficientemente parlato dell’origine del mese e del motivo del suo nome. Ovidio però ci dice che tre sono le supposizioni su tal origine e lascia a noi la scelta della più convincente. Ma aggiunge anche che, nella qualità di vate, egli voltus vidisse deorum, aveva visto in volto le divinità che alla sua mente di vate, mente veggente, s’erano presentate qual nume del mese di giugno. Iuno per prima, Giunone; ma la iuno indicava la femminilità, come il genius l’essenza della mascolinità. Quindi giugno il mese Giunonio, Iunonale, pertanto il mese coniugale, il mese dei coniugia, con-iunctio= congiunzione, il mese delle unioni coniugali, dei connubi, delle alleanze tra famiglie, tra popoli. Subentra Iuventas, la dea della giovinezza, protettrice degli adolescenti dal momento che indossavano la toga virile. Il suo culto era sul Campidoglio nel tempio di Giove, dove nella cella di Minerva le era consacrato un sacello. “Romolo distribuì in due parti il popolo dopo averlo diviso per età: l’una a porger consiglio, l’altra più pronta a combattere; quella decide la guerra, l’altra guerreggia; giugno è dei giovani, il precedente mese dei vecchi”. Scrisse Varrone: “iuvenis a iuvando scilicet qui ad eam aetatem pervenit ut iuvare possit”, cioè, giovane da giovare, s’intende chi ha raggiunto quella età che può recar vantaggio, esser d’aiuto. Ultima, la Concordia ricorda che fu lei a favorire il connubio tra le donne sabine e i giovani romani e, alla fine, il suo divino intervento a far di Sabini e Romani un sol popolo. La dea operante le mirabili coniunctiones, le straordinarie unioni, la celeste Concordia.

 

  Or voi, lettori amici, potete scegliere tra le tre ipotesi esposte da Ovidio. Eppure! il poeta non avrebbe potuto escogitare la maniera per épater le bourgeois, per metter fuori strada, confondere le menti ordinarie, meramente curiose? . . . Ma, voi? voi potete liberamente scegliere, tra l’una o l’altra ipotesi, quella che più v’aggrada. In tal caso demolireste, e d’un tratto solo tutto il nostro lavoro; possiamo da parte nostra darvi rassicurazione, nessun malanimo, al più neutra indifferenza. Ma se qualcuno c’è, che non vuol starsene ozioso e voglia con noi riflettere sui versi del poeta in cui espressamente è detto ch’egli non mentirà, come alcuni pur supporranno, ma canterà fatti reali, e nella sua veste di vate ci racconta di aver visto il volto degli dei, e che il volto d’uno d’essi era il volto della celeste Concordia, come può mettersi in dubbio il verso del Vate? Dubitar della voce divina? Come si può lontanamente supporre che quelle tre divinità non rappresentino e in modo unitario, concorde, un sol nume, il nume del giugno? Un nume in tre divini aspetti? E ognuna con il proprio nome che asconde un’unica radice e, in questa radice, una unica larga significazione? Come non riconoscere in ogni singola speciale natura di quel giovine nume, dello iuvenilis mensis, I u n i u s, la divina protettrice della realtà umana nella sua peculiare condizione giovanile. Protettrice dell’organismo fisico, onde accrescerne la robustezza, la vis corporis et fortitudo mentis – quae sana permaneat in corpore sano! –protettrice del valore, del coraggio e del virile ingenium, e nella donna della venustas et pulcritudo corporis, e in entrambi i sessi della virtus et voluptas animi, onde tenerli lontani dalle passioni violente, dalla vanità, dall’inane ambizione e fortificandoli nell’amor di patria e nel valore militare, degni figli di Marte. Di tal fatta l’opera di Iuno e di Iuventa: generazione e giovinezza, con il culto di Marte, la difesa della patria e dei padri. E infine Concordia, la dea che a dire d’Orazio regge la discorde armonia dell’universo, la divinità delle coniunctiones, che congiungendo pudor pudicitiaque, cioè verecondia, alla virtus iustitiae, in questa mirabile iunctio fa consistere il sommo bene. Fastigio d’una gioventù giunta a maturità, all’età dell’animo fermo.

 

*

 

   Dies Saturni, 19 Giugno 2021. Siamo prossimi al solstizio d’estate! E ci sovviene che giugno è anche il mese di Carna, la dea dei cardini, a lei erano dedicate le calende di giugno. Con il potere, conferitole da Giano, “ius pro concubito nostro tibi cardinis esto”, le disse il dio dal doppio volto, dopo averla coinvolta nel suo divino amplesso; e lei, dotata d’un tal potere, apre ciò che è chiuso e chiude ciò che è aperto, “clausa aperit, claudit aperta”. Aprire le porte chiuse e chiudere le porte aperte pare sia alla portata di tutti, pur delle nostre mani e dei nostri amici lettori, anche se quondam (alle mani apistofile riesce invece faticoso; ma, è affar loro, non sperino nel nostro aiuto). Diverso invece se dovesse trattarsi di porte che girano su cardini cosmici, di quelle porte segrete, così intime, nascoste e dai cardini rugginosi – tanto arduo e faticoso da lubrificare – che nascondono all’uomo d’oggi, il borioso uomo moderno, famelico, randagio progressista, la verità, la nuda verità. Res, ut est!                                   

   Dies Solis, 20 Giugno 2021. Stanno per rotare sui cardini le possenti alte porte che si aprono sul lungo giorno di luce e sul fiammante sole del solstizio d’estate; abbiamo colto la spina solstitialis o verga di Giano, un ramo di spinalba, e lo abbiamo deposto sulla mensola del focolare con a canto una caraffa d’acqua sorgiva in cui è immersa una fronda di corbezzolo, così terremo lontane le rauche strida delle Arpie e delle Strigi che stringono tra gli artigli i venefici vaccinostili . . . lungi, lungi dagli arcigni battezzieri e dai loro battezzatori vaccinici! Costoro una volta s’inventarono la storiella dei “Cristiani alle belve!”, oggi, impuniti, impongono e urlano “Cristiani, ai vaccini!”

 

   Non vi lasciate sbaiaffare le orecchie di tivvudiche ciance vacciniche! Non ascoltate le prediche covidiolesche, non arrischiatevi in questo climate pestilenziale!

 

    Buon solstizio d’estate, e buona felice stagione, amici!

 

 

                          

 

GIUGNO

 

Di Giugno ascolto il palpito

del generoso seno,

tra le ospitali fronde

il tenero tripudio

dei suoi piumati nidi,

l’esultante stridio

della rondine in volo.

