IL NUOVO MONDO – YANKÈRIA

 

 

 

 

Lo Stato Romano non si sarebbe elevato a si

alta potestà, se non avesse avuto origine divina

e in sé un che d’imponente e d’universale.

                                                                                Plutarco

 

 

preambolo

 

 

 

   Yankèria, i vasti territori popolati da genti varie, europidi, africani, latinos, asiatici, aschenaziti, arabi, turchi e un esiguo numero di miseri nativi, tra cui molti sanguemisti, sopravvissuti all’immane genocidio perpetrato dai colonizzatori puritani anglosassoni. Yankèria, o se preferite, Yankèzia, è quel continente che si estende nell’emisfero nord-occidentale, detto Continente Nuovo o addirittura Nuovo Mondo, e non certo perché quelle terre sono geologicamente giovani (anzi!), ma perché, presentarle e farle ritener tali, giova a chi ne ha progettato l’invasione; quel che emerge come nuovo, e mai prima sfruttato, appare “appetibile” e quindi conquistabile, di esso ci si può licito impossessare, anche in danno e spregio degli originari legittimi possidenti, il padrone di casa colà da antica epoca insediato. Dipoi, quando di tal falsa narrazione si riesce a farne una suggestiva attrattiva, e la moda del Nuovo Mondo ha preso l’aire e segue la corrente della credulità incalzante con il massiccio bagagliume della new wave, e in tal novità, divenuta ormai indiscutibile, tu hai preso stanza e ti sei calato nella realizzazione del sogno nuovayorkese, orbene, in quella artificiosità multiculturale e multietnica hai interamente disfatto la tua peculiare indole, il tuo carattere originario, mentre per la via i grattacieli sovrastano ogni tuo passo. Ma che importa, che contano gli avi, i nonni, il babbo, la mamma? senti di possedere nelle tue tasche tutta la potenza d’un arsenale atomico . . . sei, e puoi esserne fiero, un vero Yankee! Sei l’anticonvenzionale, l’antitradizionalista che possiede, tra le tante usanze yankee la democrazia più perfetta mai apparsa tra gli uomini, infatti ti basta indossare una divisa da marines e via, corri ad esportarla in ogni angolo del mondo, a suon di bombe come il business impone. Tu sei la novità incarnata, il messia del Nuovo Mondo! Nuovo Mondo? Ma, se è più vecchio del cucco? Anzi, il mucido cascame di tanti vecchi mondi! Vecchi mondi già crollati, vecchi mondi che crolleranno restando dimenticati sotto ammassi di rovine.  E s’intravede di già la danza sfrenata di Kalì.

 

   Ma se il Clero più potente del mondo, gli eletti che hanno in pugno la “sorte manifesta”, introduce e promuove la suggestione della scoperta d’un Nuovo Mondo, della inaspettata comparsa di terre appetibili e mai prima sfruttate? Dovete ben riflettere! Quelli di ieri, i designati dalla sorte, i predestinati, non son diversi da quelli di oggi, trattasi d’una scuola per gli affari, business school, ormai convalidata da secoli, Calvino è solo uno che di recente ha avuto la faccia di affermarlo pubblicamente, ma è una cricca che risale ai tempi della popolarità del paolottismo, allorché il giudeo-cristianesimo in veste gnostica e neo-platonizzante andava diffondendosi e un clero ambiguo attecchiva in Roma, inculcando nelle menti e negli animi i suoi dogmi e le stranie credenze fideistiche. Un clero spregiudicato che si servì della lingua latina, del diritto romano adulterandolo, e attinse anche alle liturgie e ai simboli dei precedenti culti con intricate, sofisticate travestiture. Ebbe l’appoggio degli Imperatori cristianizzati, traditori della romanità, ma soprattutto l’appoggio occulto dell’etrusca disciplina, l’infera aruspicina che aveva le sue fondamenta nelle cripte, negli endogei, nei catacombali labirinti, negli antri segreti, i possessi di Vatica il demone infero che ispirava i tuschi indovini, i fatidici Tusci, quelli che annunciavano il ‘predetto’ dal destino. Allora, sì, un clero di tal sorta e con tal sconfinata folla di sostenitori può ben suscitare il miraggio d’un Mondo Nuovo e su quello far convergere le illusioni e i sentimenti degl’ingenui, dei creduloni, le speranze degli sprovveduti, dei disperati; e poi alimentare tal miraggio, accrescere ed espandere l’allucinazione onde farla perdurare nei secoli.

 

 

 

il Vosges Gymnasium – un latinista e un cartografo

 

 

   Saint-Dié des Vosges è una cittadina sul fiume Meurthe nella regione del Grand Est (Francia nord-orientale), sorta intorno ad una famosa abbazia, precisamente il monastero di San Deodato, Saint-Dié. Tale Abbazia agli inizi del XVI sec. era retta da un Collegio di canonici agostiniani ed era un eminente centro di studi umanistici; il tutto sottoposto alla vigilanza dell’alta prelatura della Santa Sede. Nel monastero si trovava anche una biblioteca ben provvista di testi e documenti antichi e rari, pertanto vi si era riunito un gruppo scelto di studiosi ed eruditi, umanisti soprattutto, ma anche cultori di storia, geometria, geografia, astronomia ed esperti di cartografia. Questa adunanza di ricercatori, come si può ben immaginare, era operativa all’interno di quel Capitolo abbaziale, e la sua attività non poteva non stare in riga coi divisamenti dell’alta prelatura, seguirne i programmi e i progetti. Questo cenacolo-officina, disponeva infatti anche di una stamperia, fu messo su e completamente realizzato tra la fine del XV e l’inizio de XVI sec. dal canonico di origine alsaziana Vautrin Lud, nato proprio a Saint Dié nel 1448, che fin da giovanissimo aveva deciso di mettere la sua vita al servizio della Chiesa. Così quel gruppo scelto di dotti ed umanisti, il Vosges Gymnasium, costituiva una scuola ecclesiastica strettamente collegata alla Santa sede, in essa riceveva impulso la stessa vita religiosa e, in realtà vi si sviluppò un movimento, che avrebbe avuto un sicuro avvenire, detto “Devozione moderna”.

 

   L’alsaziano Matthias Ringmann, scrittore, dotto latinista e anche geografo, conosciuto per i suoi studi classici, in quegli anni soprattutto s’era fatto notare per la sua traduzione latina di una lunga lettera, in sostanza una relazione dell’esploratore italiano Amerigo Vespucci sul Mundus Novus; così il navigatore fiorentino definiva quelle terre al ritorno dal terzo dei suoi viaggi nel 1502. Il Ringmann, a Strasburgo, aveva egli stesso edito quella lettera, preceduta da un suo poemetto, in un opuscolo intitolato De Ora Antarctica. Venuto a conoscenza del libretto, Vautrin Lud invitò il giovane studioso alsaziano a Saint-Dié, e così il Rigmann divenne un membro di quella scuola ecclesiastica formata da dotti umanisti, ormai affermato centro di formazione cultu(r)ale cattolica. Il Gymnasium era frequentato anche dal trentasettenne friburghese Martin Waldseemüller, il più provetto cartografo del tempo, che risiedeva allora a Strasburgo dove s’incontrò con Vautrin e da questi ricevette l’invito a recarsi al Monastero di Saint-Dié. Colà, da quella Giunta di sostegno, seppur periferica, della Santa Sede, era già stata progettata una “introduzione alla cosmografia con i necessari principi di geometria e astronomia, e con la descrizione dei sorprendenti viaggi di Amerigo Vespucci”. Avrebbe dovuto contenere anche “una grande rappresentazione del mondo intero con le terre scoperte di recente e sconosciute a Tolomeo”. Allo studio della grande carta del mondo aveva lavorato Martin Waldseemüller e, tranne qualche rifinitura attinente alla rappresentazione delle nuove terre, era pressoché pronta. Fu quindi spronato all’opera il venticinquenne Ringmann, latinista e anche autore di una grammatica latina; era nell’aria, s’annunciava come “predetto” dal destino, un nome per quel nuovo continente. Asia, Europa, Africa, e . . . per la quarta parte del mondo, sì, ancora un nome femminile da accostare a quelli così tanto antichi.  E il giovanissimo Matthias, tra l’altro dotato di fantasia poetica e ammiratissimo di Vespucci e dei suoi mirabili viaggi, si mise a studiare con impegno. D’altronde non era solo, ma affiancato da un intero Capitolo di canonici conventuali e coadiuvato da un eccezionale gruppo di studiosi. La sua attenzione fu catturata dal nome del Vespucci, Amerigo, e si risolse, ovvero la sua fantasia partorì, e quel nome si trasformò in un aggettivo latino (o pseudo), americius, poi Matthias sostantivò il femminile dell’aggettivo, americia, e ne trasse fuori america: ed eccoti l’America, un Continente intero creato a tavolino, e in un baleno! “Vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole…”. Vaticanus mons. . .? Inaspettatamente un portento s’era compiuto! Il nome c’era . . . il mito del Nuovo Mondo ormai poteva prendere il volo, espandersi e inoltrarsi nei secoli a venire.

 

 

 

la grande carta del mondo – il lancio d’un falso mito

 

 

   Waldseemüller frattanto aveva perfezionato la sua grande Carta del mondo, e a quell’elaboratissimo disegno aveva dato il nome di Universalis Cosmographia; mancava però su quella carta un nome e Rigmann suggerì all’amico di dare al continente di recente scoperta il nome di America, e ciò in onore del Vespucci. Martin, forse per nulla convinto, ma certamente spinto dal volere comune, appuntò sul disegno, nello spazio corrispondente al sud del continente, la parola America. Per converso, nelle seguenti edizioni ch’egli personalmente curò della stessa Carta, si corresse e appose semplicemente Terra Nova, omettendo America. Ma il 25 aprile 1507 a Saint-Dié, nel monastero di San Deodato, a cura del Vosges Gymnasium, era stata edita la Cosmographiae Introductio contenente tra l’altro la grande Carta del mondo disegnata da Martin Waldseemüller con inciso il nome America, che oramai si era prontamente e largamente diffuso. Un mito in marcia e che avrebbe fortemente rimbombato nei secoli, con estremo rimbombo laggiù, nel Sol Levante, in quegli atroci, terrificanti dì (anch’essi “predetti” dal destino?) dell’agosto 1945.

 

   Un mito inventato di sana pianta, un Nuovo Mondo laddove trattavasi di terre geologicamente non dissimili da tutte le altre terre dell’orbe e popolate da genti d’antiche origini! Scriveva nelle sue lettere il Vespucci: “Arrivai alla terra degli Antipodi e riconobbi di essere al cospetto della quarta parte della Terra. Scoprii il continente abitato da una moltitudine di popoli e animali, più della nostra Europa, dell’Asia o della stessa Africa”. E ancora: “Ci rendemmo conto che quella terra non era un’isola ma un continente, poiché si estendeva per lunghissimi lidi che la circondavano ed era piena di infiniti abitanti . . . E qui scoprimmo innumerevoli genti e popolazioni e animali selvatici di tutti i tipi”. Osservate come l’esploratore pone continuamente l’accento sulla moltitudine delle popolazioni e diversità delle genti incontrate in quei luoghi: infiniti abitanti, moltitudini di popoli! Nelle lingue di quei popoli, nelle loro storie e miti, nei loro ricordi era di certo rintracciabile il vero nome di quelle terre, di quel continente. Tutto è rimasto sepolto nelle rovine d’una immane strage. Strage di “selvaggi e di pagani” voluta e attuata dall’Europa cristiana! Fatto sta che in breve tempo scomparvero dalla faccia della terra popoli e genti religiosissime e grandi civilissimi imperi con le loro solari culture, gli Aztechi, gli Inca, i Maya, e le Tribù nomadi del Nord, che potevano pregiarsi di uomini valorosi con profonda cultura spirituale. Residuarono quelle poche genti, che nelle foreste e in zone inospitali da tempo vivevano allo stato di natura e nella superstizione, e pur lasciandole nel loro misero stato ci si affrettò a battezzare.

 

 

 

   Il mito del Nuovo Mondo . . . Amèrica! Amèrica!

 

 

   A nostro avviso ebbe ragione Martin Waldseemüller a rifiutare quel nome; che attinenza può mai avere, relazione e vero, reale legame con quella terra e i suoi abitanti, un nome creato a tavolino forzando il linguaggio, cercando di imprimergli con un artificio l’autorità del latino e da un nome di persona tirar fuori la denominazione d’un continente? Amérìgo . . . Amèrica! Se sospendete un attimo il pensiero e vi lasciate andare al suono sillabato, calcando sugli spostamenti degli accenti, vi parrà d’udir la cadenza delle parlate yanchee . . . slang americhèno! Un inganno, dunque? Ih, quale stregoneria! C’entrasse Vatica? Quel demone etruscologo che abita le catacombe Vaticane?

 

    Questa artificiosità è forse la cagione, per cui da quel continente sconvolto, sopraggiunge e s’avverte in una sorta di soprasenso il sentore d’un continuo sconquasso, della minaccia sempre incombente d’uno squilibrio insanabile. Alienante mito, quello del Nuovo Mondo! Un mito creato a bella posta e per innestare, sempre appositamente, un mito nel mito: la favola degli STATI UNITI D’AMERICA! Una società a cultura multietnica, basata su una teologia biblico-testamentaria, osservata con stretto rigorismo, pervasa da un’ipocrita morale puritana e informata a una fasulla mitologia (più o meno una mitomania) democratica, una ideologia non fondata su un solido retroterra filosofico, ma approssimata e rudimentale al punto di ritenerla esportabile con le armi. Ma più che dell’innesto d’un mito nel mito, sorge, e fondato, il sospetto che questo ormai secolare astrologare, questo intenso favoleggiare d’un mondo nuovo, sia servito a creare gli U S A (dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776).  L’attenzione infatti fu subito volta alla vastità delle terre, in quel nord continentale di ultima scoperta; territori estesi, praterie immense, ove vivevano numerose tribù di nativi nomadi, armati ancora di frecce e asce di pietra, facili da debellare, ove non esistevano città ma solo popolazioni senza usanze, senza costumi e una stanza addomesticata. Si trattava solamente di disperdere quelle genti, ignorandone spiritualità, cultura e costumi, situazioni arcaiche superate da millenni dagli eminenti umani, ad esempio, i cristianissimi prelati e studiosi, gli umanisti del monastero di Saint-Dié. Un Nuovo Mondo tutto interamente da urbanizzare . . . biblicamente, cristianamente, umanisticamente, illuministicamente e ancor, nel progresso dei tempi, democraticamente, e quindi allevarlo in una sempre crescente atomica. . . bellezza! Un Nuovo Mondo . . .

 

 

 

terre già note e territori da conquistare

 

 

   Quei territori erano tutti da ‘esplorare’, nessuno avrebbe mai potuto impedire agli Europei, di avanzare e progredire nella conoscenza; e si dette fiato alle trombe della epopea, con cariche di cavalleria e massiccia fucileria; e perché non impiegare il cannone contro quella minacciosa mazza di pietra, il tomahawk, per la conquista . . . per la conquista del West? La guerra contro i nativi, i legittimi abitanti di quelle terre, durò a lungo e si concluse con l’ultima battaglia sul Little Bighom il 25 giugno 1876. In quella giornata gli Cheyenne e i Lakota distrussero il 7° Cavalleggeri comandato dal colonnello Custer, nonostante l’inferiorità degli armamenti. Fu l’ultima battaglia; i bisonti scomparivano dalle Grandi Praterie in gran numero, scomparivano sotto il tiro dei fucili dei cacciatori Yankee che ne mercanteggiavano le pelli, e i nativi dovettero desistere dai combattimenti e affamati, denudati e umiliati avviarsi nelle riserve.

 

  Se non avessero dimostrato il loro coraggio e un alto valore guerriero, se non fossimo venuti a conoscenza dei profili dignitosi e integri dei loro saggi capi e abili condottieri, da Cavallo Pazzo a Nuvola Rossa, da Geronimo a Toro Seduto, Cervo Zoppo e altri famosi, se ignorassimo il loro sofferto esilio nella reclusione delle riserve ove furono costretti per non aver rinunciato al loro mondo interiore e alle tradizioni degli avi, manco potremmo immaginare qual fu quel disastroso, christophero uragano che s’abbatté su quelle genti, distruggendole.

 

   L’iniziatore di una politica genocida, o quanto meno violenta, nel cosiddetto Nuovo Mondo fu il signor Christobal Colòn, ammiraglio genovese e defensor fidei, apprezzato e ben voluto da Papa Cybo (figlio del cittadino genovese Aronne), Innocenzo VIII, e poi dal suo successore Alessandro VI, ovvero Rodrigo Borja. Incerta spesso la biografia, sfuggente il carattere di questo navigatore. Di certo bazzicò per i porti genovesi con navi mercantili, ma nessuno può asserire che ebbe a Genova i suoi natali e così è per le altre città che se lo contendono; ma addirittura c’è disputa sulla sua nazionalità, italiano, portoghese, spagnolo, polacco? Oppure di famiglia ebraica, convertiti marranos sfuggiti alla persecuzione? E il cognome stesso, Colòn, Colonus, Coulomb, Colombo? Ecco, colto in fatidica flagranza, il provvido nome: Cristoforo Colombo! Colombo, richiama il piccione viaggiatore e soprattutto la ‘colomba’ che nella religione cattolica raffigura lo Spirito Santo, e Cristoforo è colui che reca alle genti il messaggio cristico, il Vangelo. Ciò non fu casuale; ci si può a ragione chiedere come mai era così sorprendentemente già ben approntato, e a puntino, colui che doveva ‘scoprire’ il Nuovo Mondo? Un uomo dunque designato e battezzato dalla Provvidenza, Cristoforo Colombo?

 

   Ma fu quella una vera scoperta? Oppure fu solo il discoprimento di qualcosa ch’era già noto? C’è sempre qualcuno che sa.

 

   Certo è che nel secolo X navigatori Norreni si spinsero fino alle coste nord-orientali di quel continente, dal nome non conosciuto. Fu dato, perciò, a quelle terre il nome di Markland (Terra delle foreste), ma poi prevalse quello di Vinland, perché pare vi trovassero grandi estensioni di vite selvatica.  In un primo tempo vi furono solo insediamenti momentanei, bastanti al disbrigo dei rapporti commerciali che andavano istaurandosi con gli abitanti del luogo, provviste di pelli soprattutto e di legname. Nell’arco di oltre quattrocento anni vi furono molteplici spedizioni nel Vinland con scambi culturali e commerciali tra norreni e nativi. I Norreni che avevano colonizzato l’Islanda, da lì avevano istituito tanti stanziamenti sulle coste occidentali della Groenlandia e ciò facilitava anche i loro viaggi e i rapporti con la popolazione del Vinland. Nell’anno 1010 Thorfinn Karlrefni, un esploratore islandese poco più che trentenne, con più navi e molte famiglie approdò in quelle terre con l’intenzione di fondarvi una colonia. Si ignora quanto lunga fu la   permanenza, sappiamo che su quel suolo sua moglie mise alla luce un figlio e fu il primo europeo ivi nato. Dall’inizio del secolo scorso una statua di Thorfinn Karlrefni, opera di uno scultore islandese, si trova nella città statunitense di Filadelfia, in Pennsylvania. Una discreta, muta testimonianza, per un tardivo riconoscimento?