Sull’albero ricolmo

la ciriegia è rossigna,

nel verde il papavero rigurgita

sotto l’ardor del sole.

 

   È il luogo sacro alla Dea dei cardini,

allor che la porta si schiude

sul lungo giorno

e si richiude sulla notte breve.

 

 

Lunedì, Lunae dies, 21 Giugno 2021- Solstizio d’estate

                             

 

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M A I U S   M A I E S T A S

 

 

 

 . . .  . . .  . . . Saturnus in illa

parte suas agitat vires, deiectus et ipse,

imperio quondam mundi solioque deorum,

et pater in patrios exercet numina casu.

fortunamque senum. (Manilio, Astronomica)

 

 

   Sabato, dies Saturni, 15 maggio 2021. Saturnus, l’antico dio italico. Saturno, il cui regno coincise con il secolo d’oro, un’età ove ogni semina traeva origine dal cielo: o sate (nato) sanguine divum! è una virgiliana exclamatio. Sator, il seminatore; sata, i seminati, le messi. Saturnus! Ed infatti, così Festo: Quod ipse agrorum cultor habetur, nominatus a satu, tenensque falcem effingitur, quae est insigne agricolae. Il nome dalla sementa, quindi principio, seme, d’ogni nascita; nutritore, suo attributo è la falce, l’insegna del coltivatore dei campi, qual egli si riteneva. Ma quando sopraggiungono età oscure, il dio si nasconde in quelle terre ch’egli ebbe a chiamare Lazio, dal che Ovidio nei Fasti I, 238: “Inde diu genti mansit Saturnia nomen;/Dicta quoque est Latium terra latente deo”. Restò alle genti a lungo il nome di Saturnia; e la terra, Lazio fu detta dal latente dio. E però, va ricordato, quel dio fu anche il re del Mons Saturnus, che sarà poi il Campidoglio, il Capitolium Romuleum; per cui quel dio che impugna la falce, simbolo delle messi, è proprio lui, il dio che rigenera i tempi. La divinità delle auree rifioriture, del cultus (opus ac cura) perennis.

 

   Nei versi citati in epigrafe, Manilio afferma che “in quella fascia del cielo ove muove le sue potenze Saturno, pur se un tempo allontanato dall’impero del cosmo e dal soglio degli dei, come padre egli continua a esercitare la sua numinosa influenza sulle vicende dei padri e sulle sorti dei vecchi”.

 

   Saturnus, Patres, Seniores.

 

   Saturno, il re dell’Età aurea, l’antica divinità con sembiante di veglio barbuto, padre dei padri: Iuppiter, Ianus pater, Liber pater, Marspiter. Gli antenati, i padri prischi: i maiores, gli auctores gentium. Il Senatus e i Patres, i senatori. I patres gentium, i patres familiarum. I seniores patrum, gli anziani, dai quali hanno origine gli iuniores. Senectus,utis, f., la senecta aetas e la parola del veglio saggio, la vox paterna e i monita paterna, i pii consigli, le amorevoli esortazioni; i praecepta, gli eximia seniorum exempla e una esemplare, prestantissima gioventù. La sapienza della provecta aetas illuminava la mente dell’età prima. Splendide ac libere il CONSIGLIO del SOLE si trasmetteva di generazione in generazione: era un virtuoso, verecondo e giusto, rituale vivere.

 

   Sostenevano gli antichi sapienti, che nel mondo tutto è pieno di dei. Nel mondo degli uomini tutto, un tempo, era retto dai padri, prospere erano le spose e le madri, fiorente la prole. Ma è sopraggiunta un’età in cui, come già ebbe a dire Esiodo, “il padre non è più simile ai figli, né i figli al padre. Anzi i figli avranno in dispregio i genitori appena cominceranno a invecchiare e li insulteranno addirittura”. Con il venir meno dei modelli, delle idee, delle convinzioni avite, con il dissolversi degli ideali, delle speranze, con la devastazione delle culture e dei culti statuali e familiari, spuntano generazioni imbelli, prive di aspirazioni, sprovviste di fermi propositi; generazioni moralmente e politicamente disorientate, una gioventù allo sbando, incapace di proporsi un degno, creativo intento e una meta feconda.

 

   Globalizzazione delle religiosità, delle culture, delle opinioni in un pensiero unico, in una ideologia totalitaria, una desolante superstizione, il democraticismo universale! Sino-democratismo popolare e Yank-democracy, un unico melting-pot, un unico profitto; money, money per il Financier, il crass Capitalist della high society newyorkese e il 5stellato (bandiera rossa a 5 stelle) neocapitalism beijingese o, se preferite pechinese, che però ha poco a che fare con gli spaniels. Globalità? Globalità d’un mondo frammentato e desertificato da un materialismo sconfinato e pandemico! Paradossalità d’una insensata contraddittorietà! Accipicchia! come spiegarsi? Sta bene! diciamolo in modo semplice, onde evitare che la mente sprofondi in un’alienante incoerenza: codesti filantropi vogliono far diventare globale un mondo, un consorzio umano di nazioni e stati, che dapprima hanno essi stessi ridotto in frantumi. In somma, un globalizzarsi di rovine?  Trattasi di menti ostinate in un intento catastrofale. Tanto perfidiare li porterà alla disfatta. La preponderanza, la sopraffazione del barbaro non è raggiungimento di vittoria. La Vittoria è sempre un evento solare. E di radioso trionfo ineluttabilmente si fregerà il Libero e il Giusto; e allora, virgilianamente “novus ab integro saeclorum nascitur ordo”. Nel nuovo assetto mondiale, con il ritorno di Giustizia, Verecondia e del nobile magisterio dei Patres, le nazioni, gli stati e i popoli, d’Europa innanzitutto e le genti d’Italia, si redimeranno dall’ignoranza e dalla cupezza degli asserviti.

 

   Domenica, dies Solis, 16 maggio 2021. Ma, benché il suo giorno, il sole non si è reso visibile, né intende sporgersi da quella plumbea e fitta nuvolaglia che copre il cielo da nord a sud, da est a ovest. La nebbia finanche s’addensa lunghesso il profilo dei monti che man mano ci asconde. Tanto grigiore degli orizzonti e del cielo contrasta con il verdeggiare rigoglioso della valle e dei poggi sui quali spicca la vistosa corolla del rosolaccio. Quaggiù lungo il muro, a ridosso del pozzo, la pyracantha ostenta la maggiaiola fiorita di corimbi ricadenti in grappoli e frange, ma sono sbocciate anche splendide rose dai turgidi petali. Tra quei fiori, e nei cespugli di rosmarino, si raccolgono gli sciami ronzanti. Ebbene, non è dunque maggio?