 

   Piri Reìs fu un ammiraglio ottomano, navigatore e geografo che progettò una mappa del mondo da lui attentamente studiata e disegnata nella prima decade del ‘500 e realizzata su pergamena nel 1513, come inciso sulla mappa. Ebbene in essa fu disegnato tutto il versante orientale del Sud America e nei particolari    le coste atlantiche. La mappa disegna con minuta precisione, notevole per i tempi, le coste dell’Africa. Sarà concesso ritenere che lo studioso ottomano dovette servirsi di carte d’un’epoca precedente, più antica, e valutarle per giunta alla luce delle sue esperienze di navigatore.  A tutt’oggi la mappa è custodita nel museo del Topkapi a Istanbul.

 

 

 

storia-verità

sopraggiunge il christophero  una data fatidica

 

 

   Ma la storia se la inventano gli uomini; e i divulgatori dei fatti e i propagandisti dei credi, delle teorie e delle ideologie se la espongono o se la progettano secondo i loro intenti o addirittura secondo i disegni e le finalità di coloro che detengono il potere. Gli storici non fanno che aggiungervi le loro fantasie, le loro idealità e, oggi, i loro criteri scientifici; e dal momento in cui la storia ha ambito alla scientificità, nessuno può sapere in quali torti e ritorti meandri si sia inoltrata. Psichiatria, psicanalisi, antropologia, propaganda e tecniche di condizionamento e tant’altro ancora; insomma cosa sarà mai la storia? Gli scrittori dell’antichità esponevano fatti spogli, narravano la nuda cronaca degli avvenimenti, non imbastivano, non componevano, non combinavano la “storia”; il più, mitizzavano gli eventi, le imprese, elevando i fatti significativi a valore di mito, di epopea, di saghe, al cui insegnamento potessero attingere intere generazioni. Ma in quei tempi ad ammaestrare e educare gli uomini presiedeva il nobile scire, la conoscenza, la sapienza e non la tirannia scientifica. Lo sciente valeva, di meno lo scienziato, l’erudito. Questo, ovviamente, è il nostro modo di vedere; restar fuori dal polverone della storia, dal subbuglio, dalla confusione, dalla menzogna, dall’odio delle fazioni, dalle fandonie, dalle bugie della propaganda, dal politicamente corretto imposto dal prepotente di turno; e tanto per non lasciarsi travolgere dalle lusinghe del transeunte. Perciò non stimiamo educativo lo storicismo. Non c’è leale ammaestramento e quindi giusto appagamento, cioè concordia, quiete, pace, nel transeunte che rinchiude, avvilisce il pensiero, spingendolo ad inciampare di continuo nell’accidente (la storia che si ripete), e serra all’uomo le porte dell’assoluto, l’ingresso alla realtà compiuta, vera, sciolta dalle limitazioni, la sola che restituisce all’uomo la vera libertà. L’unica che rende quindi reale, vero, educativamente efficace l’umano agire e il suo progredire, il ciceroniano “progressio discendi onde ad virtutem facere progressionem, raggiungere per gradi la virtù. Virtù dal lat. “VIR”, Uomo. Virtù è quindi la qualità, la natura propria dell’uomo, la dote precipua che per gradi l’uomo ha realmente avvicinata e integrata in sé. Integro, intatto, non toccato da nulla, irreprensibile, integerrimus, è l’uomo virtuoso, incorrotto, l’uomo dalla integerrima vita. La parola lat. virtus, utis, f. (virtù, valore, coraggio, pregio, carattere), deriva da “vir”  – un arcano, un enimma? –  ché, in sostanza virtù vien dall’uomo, colui che primariamente tal dote deve conseguire e realizzare.

 

   Un accenno a mo’ di divagazione su storia-verità e l’umana virtù, forse non tanto divergente dall’argomento che andiamo trattando. Difatti! Nonostante fosse risaputo che in quel continente già erano approdati altri navigatori, in passato egizi, fenici e forse greci, ma anche in tempi più recenti i portoghesi partendo dalle Azzorre, i norreni dalle coste della Groenlandia, si volle fissare al 12 ottobre 1492 la grande “Scoperta”! In quella data il signor Christobal Colòn o Colonus o Coulomb, alias ammiraglio Cristoforo Colombo, attraccava con nave spagnola in un porticciolo dell’isola di Guanahani, così chiamata nella lingua aruaca dagli abitatori, i pacifici e ospitali Taìno Lucayan, che non si meravigliarono affatto dell’inaspettata visita. L’isola fu ridenominata San Salvador dai christopheri spagnoli, e in breve tempo i Taìno con i loro rivali Caribi scomparvero dall’isola, dopo essere stati ridotti in schiavitù dalla eclesiastica paloma, il piccion divino; e da quelle isole pagane, che i nativi chiamavano Lucayas e l’Ammiraglio mutò in Islas de la Bajamar (Isole del mare basso) e poi gli inglesi in Bahamas, gli Arawak scomparvero tutti nel giro d’un secolo o poco più.

 

   Inevitabile quella datazione, nonostante si sapesse che il viaggio era già stato preceduto da altri viaggi e che il Viceré delle Indie, così insignito dai cattolicissimi per titolo papale reali di Spagna, Isabella e Ferdinando, aveva già visitato quelle isole ed altre. Ma quella doveva puntualmente essere la data! coloro che sapevano volevano una data “fatidica”, dacché stava per operarsi e raggiungersi un netto discrimine: s’andava a concludere il medioevo e si tendeva a dar corso all’età moderna. Il medioevo era stato troppo chiuso, appartato, arcaico, feudale, perché troppo legato alla terra e dipendente dai suoi frutti, sterilmente mistico, puerilmente cavalleresco; era giunto il tempo delle grandi navigazioni, di un movimento in avanti, per accelerare l’evoluzione e ingigantire l’esperienza sensibile onde impadronirsi del mondo fenomenico con il fine di accelerare il progresso; progressione esteriore, materiale, con l’incremento del quantitativo, e a nocumento, purtroppo, della qualità, sia per la trascuranza e il debilitarsi dell’intima tenuta, sia per l’offuscarsi delle interiori virtù, nella mente e nel cuore degli uomini e nell’animo delle genti. Una soluzione di continuità, ancora un ulteriore abbandono delle antiche tradizioni, per puntare verso un Nuovo Mondo, tutto da inventare, là, su un continente ormai sottomano, non più distante, non più sconosciuto, solo da assoggettare. Il che non parve difficile impresa; erano, sì, popolazioni infinite e numerose ma molto ingenue e del tutto disarmate. In aggiunta, la grande scusante: quei popoli vivevano nella cecità del peccato, andavano redenti, era ormai sopraggiunto il Christophero! E così si giustificarono i genocidi; d’altronde erano quelli i tempi della Santa Inquisizione e nella stessa Europa non mancavano i roghi e le stragi.

 

   E così, come risaputo, si procedette; si portò a compimento l’impresa. Certo un paio di secoli trascorsero tra il tuonar dei fucili e delle bibliche ed evangeliche prediche; e, infine, il conquistatore dovette pur acclimatarsi, non era quello il paese dei suoi avi; erano terre strappate ai Mani dei nativi, fieri indigeni, nipoti che si erano ostinati anzitempo a raggiungere i loro vecchi avi, e in grandi fitte schiere.

 

 

 

un personaggio composito – uno yankee anzitempo

l’avvio della globalizzazione

 

 

 

   Il personaggio del piccion viaggiatore, il Christoforo, è una figura poliedrica, composita, potremmo dire lavorata appositamente a faccette, cui doveva attribuirsi il fascino dell’uomo della Provvidenza. L’uomo che s’affacciava sulla soglia del Mondo Nuovo, una volta messo ivi il piede non poteva non rievocare il destino manifesto e quindi a quella soglia dare il nome di San Salvador. Ricordiamo che costui non era un esploratore, tale era invece il Vespucci, ma solo un navigatore mercantile, e quindi un mercante alla ricerca di una via più breve per l’Asia; una via che abbreviasse il viaggio per il disbrigo degli affari intrapresi con le genti di tal continente dai fiorenti mercati. Abbiam visto l’incertezza sul suo luogo di nascita, di una patria e d’una gente di appartenenza; ciò per presentarlo a tutte le genti come il viaggiatore aperto, cosmopolita, di cultura multietnica, un cittadino del mondo, del mondo nuovo, un modello yankee anticipato. Era esperto di navigazione e di mercanteggio, ma mediocre geografo e matematico, infatti non conosceva l’esatta misura del diametro terrestre, già con esattezza calcolata da studiosi greci anteriori ad Eratostene; pertanto azzardò il suo viaggio e fortuna volle che s’imbattesse in terre a lui sconosciute ritenendole estreme propaggini delle Indie; errata convinzione mantenuta durante tutti i suoi viaggi. I viaggi gli venivano in buona parte finanziati da famiglie liguri dell’influente notabilato ebraico mercantile con le quali era imparentato, e non estranea la potente famiglia ebraica dei Cybo, convertita al cattolicesimo, di cui era autorevole esponente papa Innocenzo VIII (dal 1484), al secolo Giovanni Battista Cybo, figlio di Aronne, magnate genovese di rango senatorio investito di notevoli e prestigiosi incarichi sia a Roma che nel vicereame di Napoli. Da tal quadro si capisce bene per quale via e da chi giungevano al piccion viaggiatore i finanziamenti a tanta intrapresa e l’interessamento e l’appoggio dei potenti monarchi di Spagna e del Portogallo.

 

    Non abbiamo esagerato quando definivamo il Christophero del San Salvador uno yankee anzitempo, un americhèno precoce. Con la mente tutta immersa negli affari, pupillo e favorito di quei ricchi ambienti finanziari, che si muovevano tra i porti di Genova, del vicereame di Napoli, di Spagna e Portogallo e intorno alle potenti Corti iberiche, nonché e anzitutto nella Corte di tutte le Corti, in Roma, sul sacro soglio della Eclesiastica Paloma ove sui Vaticani montes dispiegava e ancor dispiega le ali il “destino manifesto” al cenno infallibile d’una diva provvidenza che, a suo volere e profitto, modella il fantoccio appropriato alle necessità del momento. Saint-Dié des Vosges in Francia con il Gymnasium, sottoposto alla vigilanza dell’alta prelatura della Santa Sede, i porti mercantili di Genova, Napoli e quelli portoghesi e spagnoli aperti sulle rotte atlantiche tutte da riscoprire, i cristianissimi re e l’alta finanza in mani biblicamente esperte e devote, tutto questo converge in Roma, sulla Eclesiastica Paloma e sulla sua intrapresa traversata dal Medioevo alla Devozione moderna, e il balzo dagli affari crociati in Terra Santa ai promettenti business del Nuovo Mondo.

 

    Da quando s’era insediato in Roma, tra i ruderi della città abbandonata dai Quiriti, il paolottismo si raffigurò in una ‘ecclesia cristiana’ che in breve si istituzionalizzò in una Chiesa detta Cattolica, cioè ‘universale’, mostrando di voler emulare la romanità, larvatamente ricalcandone, e insieme contraffacendole, tracce e avanzi. Nell’antica Roma, sul Foro, s’ergeva il Tempio di Saturno, in esso era custodito l’Aerarium Saturni o Aerarium Populi Romani. Si trattava del Tesoro e dell’archivio finanziario del popolo romano.  Ma quel popolo ormai faceva parte del grande gregge cristiano, non poteva più possedere un erario. La Chiesa sì, erede di tanta universalità sulle tracce dell’incognita Urbe, ma biblicamente sollecitata e inclinata, poteva, anzi doveva coltivare commerci ed affari! E la pauperum Ecclesia? E la cassetta delle elemosine? Quel continuo tintinno dell’obolo in centinaia di migliaia di chiese e chiesuole! Un mero traslato che si riferisce al corporis expers, al privo di corpo, vale a dire a chi è expers sui, fuori di sé? Insomma, lo spirituale come inteso dalla ecclesiasticità e come gli uomini possono apprendere dai cosiddetti libri testamentari: vetus, novum Testamentum! E ciò dalla predicazione d’un certo Paolo di Tarso, ricco fabbricante di tende. Prima . . . no! Prima, un millennio all’incirca, il “vetus” era segreto e riservato soltanto a un piccolo popolo vagante da una terra ad un’altra, perché il resto del mondo era un mondo pagano, sconoscente il vero dio da remotissime età! Quel dio che era lo Jahvè Sabaoth, il capitano degli eserciti di Israele, il popolo giudaico che non possedeva eserciti, ma tutt’al più, come sappiamo dai tempi dei romani imperatori Vespasiano e Tito, bande di Zeloti fanatici che in armi conducevano una infida guerra di marca leninista in anticipo sui tempi (o era Lenin uno zelota posticipato?). Oddio, certo, qualcosa non torna!  In effetti, andavano scomparendo i popoli. Delle folle s’intendeva fare un solo immenso gregge. S’intendeva? L’opera di Roma era stata possente, occorrevano secoli per demolirla! Molti popoli sono scomparsi; anche qui, di recente in Europa. La globalizzazione, un solo, anonimo gregge! Poi, assimilare il restante in un tutto corruttibile, in un ascesso amebico. Un insieme, un attorcimento di terrenità umana indistinta, in un mondo subdesertico.

 

 

 

tu regere imperio populos, Romane, memento

 

 

    Roma si era dedicata con il suo valore guerriero e civile a foggiare civitates (nazioni) bene moratae et bene constitutae sul fondamento e per virtù dello ius e della pietas religiosa; quindi secondo iustitia et verecundia, con rispetto verso la divinità, gli avi, i padri, la patria, e oboedientia alle leggi, doverosa obbedienza, soprattutto da parte di chi i popoli governa. Questi principi di civiltà e giustizia (da non intendersi nel senso odierno strettamente laico) venivano acquisiti nel proprio patrimonio da genti che restavano libere, volendolo, di render lustro alle virtù avite, e conservando intatte le originarie caratteristiche distintive. Ammoniva Virgilio: “Tu regere imperio populos, Romane, memento (tu devi rettamente sostenere, o Romano, con l’imperio, i popoli)”. Non si trattava di dominazione e asservimento, non di espansionismo territoriale o commerciale, tantomeno politico o religioso (accrescimento ideologico, propaganda e conversione religiosa), il che sarebbe equivalso ad una occupazione. Per vero, imperium concerneva un ordinare o riordinare la realtà attraverso la manifestazione o la irruzione di forze spirituali che s’imponessero riportando l’ordine nel contesto turbato delle cose, la corretta stima della situazione concreta. Coerenza dunque ideale e spirituale calata nell’agire essenziale, alla luce dei valori tradizionali e delle virtù apprese, quelle mai tradite perché insite nella visione eroica della vita che già fu dei maiores, gli antenati: Tu, Romane, memento! Quando non c’è frattura tra spirito e realtà si può raggiungere la visione della eroica edificazione di un mondo, il cui aspetto materiale e bruto si trasfigura nel segno di una urbs aeterna, per l’agire in esso di forze divine e tutto ciò conseguentemente all’altezza di conoscenza, alla nobiltà e perfezione interiore realizzante il vir, la virtù operosa; e con la Città del Sole, a un tempo, si manifesta anche l’unità reale e l’universalità dell’imperio. Il sacrum Imperium che protegge i popoli dalla barbarie, debellando la superbia.   Divinus orbis sub lumine solis, nell’hyperboreo fulgore dell’intelletto attivo.

 

   L’integerrima fides ghibellina orientata alla romanità e all’eroico ideale imperiale riuscì ancora per l’intero medioevo a mantener viva in Europa l’orma pulcra – le gloriose memorie – dell’Urbe antica, contrastando il livore guelfo di matrice ecclesiale, infidamente levantino e istintivamente mercantile. Indelebile, fulgido ricordo – “Omnia perpetuos quae servant sidera motus/nullum videtur pulchrius imperium (Gli astri tutti nei lor perenni moti/non han veduto mai impero più bello)” – giunge dalla voce romana di Rutilio Namaziano, di stirpe gallica, che fu senatore e prefetto dell’Urbe nell’anno 414 e.v. In quei tempi tristi delle grandi invasioni, i Visigoti di Alarico avevano già saccheggiato Roma, nessun testimone meglio di lui ha vergato e saputo trasmettere l’alto senso del giusto agire e del valore civilizzatore, nella realtà terrena e in spirito, perennitas, del romanum imperium:

 

Fecisti patriam diversis gentibus unam,

   profuit iniustis te dominante capi,

dumque offers victis proprii consortia iuris,

   urbem fecisti, quod prius orbis erat.

 

   “A disperse genti una patria desti, /tu imperante giovasti ai senza legge, /partecipasti il tuo diritto ai vinti, / fondasti l’Urbe, ove all’inizio un mondo”. Volgendo i versi nel nostro parlato, abbiamo inteso rendere in sintesi, senza tradirlo, il senso più addentro del discorso poetico del romano Rutilio, la bellezza metrica è tutta intatta nel testo latino. Roma era sorta in un mondo indistinto, confuso, che precipitava nella barbarie e doveva necessariamente intraprendere un’opera immane di civiltà redentrice; nasceva per realizzarne il compimento; doveva restituire organicità, armonia, ordine, rigenerare le stirpi, ricondurre i popoli a la rinascita, iniziare un mondo. Al tempo di Rutilio, siamo ormai alla conclusione di questo eroico ciclo, un catastrofico rivolgimento incombe; ed ancora il poeta individua e celebra la deificante fusione tra i trionfi di Roma guerriera e la sua operosità legislatrice, contrasto/accordo, ma concretantesi in un’armonia feconda, tanto che “foedere communi vivere cuncta facis”, inverandosi altresì tra le genti una universa fides. In realtà, contrasto/accordo in una unità: “te, dea, te celebrat Romanus ubique recessus/pacificoque gerit libera colla iugo”. Qual suprema verità, espressa in questo distico virile!  “Celebra te, divina Roma, e te, Romano, ogni terrestre recesso reggendo su liberi colli il pacifico giogo”. Uomini ovunque liberi di agire, ma con l’onere del civis Romanus, l’onere dello ius e del fas; giogo, impegno gravoso, divin pondo. Il pacifico giogo del diritto umano, la legge, la regola, e del diritto divino, la norma, l’ordine. Una reale intesa, una firma concordia: la Romana pax e la pax Divom.

 

 

 

una superstizione

prava e sfrenata contro la realtà divina di Roma

 

 

    Ma gli uomini alla pace salda che li lega e unisce, spesso preferiscono la discordia, il disordine e il declino nel libertinaggio che produce la penosa tirannide; al fare divino, il libero, verecondo e giusto operare, antepongono l’affanno d’un travaglioso vivere.

 

    Atque utinam numquam Iudaea subacta fuisset

        Pompeii bellis imperiisque Titi!

    Latius excisae pestis contagia serpunt

        Victoresque suos natio victa premit.

 

    Sono i versi 395/398, ancora dal De reditu suo, con i quali Namaziano si duole delle guerre mosse ai loro tempi contro i Giudei da Pompeo e Tito; guerre che sottomettendo quelle regioni avevano provocato il dilagare d’una contagiosa superstizione; questa si era insinuata ovunque e continuava a diffondersi senza sosta; ed era ormai la nazione vinta a opprimere il vincitore. In vero, già negli anni 111/113, tre secoli prima, nelle sue epistole a Traiano, Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, parlava d’una superstitionem pravam et immodicam che pervadeva come un contagio non solo le città, ma anche i borghi e le campagne.