 

   Per dire il vero questo maggio duemila ventuno qualche deludente sorpresa l’ha pure riservata ai fidenti nelle stazioni climatiche. D’altro canto ha mandato in solluchero le menti thumberginee estremamente preoccupate del ‘cambiamento climatico’, il cosiddetto riscaldamento globale o, viceversa, raffreddamento globale; strampalate inversioni, arbitrarie, e un ingiustificato pessimismo rispetto all’intelligenza della grande madre Terra e dell’alma natura che mediante la convivenza e l’equilibrio dei suoi elementi dà e mantiene la vita. Eh, l’umana immodestia! Stenta a credere che l’antichissimo, cosmico, divino intelletto della Terra, il bel pianeta in suprema armonia con il Sole, sappia da par suo medicare ed emendare, dominandone il decorso onde equilibrarne e accordarne le vicende e gli effetti, le immani infreddature terrestri e le roventi caldane.

 

   Ebbene! ci ha offerto maggio alcune belle giornate di primavera, già calde d’estate; ma anche giornate ventose, incerte, con un sole settembrino ai tramonti; poi giornate di pioggia novembrina e, sì, un freddo dicembrino e un’aria grigia e brume dense febbrarine. Ebbene? Cosa vi fa pensare che va accelerandosi il peggioramento del clima, che le primavere sono scomparse e guaste ormai l’estati?  Non è dunque maggio? E questo sobrio pomeriggio con la verdante valle tutta nel sole, il cui raggio vibrante si nutre del vento che mena seco un forte odore di maggengo. E dai poggi, tra cespi e frutici fioriti, e dagli olivi e dalle farnie e i pini e la cipresseta, in fondo alle vostre pupille non scorgete in quei lievi, diafani brillii, le danze degli aierini? Non è dunque maggio? Certo ch’è maggio! e con forza oltre i monti, nelle acque marine ei rovescia la nuvolaglia fosca delle superstizioni e della tossica ideologia pandemica. Il possente maggio capace di richiamare dall’intera orbita delle stagioni, adunandole in sé, forze, estro e vigore. Il magico mese, il sapiente che sa radunare e rendere fruttuose le potenze telluriche, le benefiche energie della madre nutrice, Maia, colei che accresce, la compagna di Vulcano, il fecondatore. Infatti, alle calende di maggio a lei il flamen Vulcanalis offriva un sacrificio. Era dunque Maiestas? Ed era essa anche Tellus? Altri appellativi le venivano dati, era   Ops, Fauna, Fatua, come assicura Macrobio che aggiunge: “Nei libri dei pontefici questa medesima divinità è chiamata Bona Dea.” Il culto a questa dea spettava alle sole donne, dalla segreta celebrazione del rito, vi partecipavano le Vestali, erano rigorosamente esclusi gli uomini.

 

   Oggi, 25 maggio 2021, Martis dies. In tal data si festeggiava a Roma la Fortuna Publica Populi Romani Quiritium ed era anche l’anniversario del tempio ad essa Fortuna eretto sul Quirinale; l’anniversario del tempio dedicatole sul Campidoglio, ricorreva invece il 13 novembre. Non era quello un culto alla Fortuna Primigenia, una dea questa oracolare che affidava le sorti degli uomini al fortuito e al caso, culto d’evidenza etrusca, ma era la sors assicurata dalla legittima volontà, dal giusto operare, dalla vitale forza del Popolo romano e soprattutto legittimata e garantita dai suoi dei: Jupiter, Marspiter, Quirinus.

 

  Dedica Ovidio a questa ricorrenza i seguenti versi (Fasti,VI, 729/32):

 

     Nec te praetereo, populi Fortuna potentis

       Publica, cui templum luce sequente datum est.

    Hanc ubi dives aquis acceperit Amphitrite,

       grata Iovi fulvae rostra videbis avis.

 

   ‘Né io tralascio te, del potente popolo Fortuna Pubblica, /cui fu consacrato il tempio nel giorno venturo. /E   appena questo dì sarà accolto da Anfitrite ricca di acque/, nel cielo vedrai il rostro del fulvo alato tanto caro a Giove.’

 

     Il Quirinale! – Nunc, maerens collis! Infelix, hac aetate, Quirinalis mons, cultu vacans! Fortunae fanum reditum Quiritium postulat. Opus est firma beneficia commemorare, Quirini invicta hereditas patrumque nostrorum, Italice, memento!

 

    Il dì venturo: 26 maggio 2021, Mercuri dies. Bella giornata maggiaiola! Tenue e tepido il vento; magnificenza solare, magnificenza della natura, della flora, Maia, Maius! Ridondante il mattino di canti e di voli, esondante di luce il meriggio! Verdebiondo, verdeazzurro, l’aere da ogn’intorno si muove . . . Diffusa prece, i canti degli alati e le tinte dei fiori s’accordano e convergono in un mistico invito . . . toni, toni di maggio! Un azzurro terso, sereno, cinge tutt’in giro le alture. Nei campi, le tranquille figure, intente alle cure agresti, di quei pochi non ancora coinvolti negli agribusiness e nello sviluppo delle biotecnologie agricole; già, la bioeconomia, lo studio scientifico delle attività produttive del cibo e il commercio dei prodotti agricoli, il mercato alimentare, su scala larga, globale! E, di grazia, le cosiddette . . . frodi . . . frodi alimentari? Oh, niente! Piccoli incidenti, inciampi, sulla via del progresso che al meglio trasforma i criteri e le regole nutritive delle masse umane. Già . . . ma, perdinci! Oggi, mercoldì etc., ultimo plenilunio di primavera ed in più una super luna annunciata da tutta la stampa mondiale, e noi? Noi dimentichi di Mercurius? Mercurio, il messaggero degli dei? Lo rappresentava una testa umana col volto di Ermes, su un pilastro: le deifiche erme, poste per lo più ai crocicchi.

 

   Mercurio, dio dell’eloquenza, dei poeti, dei commercianti, dei ladri, inventore della lira, del linguaggio, delle palestre. A lui i romani dedicavano le idi di maggio, quel dì ricorreva infatti la festa dei mercanti, tra l’altro la radice del suo nome è merx, la stessa di mercanzia. E qui diamo la parola a Ovidio: “Nel giorno delle idi, i padri dedicarono a te un tempio di faccia al Circo; da allora questo è per te giorno di festa. Chiunque esercita la mercanzia brucia incenso e si rivolge a te con preghiere, onde tu gli conceda lucrosi guadagni. Presso Porta Capena v’è una fonte (aqua Mercurii) provvista d’una divina virtù, se si vuol dar credito a chi l’ha provata. Là si reca il mercante, avvolto in una tunica, e, purificato, attinge quell’acqua con un’urna profumata e la porta seco. In quella bagna un ramo d’alloro e con esso spruzza tutte le cose destinate a nuovi padroni. Poi, con il lauro stillante spruzza i propri capelli, e prega con voce adusa a ingannare, e dice: ‘Porta via gli spergiuri del tempo trascorso, tergi le perfide parole di ieri. Sia ch’io t’abbia chiamato a testimone, o con falsità abbia invocato il nume sommo di Giove credendo non m’udisse, sia che, circospetto, altro dio o dea abbia io ingannato, celeri venti disperdano le improbe parole; all’indomani mi sia di nuovo lecito lo spergiuro, né i celesti si curino di tanto. Concedimi immediati guadagni e che del lucro io goda, e fa ch’io tragga vantaggio dall’aver raggirato il compratore’. Mercurio, dall’alto, ride di tal supplicante, memore d’aver lui stesso furato i buoi di Ortigia.”

 

   Singolare, ma appropriata cerimonia! Senza dubbio Mercurio era il dio protettore dei commerci, e ciò accadeva anche a Roma. Occorre però contraddistinguere e specificare quale fosse, per lo Stato romano l’ambito, il settore specifico d’influenza del dio; questa sfera è da riconoscersi e individuare nello specifico settore dell’attività produttiva agricola, quindi nello smercio, scambio, traffico, insomma mercato dei più essenziali prodotti agricoli, della ricchezza derivante dalle coltivazioni. Alle derrate, ai viveri s’aggiungevano oggetti, manufatti, attrezzi, prodotti e mercanzie destinate alle esigenze primarie e strettamente necessarie, non trascurando le esigenze accessorie utili. La sfera dell’abbondanza produttiva, della profusione dei beni, della ricchezza e della sua economia e anche distribuzione di essa, dotazione e funzioni attinenti alla sovranità statuale, e sotto la protezione delle deità femminili della copiosità, cui simbolo era la cornucopia; deità quali Maia, Ops, Fatua o Fauna, Bona Dea, con le quali, e segnatamente nel mese di maggio, Mercurio si rapporta.

 

   Questo nei tempi saggi, costumati e parchi! Quando, nei tempi ultimi, tra la gente sono via via comparsi i bisogni fittizi, prefigurandosi la mania del superfluo e la febbre del voluttuario, s’è dovuto ricorrere alle leggi suntuarie per proteggere lo Stato. Per adesso non ci soffermeremo sui nostri tempi, in cui un consumismo senza freno, scatenato da un pernicioso sistema massmediale, ha logorato gli stati, scombinato i popoli, sconvolte le culture, annichilendo tutti i valori spirituali, così permettendo l’avvento della tirannia del Mercatore, armato di bomba nucleare, e globale signoreggiatore delle pandemie lucrose.

 

   Singolare festività quella dei mercanti alle idi di maggio a Roma e la relativa cerimonia formulata con summa severitas e ben appropriata alla incorreggibile avidità della mentalità mercantesca; vitium insanabile l’animus venalis. Con la sua precatio a Mercurio il mercante si segrega nella sua condizione, s’apparta dal resto della società che deve restare indenne da quel vizio. La mercatura era una necessità sociale, ma l’animus venalis non doveva dilagare, altrimenti sarebbe divenuto un morbo, una pestilenza, doveva essere attentamente circoscritto, ristretto, necessariamente limitato, auspice lo Stato e sotto la tutela d’un incorruttibile governo. Nessuno costringeva il mercante ad esercitare la mercatura, non era nemmeno una sua scelta; tale era la sua indole, propensa ai raggiri, tale la sua voce imbonitrice, suasiva. Tutto ciò egli doveva internare in sé e a profitto della mercatura, consapevole di non poter ingannare né lo stato, né la società, né gli dei. Dice, infatti, Ovidio che, dall’alto, Mercurio sorrideva della prece del mercante; e ne aveva ben donde, egli che aveva commesso, ancor bimbo, il clamoroso, mitico furto dei buoi di Ortigia, compiuto con tal perfezione da non poter essergli imputato. Mercurio era il protettore del commercio, ma non poteva essere ingannato da un mercante, che pertanto aveva da temere l’ira della città degli dei e degli uomini.

 

 

*

  

   Occorre purificare il campo nel modo seguente: ordina di condurre intorno i suovetaurili: “Con il benvolere degli dei e onde tutto riesca bene, ti raccomando, Manlio, di provvedere alla purificazione del fondo, del campo e del mio terreno con quella offerta sacrificale per tutta la parte che ritieni di percorrere nel giro o di delimitare.” Invocherete prima Giano e Giove con offerta di vino, ciò pronunciando: “Marte padre, te prego e chiedo che tu benevolente, sia a me propizio, alla casa e ai nostri domestici; pertanto attorno al mio  campo, al terreno e al mio fondo ho disposto di far condurre i suovetaurili; acché tu i mali visibili e ascosi, desolazione e devastazione, le calamità e le intemperie, possa impedire, tener lontano e respingere; acché tu le messi, i frumenti, le vigne e i virgulti voglia far crescere e ben prosperare. Pastori e pecore salvi e sani conserva; dona buona salute e forza a me, alla mia casa e alla mia famiglia. Per queste cose, per la purificazione del fondo, del mio terreno e del mio campo, per il compimento del rito purificante, così come ho detto, macte hisce suovitaurilibus lactentibus (lattonzi) immolandis esto: Mars pater, eiusdem rei ergo, macte hisce suovitaurilibus lactentibus esto.” Con lo stesso coltello ti adopererai per ottenere una focaccia e una torta sacra (struem et fertum), indi le offrirai. Quando immolerai il maiale, il vitello e l’agnello, così è d’uopo: “Per questo voto dunque sii soddisfatto dell’immolazione dei suovetaurili”. È vietato nominare Marte, l’agnello e il vitello. Se in tutti difettano i segni favorevoli, questa è la formula: “Mars pater, se alcunché in quei suovetaurili lattonzi non ti ha soddisfatto, questi suovetaurili in espiazione ti rinnoverò”. Se si dubiterà di uno o due, questa la formula: “Mars pater, se non hai gradito quel porco, questo porco ti offro in espiazione.”