 

    La superstizione prava e sfrenata di cui parlava Plinio il Giovane agl’inizi del secondo decennio del II sec. di questa e.v. e la contagiosa peste dilagante negli anni 414 e seguenti, anni nei quali Namaziano descriveva la barbarie travolgente la civiltà romana, provenivano da un’unica instigazione, fomentata da un credo astratto e quindi da una religiosità devozionale, non limpida, ma involuta in un tortuoso, oscuro messaggio inteso  a trascinare gli animi, una collettiva turbata rimestatura di menti e sentimenti, in un rivoluzionario (nel senso di sedizioso, rivoltoso) messianismo, che nella versione cristiana si caricherà di profili e prospettive escatologiche. In un primo momento, difatti, il cristianesimo non fu un opposto cultuale, discordante, ma una delle varie tendenze della scuola giudaica, un indirizzo del moto religioso mosaico poggiante sul profetismo biblico e sulla cosiddetta “Rivelazione”, una teofania decisamente e pienamente libresca, e in più teso alla divulgazione in tono predicatorio di dettami, comandamenti e prescrizioni; il tutto contenuto in un LIBRO, Sacre Scritture, oggetto di venerazione e di culto da parte della gente giudaica, che giustappunto si riconosceva nel Popolo del Libro.

 

    Abbiamo visto che il Romano Impero attendeva all’universale, volgendo all’UNO, onde fare dell’universo mondo un COSMO, un vertice di gentilezza, armonia e decoro, non estraneo all’ordine divino, anzi in esso radicato attraverso il patrio mos e i patri culti. La latria giudaico cristiana incentivava, ha incentivato sempre, e ancor oggi unitamente alle consorterie massoniche e finanziarie, il cosmopolitismo, incrementando lo sradicamento mediante i movimenti migratori. I giudeocristiani, mostrarono subito la loro avversità all’ideale romano, alla REALTÀ DIVINA DI ROMA: l’immanenza d’un giusto Orbe retto e guidato dalla consapevolezza dell’assoluto; la natura del mondo, del cosmo con il suo ordine e le sue leggi, concentrata nelle potenzialità e ancorata alla verità della soprannatura; l’intervento del sopramondano, della conoscenza trascendente, nell’esperienza fenomenica; in buona sostanza, la divina Virtus operante nel governo del mondo. Un Orbe/Urbe, opera dell’Uomo quale significazione del MAXIMUM BONUM; un mondo di fortissimi Viri, Heroes, Maiores, Patres. A un ideale luminoso, libero, che si concretava in una esemplare realtà, si contrapponeva una sterile, comunistica fratellanza, un ‘cencioso umanismo’, con insito nichilismo apocalittico. E ciò proveniva da una credenza – fideistico convincimento – in una deità astratta; ipostasi questa in seguito reificata, e infine anche personificata e con grande strepito ed enfasi inserita nella storia umana, ma senza risultati positivi.

 

 

 

un concetto illuministico astratto – humanité

 

 

     Non trovate strano, amici e lettori, che in un’epoca, questa attuale, con enormi disuguaglianze, inumana per il disumanarsi dell’umano genere, e partecipi di ciò anche le biotecnologie con il transgenico, le neuroscienze e l’ingegneria genetica, la cibernetica et cetera, insomma complice l’artificium, l’arido tecnicismo, e in piena, totale assenza di un discorso sulle qualità (non più coltivate) che appartengono all’uomo, dei suoi dotaliindoles, animus, virtus, natura, fortitudo, audacia, ingenium et mores – organi di una conscientia (consapevolezza) provveduta di una mens pura et libera, di una proba fides et animi religio, non trovate strano che si straparli di “umanità”? Non trovate strano che si celebri tanto “umanitarismo”?  Che tanto s’inneggi alla filantropia e al solidarismo, questi eterni fantasmi? E, da tanto “umanitario” filantropico trasporto, qual nobile avveramento, qual prezioso compimento mai, qual buon risultato si è conseguito nel tempo, si è visto realizzare? Guerre, e addirittura mondiali, con diecine di milioni di morti e distruzioni nucleari; e poi ancora guerre, guerre, guerre e primavere di guerra e sempre discordia, minacce, sanzioni, embarghi. Atroce barbarie, inumanità. Il “Nuovo Mondo”! E la tanto enfatizzata “Humanity”? Inesistente, nella realtà. Fittizia, illusoria immaginazione. E tale resta, una balla!

 

   Nel Vocabolario della lingua Latina (Castiglioni/Mariotti, ed. Loescer) alla voce, humanitas, atis, f., troverete che con essa si intende la natura umana e tutto ciò che è conforme a tale natura, i sentimenti umani, mitezza, benevolenza, cortesia, comprensione, indulgenza, generosità, poi la cultura, l’educazione, la civiltà. Non troverete mai nel latino questo termine usato per indicare “il complesso di tutti gli uomini viventi sulla terra”; insomma non fungeva da nome collettivo e astratto; in tal ultimo senso si affermerà in seno al giudeo-cristianesimo allo scopo di precisare l’opera redentrice compiuta dal Cristo per liberare dal peccato la “umanità” (presunzione teologica di tale credenza) e riconciliarla con il dio della Bibbia.  Così andò per il concetto di “umanità”, che resta una mera, indeterminata congettura. Nella nostra lingua, poi, tal vocabolo nel significato di “genere umano” ricalca il francese humanité (cfr. Vocabolario Treccani); linguisticamente esprimendosi con tal termine collettivo un concetto illuministico meramente astratto, una filosoferia. Due momenti, accomunati da un ugual moto di base, la spinta a sviluppare un gregarismo remissivo, arrendevole, e quindi pseudoreligioso, comunistico, subculturale e con ambigue costumanze; una ignavia “umana” diretta a confluire in un anonimo, amorfo cosmopolitismo, precorritore dell’odierno globalismo economico-mercantile, astratto dai principi e dalle virtù che formano l’uomo reale; un collettivismo areligioso sprofondato in una superstizione catacombale, nel culto di una aliena aruspicina cabalistica predisposta per l’informatica e la cultura (!!!) commerciale e follemente orientata a una biblica visione del mondo spalancata su tutte le apocalissi.

 

 

 

genti avverse all’opera di Roma

l’aggressione al cultus humanus civilisque

 

 

    Abbiam detto della “superstizione prava e sfrenata” che Plinio il Giovane vedeva diffondersi nei territori dell’impero e del rammarico di Namaziano per la guerra con cui Tito domò la Giudea e che, a suo vedere, fu la causa di quella trista propagazione. Invero, Vespasiano e suo figlio dovettero per forza far fronte a quel conflitto; la rivolta, avviata dalle frange giudaiche più oltranziste e avverse all’opera di Roma (come anche tramanda lo storico ebraico Giuseppe Flavio), era divampata con violenza e minacciava di estendersi a tutto l’oriente, non risparmiando di travolgere gli stessi giudei e le altre popolazioni che non intendevano inimicarsi l’autorità di Roma. Non ci dilungheremo su quei lunghi anni di guerra che iniziò nel 66 con Vespasiano al comando delle legioni romane fino alla sua proclamazione ad Imperatore, inizio del gennaio 70, quando il comando passò a suo figlio Tito. Il nuovo comandante dopo lungo assedio nell’agosto del 70 prese Gerusalemme e il 9 dello stesso mese i legionari dettero fuoco al Tempio distruggendolo. Solo nel 73 poi cadde in mani romane la piazzaforte di Masada fanaticamente difesa da ribelli Zeloti. Alla vittoria romana seguì quella che è stata con enfasi sempre propalata come la grande diaspora del popolo israeliano nel mondo. Cerchiamo di precisare quel che davvero accadde. Indubbio è che molti fuggirono, soprattutto quelli che si erano prodigati ad organizzare la ribellione e una ostinata resistenza con le tattiche di guerriglia e le azioni di sorpresa, quali imboscate, attentati proditori ed altro. E la maggior parte di costoro presero la via della fuga con intenti di pronta, aggressiva rivalsa, cercando rifugio in quelle città del Nord Africa e sulle sponde greche e del mediterraneo orientale oppure interne; insomma in tutti quei luoghi dove avrebbero potuto avvalersi dell’appoggio dei loro correligionari: Alessandria d’Egitto, Cirene sulla costa libica, e in città della Syria, Tiro, Emesa, a Cesarea capitale della Cappadocia dove erano numerosi zeloti e giudeo-cristiani, della Cilicia come Tarso, dell’Asia minore, della Grecia, di Cipro ed altre. Ma molti furono anche coloro che non si mossero dalla Giudea, perché nulla avevano da temere.

 

    Flavio Giuseppe, che nella sua opera storica esprime spesso giudizi negativi sui capi della rivolta giudaica, scrive che costoro, quando in quegli anni di guerra conseguivano qualche insperato successo, ne traevano grandi speranze per un prossimo futuro. S’intende che questi fanatici continuarono nel loro estremismo a seminare e ingigantire nelle città della Diaspora l’odio contro Roma, un odio soprattutto religioso, suscitato e mosso ancor più dalla recente distruzione del Tempio. S’andavano quindi rinfocolando dappertutto grosse speranze alla ricerca d’una rivincita, non trascurando anche la stessa Palestina, che aveva subito la durata della guerra e le conseguenze della disfatta.

 

    Trascorsero pressappoco una quarantina d’anni. Traiano era riuscito, domando l’irrequieto Decebalo, a congiungere la Dacia (oggi Romania) all’Impero, ma non arrivò ad assicurare valide demarcazioni con le genti limitrofe. Si mostrava in quegli anni la notevole instabilità dei confini danubiani e di tutta la regione orientale, nonché una inquieta Mesopotamia stante la perdurante ostilità dei Parti. Traiano infatti nel 114 entrò con l’esercito in Armenia per organizzarla in provincia romana e sottrarla alla contraria influenza dei Parti. Le operazioni belliche intraprese dall’ Optimus Princeps in Armenia si prolungarono poi nella più gravosa guerra partica che vide le legioni romane occupare nel 116 Ctesifonte, la capitale di quel regno, e raggiungere il Golfo Persico. Mentre Traiano e il suo più valente generale, Lusio Quieto, erano intenti a tanta impresa, si manifestò, e in tutta la sua gravità, la ribellione della cosiddetta “Diaspora ebraica”, attizzata e guidata da capi religiosi seguaci del più settario profetismo escatologico e dai nazionalisti Zeloti, epigoni dei Maccabei; tutti appartenenti alle correnti messianico-apocalittiche. La ribellione investì la Cirenaica, l’Egitto, Cipro e tutta la Mesopotamia, non la Giudea dove fu contenuta dalla classe sacerdotale e dalla maggioranza della popolazione che da Nerva in poi aveva beneficiato di privilegi concessi dai Romani. In Egitto esplose per prima, ma nella sola città di Alessandria, scaturendo da una lotta intestina tra i giudei della Diaspora e gli alessandrini greci e giudei; in Cirenaica investì subitanea tutte le città e i villaggi oltre che la stessa Cirene, e così avvenne dappertutto nella Mesopotamia; e si trattò d’una ribellione violenta e sanguinosa. I Romani dovettero impegnarsi duramente per tener testa a una rivolta tanto estesa iniziata nel 115, ossia nel pieno della campagna partica, e che sarà domata solo nel tardo autunno del 117. Traiano non poté portare a termine le sue grandi operazioni militari, impedito dalla rabbiosa ribellione giudaica e anche perché nell’agosto di quell’anno ne sopravvenne la morte improvvisa a Selinunte in Cilicia. Soprattutto non si riuscì a consolidare quello che avrebbe dovuto essere il nuovo e più sicuro confine orientale, il confine danubiano. Un confine naturale, si può dire, per quell’ Imperium di Civiltà cui Roma, liberale datrice di diritto, associava le genti in un perenne cultus humanus civilisque, con le nazioni restituite ai propri dei purché non contrari ai mores. Il successivo imperatore Adriano, che non era un uomo d’arme, con una serie di compromessi ripristinò lo status quo, e di nuovo il confine arretrò sul Tigri e l’Eufrate. La furente aggressione messianica, scatenando tanto sobbollimento d’odio antiromano, aveva raggiunto l’intento di fermare il fausto proseguimento di romanizzazione in quelle regioni, così abbandonate, e sempre più nel tempo, all’influsso asiatico; vale a dire, alla mercé d’una indefinita barbarie, alla smarrente labilità levantina, fuori dalla solarità del romano iure. Ancora una volta però la rabbia aliena era stata domata e anche con il concorso della stessa Giudea, quella tranquilla, non avversa a Roma. Ancora una volta gli aggressivi Zeloti dovettero rinviare al futuro le loro speranze messianiche e infine modificare persino nome; ma senza rinnegare le profetiche pretese veterotestamentarie, eccoli, e sempre zelantissimi, prodigarsi con la buona novella a profilare e annunciare la fissa escatologica, il “Nuovo Mondo”! Da quel momento lo zelotismo si mutò in paolottismo.

 

 

*

 

   Siamo stati obbligati a questo excursus “storico”, rapido e conciso ma inevitabile, per tornare ora all’inizio del nostro racconto, a Yankèria. E adesso, due date che ci apparivano fra loro tanto distanti, le scopriamo addirittura prossime: 117 / 1492.  Quell’anno 117 in cui s’ impedì alle legioni di Roma di attestare uno stabile confine danubiano a salvaguardia dell’IMPERIO della nuda Verità: della civilitas e della fides, cioè mitezza e affabilità di costumi, e della iustitia, l’equo operare; lo stato dunque dell’uomo leale, giusto e costumato. Anno nefasto in cui una rivolta aggressiva e sanguinosa spianò la via alla gnosi giudaico-cristiana e all’affermarsi del paolottismo. E quel 1492, allor che il paolottismo saldamente da secoli al potere, nella veste guelfa e clericale, ma sempre sotto l’egida d’un credo messianico (già degli zeloti) bandì il ricordo del Medioevo ghibellino e impose la strania mentalità e i costumi del mercantilismo levantino con la fanatica fede nel “Nuovo Mondo”. E le genti tutte d’un siffatto orbe furono assoggettate alla latria in un astratto aldilà, fantastica raffigurazione d’un ‘altro mondo’, l’oltretomba, mentre un clero strapotente s’impossessava delle anime e della intera Terra. Sopraggiungeva il tempo dello straniamento, della grande alienazione.

 

   Prima di riprendere l’argomento proposto con il titolo, riteniamo qui opportuna una seria, recisa affermazione. Il cosiddetto “imperialismo americano”, ossia la politica di potenza e di supremazia militare degli U.S.A., finalizzato all’espansionismo economico-mercantile accompagnato da una dominazione culturale plagiatrice di mentalità e costumi che ha il suo tempio massmediatico a Hollywood, equivale a una mostruosa parodia di impero e ne sovverte totalmente l’idea. Misconoscendo i valori di civiltà e i contenuti politici essenziali, immutati e immutabili, della classicità greco-romana e della vera tradizione imperiale, tale ideologia demo-mercantesca, usuraia, ignora i principi metafisici, quelli assoluti, universali, trascendenti. E, privato di fondati validi principi, il mondo sprofonda nel caos.

 

   Alle spalle del parodico e del caricaturale con i popoli allo sbando, ma non più tanto nell’ombra, le tribolate, sinistre menti dei costruttori di cattedrali nel deserto!

 

                                                                                                       

 

gli Yankees – i grattacieli simbolo del ‘nuovo mondo’

 

 

   Una convinzione invalsa tra molta gente e dura da sradicare è che gli Yankee possiedano la vera democrazia, ovvero l’arte di governo la più perfetta, e siano una guida e un faro per il mondo intero. Così la pensano qui in Europa, e anche da noi, ritenendo sia l’unico modello cui attingere, gli entusiasti di Joe Biden, il 46° presidente americano attualmente in carica, e gli ammiratori di Donald Trump in giro a raccattarne i cocci d’una contestabile trombatura. A nostro vedere i vari Stati americani dei cosiddetti U.S.A., sono dei mastodontidi e spropositato è l’apparato federale centrale, statuale e burocratico, aberrante la condotta militare. Si è potuto constatare dalle vicende elettorali dello scorso anno, che la esemplare democrazia statunitense, fiaccola luminosa del mondo, comincia a mostrare tutte le sue pecche native, le sue crepe e le sue fenditure soprattutto al vertice del potere, dove il dissidio compenetra e sempre più s’interna in un organismo statuale artefatto, che fu già in origine una fondazione truccata, vale a dire progettata ed elaborata a tavolino; in breve, troppo astrattamente formulata per avverarsi in una realtà viva, distinta, da potervisi affermare una GENS, un popolo, una comune stirpe (e non soltanto nel senso biologico), insomma una polis vi potesse prender corpo con una propria cultura originale, autentica, realizzandosi così la nascita di una vera Nazione. Abbiamo quindi parlato d’un figurale mastodonte, intendendo appunto riferirci ad un esperimento fittizio – ma anche al risultato di un arresto: la fossilizzazione in idee e principi dell’ illuminismo  settecentesco falsi, ingannevoli – insomma un tentativo teso con arte astuta a giustificare una spinta rivoltosa, quale in effetti fu l’insurrezione d’una colonia, che fattasi padrona, con la strage dei nativi, d’un vastissimo territorio, rinnegava le proprie origini, separandosi dalla madrepatria. A tanto s’aggiunse un’altra maldestra truccatura. L’aggregabilità in una polis fu individuata nel puritanesimo, ma questo discendeva dal calvinismo ed esigeva una rigorosa austerità nei costumi; non s’è mai capito, difatti, come questo tipo di religiosità potesse apparentarsi e quindi correlarsi con il superbo secolo dei lumi che fin dall’origine promuoveva il razionalismo e il liberalismo e la fede nel progresso, con il superamento d’ogni rigorosa costumanza sino all’estremo libertinismo.  Il fine era proprio quello di generare un’alienante mistura, un insieme confuso e disordinato di genti, per plasmare e diffondere una cultura spuria, collettizia, e in parte mutuata da mentalità (concezioni, tradizioni, modi di vedere, costumi) sradicate dalle sedi naturali per essere trapiantate, una volta spaesate e disorientate, in aree e suoli estranei. Una intentata, fino a quell’epoca, e obbligata sperimentazione di straniamento di genti con le loro culture e fedi intenzionalmente provocata, e pertanto innaturale.

 

   In breve, si era scomodato un intero continente per ottenere il possesso delle immense praterie del nord; là, in estesi, interminati spazi, cui erano sconosciute le megalopoli, si costruiranno i grattacieli, l’altezzoso simbolo del Nuovo Mondo culla della globalizzazione, cioè di una unica, in dimensioni spropositate, biblica Torre di Babele.

 

 

 

  4 luglio 1776

la madre patria rinnegata – il world trade center

 

 

   Trascorsero poco più di duecento e ottant’anni dal memorabile 12 ottobre 1492, data in cui si fissava la damnatio memoriae, la cancellazione d’ogni traccia del Medioevo ghibellino per trasbordare l’umano genere nell’edificando Nuovo Mondo; ed ecco il fragore burrascoso d’un battito d’ali: precipite il destino manifesto s’abbatté sulla giornata del 4 luglio 1776: Stati Uniti d’America – giorno dell’Indipendenza! ossia il mito del Nuovo Mondo diventa di colpo una realtà. Dai tempi della biblica torre (quella della confusione delle lingue), nel 1885 a Chicago veniva edificato il primo grattacielo al mondo: l’Home Insurance Building. Un tempio alle speculazioni assicurative, ma poi ci sarà anche un tempio alla finanza bancaria, il Bank of America Tower, e anche al business mercantile, il World Trade Center, Centro mondiale del Commercio. Un invito alle menti umane a scostarsi dall’ancestrale, radicata raffigurazione del cielo inteso come sede metempirica, metafora dell’assoluto, dell’eterno, ma a concepirlo rudemente quale luogo da conquistare; quelle torri che bucavano il cielo significavano una materiale conquista, una rocambolesca arrampicata al potere sociale, come dare la scalata alle speculazioni immobiliari, finanziarie, commerciali et cetera et cetera.