 

   Abbiamo qui riportato il brano sulla purificazione, lustratio, del campo, capitolo 141 del De agri cultura di Catone il Censore, che contiene antiche formule sacrali. Questa lustratio, avveniva in maggio, seconda metà, a data non fissa, ma di frequente sul finire del mese, 27 – 29 – 30. Gli Ambarvalia erano una processione con la quale le vittime sacrificali i Suovetaurilia, lattonzi maschi, venivano condotte attorno ai campi, mentre il celebrante rivolgeva preghiere a Marte, invocando la protezione dai mali e il divino largimento di salute e prosperità; poi, dopo l’offerta d’una focaccia e d’una torta sacra, si compiva il sacrificio. I sacrificatori e tutti i partecipanti dovevano presentarsi in stato di castità e purificati, vestiti di bianco e il capo coronato d’ulivo e di quercia, durante tutta la giornata non si lavorava e i buoi restavano nelle stalle inghirlandati di fronde. La cerimonia descritta da Catone era quella prevista nell’ambito privato; nel rito pubblico invece il cerimoniale e il sacrificio degli animali, femmine adulte, era compito dei Frates Arvales e le Ambarvales hostiae venivano immolate alla Dea Dia; un inno veniva cantato in onore di Marte e dei Lari. Il collegio dei Frates Arvales, di dodici sacerdoti e un magister, secondo quanto tramandato, era stato fondato dai figli di Acca Larentia, tra cui l’adottivo Romolo.

 

   Era quella degli Ambarvalia e dei Frates Arvales una festa esclusiva del mese di maggio e riguardava i campi che s’appressavano alla fruttificazione e alla maturazione delle messi. Negli Ambarvalia privati gli officiatori erano i patres familiarum, i seniores patrum, gli anziani padroni dei fondi; nelle Ambarvales hostiae, trattandosi di culto pubblico, esulante dai particolari interessi e da private cure, ma attinente l’alta statualità, quindi una sacralità  cui garante lo Stato, il cerimoniale era affidato a un antico sodalizio sacerdotale costituito appunto da maiores, la confraternita dei Fratelli Arvali le cui insegne distintive erano bende bianche e corone di spighe mature; quindi erano in età adulta quei sacerdoti dei campi in festa che comparivano per tre soli giorni  all’anno sul finire di maggio, allorquando le messi stanno per portare a termine la maturazione.

 

Quaeritis, unde putem Maio data nomina mensi?

 

  “Mi chiedete donde io reputi che derivi il nome del mese di maggio?” È il verso con cui Ovidio inizia il libro quinto dei Fasti. Certo, maggio è tutto un segreto! Quindi non potrebbe non esserci un segreto anche nel suo nome. Il segreto di maggio dovrà dunque per sempre rimanere un segreto. L’uomo vive sul pianeta Terra, ma di Tellure conosce il segreto? Conosce l’uomo, che le sue membra distende ai raggi del Sole sull’arena delle spiagge per godersi i bagni solari, l’elioterapia, conosce l’uomo i segreti di Iperione? E nelle notti stellate, mirando l’infinità, il segreto del Cosmo? E conosce l’uomo il proprio segreto? Quanto maius impenetrabilis, impervius, res arcana! Res silenda! O Maiestas!

 

   Che il segreto rimanga tale! Se il saggio non possedesse un suo segreto, in lui non dimorerebbe saggezza; e noi abbiam cominciato con il dire che saggio è maggio, il mese della rosa, e la rosa attrae con il suo segreto che appartiene ai misteri. Limitiamoci, pertanto, a ciò che segue e che questo sorprendente maggio che sta per lasciarci vuole si dica di lui

 

Magna fuit quondam capitis reverentia cani,

inque suo pretio ruga senilis erat.

 

   Urania, la Musa dell’epica astronomica, parla al poeta, e Ovidio annota: “Grande fu, un tempo, la riverenza per le teste canute, e di gran pregio erano le rughe senili. Alle faccende di Marte era dedita la gioventù, nelle animose guerre a difesa operando dei propri dei; non più atta alle armi, l’età in cui le forze calano offriva alla patria l’aiuto del prudente consiglio; accedevano alla Curia gli anziani e il Senato prendeva da essi il nome. Erano gli anziani a dar giustizia al popolo e le leggi stabilivano l’età adatta a ricoprire le cariche. In mezzo ai giovani, che non provavano disagio alcuno, stavano i vecchi. Chi in presenza d’un vecchio avrebbe osato dire cose indegne? L’età inoltrata conferiva il diritto alla censura. Romolo ciò vide, chiamò Padri gli animi eletti e ad essi fu affidato il governo della nuova città. Immagino che per tal ragione i maiores abbiano denominato Maius, il nostro maggio, e anche riflettendo sulla loro età. Numitore può aver detto: ‘Romolo, dedica questo mese ai vecchi!’ né il nipote volle contrariare il proprio avo. Né modesta prova di tal proposta onoranza è che

 

Iunius, a iuvenum nomine dictus, habet”. 

 

  

Sabato, dies Saturni, 29 maggio 2021

 

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VASTAE TUM IN HIS LOCIS SOLITUDINES ERANT

 

 

 

   Ancor oggi con la tradizione ne rimane vivo il racconto . . . Allor che l’acqua del fiume ritirandosi lasciò in secco sulla riva il canestro nel quale erano stati abbandonati i bambini, una lupa sitibonda scesa dalle montane selve dei dintorni, attratta da puerili vagiti, deviò la sua corsa verso quel pianto e accucciatasi porse ai piccoli gemelli le mammelle; essa li allattava con tanta mansueta cura che il mandriano del re, si dice che il suo nome fosse Faustolo, la trovò intenta a leccare con gran cura i neonati. Il mandriano, poi, tornato alle stalle, affidò i piccini alla moglie Larenzia acciò li allevasse.

 

   Questa, a un dipresso, è la narrazione di Livio, che Floro sunteggia così: Una lupa, avendo lasciata la sua cucciolata, prestò attenzione ai vagiti e, seguendoli, una volta trovati i due neonati li allattò in vece di madre. Il pastore della greggia del re, Faustolo, scortili un dì, fanciulli ormai, ai piedi d’un albero, li portò nella sua capanna e li allevò.

 

   Plutarco, nel suo Romolo, racconta che le acque del fiume in piena deposero il canestro con i neonati in un luogo chiamato Cermalo, sotto un albero di fico, detto Ruminale; lì una lupa allattava i gemelli assistita da un picchio che attentamente li sorvegliava. Aggiunge che quei due animali son ritenuti dai Latini sacri a Marte e che essi venerano grandemente il picchio. Rea Silvia, la madre dei gemelli, affermava infatti di averli generati da Marte.

 

   Igino nei Miti, al racconto 252, ove tratta di ‘Coloro che furono allattati da animali’, accenna ad eroi che furono allattati da una cerva, da una capra, da una cagna e ad altri che furono allattati dalle vacche o dalle giumente; e poi scrive: “Romolo e Remo, figli di Marte e Ilia, da una lupa”.

 

   Il cervo, il capro, il cane, la vacca, la giumenta, simboli, mire figurazioni paniche; emblemi delle grandi forze della Natura feconda, del suo potere e slancio generativo, come la vacca e la giumenta, quindi creatrice generosa e madre universale. Metafora della nostalgia per le solitudini e le altitudini montane, e perciò  indicata qual nutrice divina la capra, Amaltea che allattò Zeus. Il rinnovarsi continuo della vita naturale, il cervo, l’animale di Diana splendente, dal corso veloce e dalla testa prodigiosa che ad ogni primavera muta il suo palco di corna svettanti nell’aria. Ecate, il volto oscuro della luna, la cagna. Vivente è la natura, e vive di sangue e carne sono le sue figurazioni, allegorie sulle labbra dei vati.

 

   Il lupo è altra cosa, un animale nella natura, ma è anche ultranaturale, addirittura ultramondano, e perciò vien spesso collegato al mondo degli spiriti, perché estremamente libero, capace di captare le energie sottili, di sventare i rischi e quindi impavido affrontatore dei pericoli, del tutto a suo agio nell’attraversare la foresta. Esce infatti dal nero pertugio ch’è la sua tana, nella cupa selva, e viene alla luce delle radure, ai luchi, templi aperti, solari, sacri agli dei della luce. Proveniente dalle bianche, crude terre iperboree, simboleggia appunto la luce dei primordi, i suoi occhi lucenti penetrano le tenebre delle notti più buie; e l’uomo, che oggi difetta della prontezza d’intuito, ha davvero bisogno del suo vedere e del suo udire, del fiuto sicuro del lupo, quando deve affrontare eccezionali, spaventose evenienze, dure prove, le selve oscure dell’umano stato. Diligente osservatore è sempre in grado di ritrovare la strada, insomma di non smarrirsi, pertanto significa la forza interiore e assurge anche a simbolo guerriero connesso a Marte e ad Apollo. Intelligente, sa quanto prezioso è il silenzio. All’uomo somigliante per la sua socievolezza nell’organizzarsi in branchi dominati da lealtà e amicizia, i lupi sono monogami, vivono in coppie che durano fedeli tutta la vita e, genitori fecondi, son molto dediti alla cura della prole; pertanto il lupo non guasta nel mito d’un fondatore di città.

 

   Strabiliante metamorfosi: d’improvviso salta fuori la bestia selvaggia portatrice di strage, di morte!

   Ohé, le fauci del lupo! La caverna malfamata!  Laggiù è buio pesto, notte di fitte tenebre. Gorgo, canna d’una gola che inghiotte vorace, assetata di strage, di sangue, una brama crudele, una insaziata avidità di distruzioni. L’antro orrendo! Inferi istinti, convulso, maligno potere . . . Ohé, le fauci del lupo!

 

   Luogo perigliosissimo, ma necessario ne è l’attraversamento, indifferibile occorrenza . . . E sebbene esso sia inevitabile passo, uscirne è altresì indispensabile. Ohé, eccolo! è l’ululo ferale del lupo! Invita gli umani a ritrovare la propria voce, quella interna, e ad ascoltarla; ascoltarla a fondo, e senza remore e dubbi sostenere la prova, affrontare la foresta e ritrovare la strada. La via della conoscenza che rende liberi e fecondi. Quell'ululo è un invito a vincere la viltà. Sorgete umani, venite fuori dalle lurche fauci!  Non vi lasciate avviluppare dalle nebbie maleolenti dell’ignoranza, ha il suo covo in quelle nebbie l’insaziabile licantropo che mai si sfama, anzi immiserisce e affama. Cova grande rabbia nelle sue fauci questo steppico subumano seminatore di scandali, discordia e pestilenze. Si pasce della più vile malevolenza, questo zelota; malevolenza gridata, stampata, tivvudica. Lui e i suoi accoliti, i suoi servi! quanta malignità nelle loro relegazioni, nei loro confinamenti totali o parziali, nella loro quotidiana, pallosa invocazione della peste. Una peste assurda, senza senso, volgare tal quale il loro sussistere, il loro vacuo operare.

 

   Umani, che ancora vi reggete saldamente in piedi tra tanta rovina, voi che la peste non ha sfiorato, che non avete commesso la viltà di assuefarvi alla museruola e serbate una mente libera, vantando il pensiero franco, ardito, arioso, vivace, non temete e pronti porgete l’orecchio attento, ascoltate  l’ululo lucente del lupo appenninico che nel candore delle albe sbuca dalla cupa foresta e chiama a raccolta i Luceres, gli abitanti iperborei degli antichi luchi perché si uniscano ai Ramnes e ai Tities, onde spazzar via dalla Saturnia  Tellus la decadente viltà, il defedamento, provocati dal lungo prepotere degli arroganti cleri aruspicini, dall’usura del loro pavido mercanteggiare assisa sui “santi” sogli.

 

   C’è un che d’inesorabile nell’annunciarsi del lupo iperboreo, ma nulla di fatale, di fatidico è nel suo ululo lucente, raduna solamente i liberi e volonterosi, la cui indole sia leale, amichevole, socievole e feconda, l’indole salda dei fondatori.

 

 

l a  l u p a

 

 

 Il dio che si compiace del lupo

Apollon Lukeios:

Per la sua nascita Leto si trasformò in lupa.