 

   Il cielo che dapprima spalancava al singolo individuo, aspirante uomo libero, la via dell’assoluto e dell’eterno, quel cielo, nel subire l’affronto, si rapprese sull’umana superbia come una concrezione crostosa: nessuno aveva mai supposto, anche delle più alte montagne, ch’esse bucassero o grattassero i cieli. Il Nuovo Mondo alla nascita impiccioliva subitaneamente la mente dell’uomo, catturandola nel materialismo, e, rifiutandole il nutrimento della sostanza eterea, tutto d’un colpo la privava del lucente etra e dell’alma voce dell’ardente spiro; faceva dell’individuo umano, asservito ai bisogni, il mancipio della necessità, dell’ineluttabile che opprime, distoglie, trattiene le energie e di cui profitta il potente di turno, il puparo che padroneggia le masse, le masse tivvudiche, le masse appestate. Reciso il contatto con il cielo, l’unione al divino, all’individuo non resta altro da curare che la sua anima animale, quella che ricerca la soddisfazione degli appetiti materiali e docilmente s’asservisce a un padrone. Perso il contatto con il cielo, l’uomo smarrisce il Consiglio del Sole, Sol, che è Marspiter, che è Liber pater; privo della luce intellettiva, di forza e virtù interiore, gli viene a mancare il fondamento della vera libertà, il ricordo del divino essere. Nella misera condizione d’un individuo tra i tanti, dovrà contentarsi delle libertà convenute (infilate in una scartoffia) con la falsa Padronanza del mondo. Ma il Vecchione camuffato, e tanto navigato, quello del 117, del 1492, del 1776, continua indefesso l’approntamento d’un braccio armato, estremamente armato e zelante.

 

    Gli studiosi che si sono interessati alla guerra di secessione americana, combattuta in quelle terre dal 12 aprile 1861 al 23 giugno 1865 tra gli U S A e gli Stati Confederati d’America secessionisti con capitale a Richmond in Virginia, son tutti d’accordo a definirla la “prima guerra dell’era industriale”. Vi furono coinvolti i cantieri navali, le fabbriche civili, i trasporti, vi intervennero le banche e vi fu un grande sviluppo della tecnologia bellica; vi comparvero le mitragliatrici, le mine, persino i siluri; nei fatti armi micidiali, e trattavasi di guerra civile!  Altissimo fu il numero delle vittime, oltre 700.000, vi furono grande distruzione e rovine. I Confederati sudisti, costretti alla capitolazione dalla superiorità della macchina bellica nordista furono anche assoggettati a un regime di occupazione militare voluto dal presidente Andrew Johnson (succedeva all’assassinato Abramo Lincoln) che, appoggiato dal Congresso, aveva in mente un grosso progetto di ricostruzione a vantaggio dello sviluppo economico e d’una crescita demografica del nord. Era palese l’intenzione di avvantaggiare l’economia industriale e promuovere l’avanzata delle forze capitalistiche, ossatura e nerbo del Nuovo Mondo. Si voleva, insomma, l’avanzamento rapido d’una società progressista, laddove quel patto confederativo sudista, così ancora strettamente vincolato alle costumanze e alla cultura europea d’origine, sia nello stile di vita civile che nella disciplina militare, rappresentava un duro ostacolo. Una gente troppo legata alla proprietà terriera e alle colture agricole, ancora nostalgica del vecchio corporativismo d’arti e mestieri, con scarso talento mercantile, priva d’iniziativa speculativo-finanziaria, non poteva rappresentare altro che un pessimo esempio d’arretratezza, un intralcio, uno strascico d’oscurantismo feudale, medievale. Nel mito del Nuovo Mondo andava finalmente incorniciata la favola bella degli Stati Uniti d’America! Il paese primo nel mondo per produzione industriale, quindi sempre più dominante per la presenza d’una agguerrita concentrazione industriale e finanziaria. Con i grandi grattacieli andavano anche edificandosi i Trusts, strapotenti “imperi” economici a capo dei quali famose casate di capitalisti come i Morgan o i Rockefeller che troverete citate, persino nei vocabolari, accanto alla dinastia dei Borboni. A questa mastodontica politica economica s’affiancò una insistente politica di crescita demografica che richiamò massicce correnti immigratorie; si riversarono in quelle terre (liberate dai nativi pagani) milioni di inglesi, irlandesi e germanici, cui seguirono in flussi successivi e sino al primo decennio del secolo scorso ancora milioni di individui, scandinavi, polacchi, russi, ebrei, italiani oltre a milioni di asiatici. Pertanto gli USA sono stati definiti la Nazione delle Nazioni e considerati una “peculiarità storica: un crogiuolo di etnie e di razze, un melting pot”.

 

 

 

la new city – cartagine contro roma

 

 

   Trasferito su un suolo estraneo (quanto sopra accennato vogliamo qui scrutarlo più a fondo), costretto a fondere le proprie origini e cultura e fede in un comunistico crogiuolo di etnie le più disparate, l’individuo si farà nell’intimo suo a confluent e di conseguenza gli s’imporrà in mente  una radicale trasmutazione; finirà con l’identificarsi in un eccesso, ossia in un “commisto”, che non è più l’individuo di prima, ma una inconscia contaminazione di indoli originarie travolte in una confusione di significati, di idee e valori; ne deriveranno caratteri alterati, disvalori, con  il contemporaneo impiantarsi e diffondersi di volubili pseudoculture in una società da subito deprivata di armonia, confusa in un labile amalgama di costumanze svariate, quindi rapita in una ibrida, alienante condotta di vita. Questo “commisto” sociale fungerà da valido nutriente per forgiare l’animo, il carattere d’un popolo?  No, di certo! Mancando di naturalità, non essendo in ordine con le leggi di natura, un processo di tal fatta, anomalo, sforzato, insincero, più che ad una sana digestione, ossia corretta assimilazione, somiglierà, per tanto aberrante, dissennato abuso cosmopolita, ad una bruta indigestione: incertezze, contraddittorietà, incoerenze, e ostinatezza, accanimento, insistenza; in breve, discordanza tra esterno ed interno, squilibrio. Non la nascita d’una nazione, ma il confluente di molteplici incroci, una mistione di genti affollate in un organismo sociale grossolano e artefatto, un volgo indistinto; massa greve, vacua di bellezza e d’armonia, di solare consiglio ignara e di giuste maniere per un ordinato procedere, scevra di regola interna. La moltitudine degli Yankees, gli statunitensi, il cui agire è abitualmente incalzato da un ritmo di vitalità ossessivo: demonica intraprendenza, estrinseco efficientismo! Eccessività! Dismisura!

 

    I Presuli, i Soprastanti neo-veterotestamentari, ben edotti, s’erano rifatti nimio obsequio alle creazioni adamitiche, alle sperimentazioni di ceppi umani, alla formazione di popoli concepiti nei biblici Eden . . .  Mondi lustri e nuovi? Macché! Vecchissimi, quanto la barba dell’arcibisnonno dello stipite di Abramo! Quale abissale lontananza dal Romulum Asylum (luogo inviolabile dalla confusione e dalle infernae turbae), quale irraggiungibile distanza dalla divina opera fondativa realizzata nella casta visione, spirituale ed eroica, dell’arcaica Roma!

 

    Quando si tratta degli Yankees, or appunto, l’attenzione converge su una società convulsionaria, nient’affatto giovine, piuttosto smodata, apparentemente puritana e pacifista, indubbiamente non guerriera, ma aggressiva sì, e dunque guerrafondaia. E tanto richiama alla memoria il tenebroso imperialismo punico che consisté in una politica di potenza rivolta all’espansionismo economico, e quindi ad un’egemonia marittima supportata da milizie mercenarie sottoposte al comando del congenito corruccio dei Barca, la truce dinastia dei generali di Cartagine.  Cartagine, in lingua fenicia significa Città Nuova! Questa New City, dal 264 al 146 a.e.v., con ostinata rabbia e cupo odio condusse tre feroci guerre contro l’Urbe Eterna. Vinsero i figli di Liber pater, il Nume solare e primus auctor triumphi, contro il mercantilismo e il mercenarismo dei devoti di Baal il Signore, iddio di Canaan, e di Melkart, divinità protettrice dei traffici e dei materiali interessi. Sì, fu lunga e dura guerra, ma alla fine la New City fu sconfitta e debellata la sua superbia.

 

 

 

Mr. Polke – il destino manifesto

 

 

    Frattanto . . . Correva l’anno 1845, anzi siamo alla fine di quell’anno, è il 29 dicembre, e il Congresso Statunitense vota a favore dell’annessione della Repubblica del Texas, che così entra a far parte degli United States; covava in questi ultimi infatti da tempo l’intenzione di fissare la nuova frontiera sul Rio Grande con l’annessione anche della California messicana. Tutto ciò naturalmente risultò sgradito al Messico, che subì anche la provocazione d’un grosso schieramento d’armati statunitensi alla sua frontiera. Gli sventurati messicani commisero il torto di rispondere con un’insignificante scaramuccia a quella minaccia, e le Uniformi verdi ricevettero l’ordine d’invadere il Messico che, travolto da un’inaspettata furia bellica, si ritrovò anche la capitale, Città del Messico, occupata dai Gringo. Contuttociò il popolo messicano continuò a resistere, opponendo una strenua difesa. Interi villaggi furono   saccheggiati e incendiati, i civili subirono le violenze e i metodi brutali degli invasori, che causarono al Messico un alto numero di vittime oltre alle enormi devastazioni. Questa fu la “guerra Messico-Stati Uniti” che iniziata nell’aprile 1846 si concluse il 2 febbraio 1848 con la resa del paese invaso; il Messico perdé il 55% del suo territorio e ne uscì dissanguato con oltre 25.000 vittime, ed economicamente disastrato. Quella sanguinosa guerra fu anche detta la guerra di Mr. Polk.