                                                                Eliano

 

    Leto, che i Greci più antichi chiamavano Latona, la veneranda Matrona dei rigogli e custode della giovinezza, la lupa iperborea, figlia del Titano Ceo e di sua sorella Febe, entrambi nati da Urano, il Cielo stellato, e da Gea, la Terra fiorita. Asteria, l’Iperborea, era sua sorella; entrambe erano figlie di Ceo, il pilastro del Nord, che regge tutto l’edificio del mondo. Erano coteste tutte divinità della conoscenza. Asteria sposò il Titano Perse e dalle loro nozze nacque Ecate. Zeus, un dì, sorprese Asteria al telaio intenta alla tessitura e se ne innamorò; per rapirla si trasformò in aquila, e, presta, Asteria si mutò in quaglia, fuggì lontano e per celarsi si tuffò nel mare Egeo; proprio in quel punto emerse d’un tratto un’isola che fu detta Ortigia, significante l’isola delle quaglie. Dipoi accadde, che Zeus impregnò di seme divino la giovanile età di Leto, ed essa, per sottrarsi alle ire di Era, assunse volentieri le grate spoglie d’una lupa. E la lupa iperborea fuggì, e nel suo errare venne sull’isola di Ortigia.  Su quella terra sororale, ferma sulle ginocchia e coperta da una palma, la lupa iperborea si sgravò. E nacque Apollo Lukeios, fulgente di luce iperborea, il dio della lira e dell’arco tremendo, il signore delle Muse, ed Artemide, la splendente Diana. In quel mentre, l’isola di Ortigia scomparve dal mare circonfusa d’una intensa, abbagliante luce, e quando gli occhi umani poterono nuovamente posarsi su quella terra, ravvisarono in essa la lucente Delo, l’isola dei divini gemelli partoriti dalla lupa iperborea.

 

*

   Una gran solitudine dominava allora quei luoghi. Tenet fama . . . lupam sitientem ex montibus qui circa sunt ad puerilem vagitum cursum flexisse; eam submissas infantibus adeo mitem praebuisse mammas . . .

 

   Ancora una lúkaina, una lupa iperborea, e due gemelli, figli questi del dio Marte e di una Vestale; e il latte del lupo nelle membra d’un dio, Quirino, nelle membra d’un popolo, il popolo dei Quiriti. Da quelle grandi solitudini selvose, dalla tana oscura del lupo risorgeva alla luce l’iperborea Roma, Città degli Uomini e degli Dei.

 

   Sexta Olympiade, post duo et viginti annos quam prima constituta fuerat, Romulus, Martis filius, ultus iniurias avi, Romam urbem Parilibus in Palatio condidit.    (Velleio Patercolo)

 

 

mercuri dies, XXI di aprile dell’anno MMDCCLXXIV a.U.c.

 

 

la lupa
la lupa

 

 

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la nevicata del 13 febbraio
la nevicata del 13 febbraio

 

 

la rosa di febbraio

 

 

   Stamane ho trovato nell’orto e ho raccolto questa rosa dal colore vinoso, rosso scuro, una rosa iemale. La rosa di febbraio, di questo febbraio dallo stile tanto familiare! Bella nella valle la nevicata del tredici, una di quelle giornate in cui il risveglio mattutino avviene nel fascino d’un indescrivibile candore, nel sublime silenzio delle nevi! Ci deliziano di questo febbraio gli amichevoli sbuffi vernali ed oggi questo caldo sole, che rallegra gli uccelletti e la tortora lassù, sulla grondaia, che a gran voce ridomanda il nido.

   Ho tra le mani questa rosa dal colore vinoso, questa rosa iemale, mentre risalgo passo passo il sentiero oltre il mandorlo, in un batter d’ali oggidì fiorito di tanti petali bianchi. Chi può mai impedire a un modesto radicchietto di rassomigliare a una rosa, alle sue morbide foglie dal color rosso scuro di somigliare ai petali d’una rosa? Chi può mai proibire a una rosa di fiorire in pieno inverno nelle sembianze d’un modesto ortaggio, d’un radicchio pusillo? Oh, sì, d’un radicchio pusillo!

   E chi può mai vietare al mese di febbraio le sue fioriture? Chi può mai vietargli di utilizzare l’immaginazione umana per realizzare la sua rosa iemale? La rosa di febbraio?

   Ecco perché stamane mi ritrovo tra le mani questa rosa dal colore vinoso, questa rosa di febbraio. E nulla trovo da ridire se un ortaggio pusillo, un modesto radicchio, fiorendo nell’orto ha voluto rassomigliare a una rosa. O, forse, essere una rosa? E tra le mie mani, e in questo istante soltanto.

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signum laetum dat . . .

 

 

   La luna, prossima al plenilunio, pallidissima per la sfinente crescenza, se ne sta nel cielo a nord-est; il sole che volge al tramonto, sta per scivolare a sud-ovest dietro il monte. Non c’è una nube. Su tutta la valle s’espande un remoto silenzio. C’è un tepore nell’aria fresca, obliosa di profumi! La giornata, quart’ultima di febbraio, è stata un anticipo di primavera. Due tortore si rincorrono in un leggero volo, calano poi giù sul prato e vi si soffermano a becchettare.

   Di fronte ho il mandorlo fiorito che a un tratto s’illumina del raggio del sole calante. Cento e cento fiori in un sol raggio rosato. L’ultimo raggio. E le tortore dal prato via si involano per raggiungere il nido.

   Dal mandorlo fiorito, il primo tra gli alberi a vestirsi di fiori, il galbulus, che dall’affrica costa ha fatto poc’anzi ritorno, con un sibilo, e un altro, e un altro ancora… signum laetum dat

   Nel cielo la luna s’approssima all’ultimo plenilunio d'inverno.

 

 

 

 

 

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LA MASCA UN DOBERMAN LA MORDACCHIA

 

 

   Andiamo in giro per il nostro praticello con la compagnia del buon sole e d’una vivida giornata, la terz’ultima di quest’amichevole febbraio. A tanta, ben accompagnata solitudine si è unito lassù, nell’azzurro, il provetto volo d’una poiana. I nostri passi, e il volo della poiana! Siamo giunti là dove il sentierino incontra la stradicciola sterrata che mena su al culmine del rialto; s’odono intorno i versi degli uccelletti e il tubar continuo delle tortore indaffarate a riaccomodare i nidi. A un tratto vediamo venir su un viatore solitario, anzi non è solo, conduce con sé un cane al guinzaglio; notiamo che il cane è un grosso doberman ed è sprovvisto di museruola! Ora i due son quasi prossimi, scorgiamo bene anche il padrone, un giovanottone sui venticinque che veste sportivo e indossa la cosiddetta mascherina. Ci hanno ormai raggiunto. C’è uno scambio di saluti, poi tenendosi a distanza il viatore ci chiede dove la strada conduce, e frattanto notato il nostro imbarazzo, ché il doberman privo di museruola e fruendo d’un lungo guinzaglio si è in più avvicinato ai nostri stinchi, ci rassicura, spiegando che trattasi d’un animale molto mite e che volentieri si lascia accarezzare. Ci proviamo, e il cane scodinzola contento; dipoi, il giovane padrone lo richiama a sé e garbatamente salutando s’avvia; il cane obbediente lo segue, ma dopo alcuni passi si rigira e abbaia alla nostra volta. Il giovane lo zittisce e, sorridente, cordialmente ci apostrofa: “Nulla, nulla! S’è accorto che non indossate la mascherina. Null’altro!” E prosegue. Da parte nostra ci sentiamo davvero pur noi obbligati a uno schietto sorriso. Riprendono le tortore il loro solito tubare. Anche la poiana lancia dall’alto un grido.

 

*

   Una volta, ma occorre risalire al Medioevo, con la voce masca s’intendeva indicare soprattutto la strega; era un termine del latino medievale e si poteva anche riferire a un fantasma o a una lamia o all’uso di cotali camuffamenti per incutere timore o per mettere in atto una burla. Da qui facile il passaggio alla scena, al teatro, e quindi l’uso teatrale della maschera, che d’altronde è antichissimo (i latini usavano i termini: persona, species; in greco antico: prosōpon). Ma attenzione, la maschera copriva la parte superiore del volto lasciando libera la bocca e libere le narici che di sovente il buffo doveva allargare in froge. Le maschere, in specie quella di arlecchino e di pulcinella, sono mascherine e vengono chiamate morette, infatti coprono la fronte con la regione orbitaria, le gote e il naso; libere le narici, la bocca e il mento, giacché l’attore deve respirare bene, a pieni polmoni. La maschera, e il diminutivo mascherina, quindi, è indicata nei vocabolari come un finto volto di cartapesta o altro materiale indossato per camuffarsi et cetera.

    La museruola, invece, è quell’arnese che viene adattato al muso dei cani per impedire di mordere. Mettere la museruola agli umani, anche se chiamata MASCHERINA, un malizioso eufemismo, è un preciso indizio di imbavagliamento . . . Imbavagliamento in senso figurato, ci dicono . . . solo in senso figurato . . . Non è certo la mordacchia, o il taglio della lingua, come accadeva un tempo . . .

    Sarà, sarà! . . . ma miliardi d’uomini in museruola e in ogni parte del mondo? . . . sarà pur indizio d’un qualche cosa! . . . chissà! forse, mah!

     E quel cane, quel cane privo di museruola? E non solo uno, ma due, tre, tanti . . . eh!

     Cani monitori, monitori degli umani! Umani?

 

 

Dober-man significa uomo dabbene
Dober-man significa uomo dabbene

 

 

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FAUNO FEBRUO

 

 

Numa…

secundum dicavit Februo deo,

qui lustrationum potens creditur. (MACROBIO, Satur.)

 

…et Fauni sacra bicornis eunt. (OVIDIO, Fasti   

 

       

 

   La valle ampiamente brezzeggiata, stamane risplende tutta nel sole; una brezza fresca investe il viso e le labbra assaporano un gradevole umidiccio d’erbe; c’è una moltitudine di verzure tra questi poggi, sulle fertili spianate laggiù lungo il fiume. Un grande erbario vivente! Abbiamo la certezza che l’intatto aroma di alcune tra le tante, o la loro mescidanza a lungo inspirata e con godimento, irrorando bronchi e polmoni li preservi dai virus e da ogni pestilenza. Senza dubbio, è così!

   Quel che più oggi ci appaga è il raggio di questo bel solicello; oddio! affettuosamente diciamo solicello, ma il suo splendore è davvero intenso e abbacina. E mentre in brio la fresca brezza spirando sul volto riattiva i nostri sensi, sentiamo che tanto fulgore rinfranca pure il nostro animo. Sarà l’avanzar degli anni? Certo, se con il maturar degli anni ci si eleva in saggezza, più si è pronti e disposti a ricevere il consiglio del sole e benevolo si volge a noi lo sguardo del padre Libero. E ciò ci rinfranca, perciò leviamo il calice al sole! Perché libertà risiede in saggezza e non in scartoffia, e questa è una cognizione che si può acquistare con l’esperienza, soprattutto in tempo di covid imperversante. A proposito, se non vuoi contagiarti e poi a tua volta appestare, se vuoi davvero esser libero, non scordare il nostro consiglio, spegni il demone tivvudico e metti al bando tutto quell’ambaradàn; la tua salute rifiorirà, quella mentale soprattutto s’ingigantirà. Questo è il consiglio che ti lascia il buon valente febbraio duemila e ventuno, accomiatandosi stasera.

   Questo aristocratico febbraio che ha denunciato le tante malefatte della consorteria “democratica globalista” che spadroneggia per le terre e per i mari dell’orbe, desovranizzando popoli e popoli in nome di sua santità il Covìdd!

    Al candido rigoglio del mandorlo si sono uniti stamane i bionco-rosei fiori dell’albicocco, d’improvviso fiorito! Ci offre segni d’una florida rinascita febbraio, nel tempo in cui ci dice addio. Segni d’un’intima, immacolata purezza discendente dal cielo sulle terrestri vicende, s’annunciano? Il pio Februo si è attivato? e il dies februatus non è trascorso invano?

    Lo splendore del sole è al culmine . . . S’ode un sibilo prolungato, poi un altro . . . Ci voltiamo verso il mandorlo, su i cui rami sosta di frequente il rigogolo che verso la fine d’ogn’inverno puntualmente qui ricompare; ma il sibilo si ripete, proviene dal lato opposto. E, lì, c’è un alloro molto frondoso e accanto ad esso un verdeggiante corbezzolo, l’albatro, nostro simbolo patrio. Vediamo muoversi le fronde dell’albatro e nuovamente s’ode il sibilo . . . Giuochi di luci e di ombre tra quei rami e quelle fronde, che densissime sembrano voler fare da specchio ai raggi del sole. D’improvviso un frullo, qualcosa vola via e si perde nel raggio solare; ma proprio nel punto in cui si son smosse le fronde, ci appare il singolare profilo d’una figura giovanile dal volto affilato con occhi cupi e profondi e al mento una barbetta fluente, sottile . . . un attimo ancora e par ci sorrida, muovendo verso di noi la fronte lucente . . .È la brezza a smover d’un tratto le fronde d’entrambi gli alberelli? Di certo, la faunesca figura è scomparsa, e noi non siamo in grado di dirvi d’aver scorto su quell’ampia fronte le corna; forse erano curve, fatue, sottili e si son fuse ai raggi del sole!

    Ma era davvero Fauno colui? O era desso il febbraio di questo anno 2021, proprio lui in immagine di fauno, venuto a darci il suo addio? Caro e buon amico, o Febbraio!

 

dies solis, XXVIII di febbraio 2021, al tramonto
dies solis, XXVIII di febbraio 2021, al tramonto