 

    James Polk era l’11° Presidente degli United States, in carica dal 4 marzo 1845 al 4 marzo ’49, poco più che quarantanovenne al momento dell’elezione, proveniva dal partito democratico; considerò un evento provvido la sua investitura e visse il periodo della sua Presidenza come un’alta missione ritenendo persino di incarnare la volontà di espansione, e non solo territoriale, di quel nuovo popolo. Tra l’altro il candidato Polk aveva pur promesso, per vincere, l’espansione degli USA verso l’ovest e le sponde del Pacifico alla Yankeeland, la terra conquistata dagli Yankees, un suolo usurpato. Quel Nuovo Mondo e quella nuova gente dovevano vivere e prosperare nella dimensione continentale di territori estesi tra due oceani; un preannuncio del sogno mondialista, precoce aspirazione al globalismo. Nel vivere intensamente tal missione Polk era coadiuvato dalla moglie Sarah, rigida presbiteriana, che aveva introdotto a “Corte” le costumanze e le regole inflessibili di questa Chiesa cristiana, diretta erede del calvinismo.  Essendo un fautore dell’espansionismo ebbe un ruolo preminente come comandante in capo degli eserciti nella guerra contro il Messico e fu responsabile di una guerra ingiusta che vide uno Stato economicamente solido e forte in armi aggredire una nazione povera e inerme e portarle via il 55% del territorio.

 

    Sta di fatto: non era una fortuita combinazione che nella mente di Mr. Polk fosse racchiuso, e prevalente su tutto, il concetto di “Destino manifesto”, e che sua precipua missione fosse di porre le fondamenta territoriali, lo spazio vitale necessario all’Ente statuale e alle genti che tal destino dovevano realizzare, nonché indicarne e disegnarne una configurazione geografica che alludesse ad un’amplitudine significante una universale dominazione. Il “Destino manifesto” nel progettato Nuovo Mondo che andava realizzandosi, e di cui il clero più forte del mondo, composto dagli eletti che quella “sorte” avevano e hanno in pugno, promuove instancabile la suggestione! Non per caso al suo fianco era una donna, ferrata paolottista-presbiteriana, e che per la carica ricoperta potesse pienamente compiere quella missione. Era giunto il tempo che gli era dato e ci pose tutto il suo impegno, ci profuse tutta la sua energia. Mr. Polk morì circa tre mesi dopo la conclusione della sua Presidenza, all’età di 53 anni. Nella annessione del Texas e nella vasta espansione a sud e ad ovest ci furono le sinistre premesse di quella che fu la secessione sudista, circa un decennio dopo, aprile 1861, con la terribile guerra di cui abbiamo detto sopra. Ma la comparsa sulla scena USA e la Presidenza di James Knox Polk negli anni 1845/49 fu un evento ineluttabile; il suo irremovibile credo nel “Destino manifesto” e nella missione cosmopolita degli United States, nel senso di assorbire il mondo intero in una mondializzazione biblica, ci riporta a Saint-Dié des Vosges, nel nord-est della Francia, all’Abbazia di San Deodato e al canonico Vautrin Lud con il suo cenacolo-officina del Vosges Gymnasium, ove fu composta la Cosmographiae Introductio con la Grande Carta del mondo, ivi edite il 25 aprile 1507 con inciso per la prima volta un nome: America! Il tutto sottoposto alla vigilanza dell’alta prelatura della Santa Sede.

 

   Non è insignificante o di poca importanza che Harry Truman, 33° Presidente USA successo nella carica, il 12 aprile del 1945, allo scomparso Franklin Roosevelt, grandemente stimasse James Polk. Era trascorso un secolo più un mese dall’elezione del suo antico predecessore e Mr. Truman, il bombardatore atomico, sentiva intimamente una sì forte prossimità e, espressa anche nei fatti, affinità di missione con Mr. Polk. Con gelido comando e inflessibilità l’11° Presidente aveva condotto la guerra contro l’inerme Messico, con altrettanto gelido tono Harry S. Truman annunciava alla radio: “Sappia il mondo che la prima bomba atomica è stata lanciata su Hiroshima, una base militare.” L’atomica, per vero, era stata sganciata su una città indifesa, colpendo l’inerme popolazione civile d’un Giappone ormai anch’esso inerme, e per la cui difesa estrema si sacrificavano giovani kamikaze. Il secondo attacco nucleare colpì tre giorni dopo, il 9 agosto 1945, la stremata città di Nagasaki. Fu un monito al mondo intero, ancor più corroborato negli anni seguenti con continui annunci, a iniziare dal 1946, e sperimentazioni di ordigni nucleari sempre più distruttivi; come poligono di tiro fu individuato l’atollo di Bikini nel Pacifico, che sgombrati gli abitanti, ha sofferto il flagello di numerose esplosioni atomiche, comprese quelle delle devastanti bombe nucleari all’idrogeno. L’atollo a tutt’oggi rimane inabitato.

 

 

 

vedere la storia – scorgere le segrete mene

 

 

    Non rincorriamo la storia e non crediamo ch’essa sia maestra di vita, soprattutto come intesa e trattata nel senso oggi corrente di uno studio settoriale, specialistico, un punto di vista scientifico del tutto moderno che implica segnatamente vana cerebralità. Una guida la riteneva il Machiavelli, egli credendo immutabile la natura umana, vedeva le presenti situazioni analoghe se non identiche a passate congiunture. Gli si opponeva il Guicciardini che da parte sua constatava una impossibilità per i singoli uomini di intervenire nel corso degli eventi al fine di modificarli, per gl’infiniti modi in cui essi si presentano. Nel ritornare sul delicato argomento, oggi complicato dall’imposizione dei “giudizi storici indiscutibili”, noi ci rifaremo direttamente a Cicerone; infatti, da un suo famoso passo leggibile nel De Oratore è stata estratta l’abusata locuzione “historia magistra vitae”. Sostiene Cicerone che tale è la storia se essa testa i tempi, vale a dire se richiama con viva luce alla mente dei posteri i trascorsi fatti nella nuda loro realtà; insomma, quando in fatti ‘storici’ precedenti, gli antefatti, viene ravvisata la causa degli accadimenti postumi, e una memore visione svelatrice persuade la mente indagante. C’è infatti un ante e un postea; quae (multo) ante acta sunt, vi sono fatti che avvengono prima o molto prima, e avvenimenti che a quei fatti conseguono, avvicendandosi nel tempo. L’antenato fu; dei molti suoi discendenti nel succedersi dei tempi, c’è sempre un postero oggi vivente. La storia, tal quale mito, parola, discorso, è racconto attuale, in quanto giunge da un’antichità ancor vivente, dato che nell’uomo tutto perdura. La storia dunque è maestra di vita allorché l’uomo riesce a recuperare appieno la propria memoria, e, nel ricordo di sé, distingue il vero dall’artefatto. Solo in tal caso, nella mente e nel cuore del VIR, essa è visione; visione nel lume fermo della verità. Il termine historia ha radice indeuropea, id” “vid”, da cui il latino video, vedo e quindi so e sono in grado di giudicare, di riconoscere e affermare la idea giusta. Pertanto evitando clamori, propagande, scontri di voci, cerchiamo di porre attenzione ai nudi fatti e all’agire dei protagonisti e di non smarrire il filo del discorso coperto, e ancor più, là dove s’appalesano finanche le segrete mene di quelli che “sapendo” possono e vogliono.

 

    E tornando all’inizio di questo scritto, ci accorgiamo di non aver sbagliato a ritenere che il nome dato al Continente ritrovato dal Vespucci Amerigo sulle orme del Christophero, orme tracciate dalla Ecclesiastica Paloma, era un nome ricercato e a tavolino, innaturale per una Terra di remota antichità con popolazioni numerose, di complessa civiltà, che pur doveva avere il suo nome, volutamente nascosto e perciò rimasto sconosciuto.  America!  Questo nome inatteso, sorprendente, esercita un’ecclesiale fascinazione, annienta d’un colpo un intero antico mondo spiritualmente altro, libero, remoto, pagano, una gente da calunniare ed estirpare senza remore come reietta, retrograda, selvaggia. America, un nome per un Nuovo Mondo!

 

    I favolosi Stati Uniti d’America, fondati dal padre Abramo tramite i suoi discendenti, i Pilgrim Fathers, cristiani puritani scampati alle persecuzioni religiose in Europa, con l’intervento anche di operatori massonici profondi conoscitori dei miti ebraici veterotestamentari, stavano per realizzarsi. Siamo agli inizi della colonizzazione, nella terra degli indiani Massachusetts, dai quali i Padri Pellegrini appresero la coltivazione del mais e di altre specie vegetali sconosciute agli Europei; mentre questi ultimi prosperavano in quei fertili luoghi, i nativi, colpiti da continue epidemie di vaiolo tra il 1617 e il 1633 scomparvero dalla faccia della terra che stava per mutarsi in Nuovo Mondo. Di certo quei forestieri non giovarono alla salute della gente indigena, prima del peregrino arrivo costituita da vigorosi e solerti agricoltori.

 

    Proprio sulle terre dei Massachusetts e degli Algonchini del Connecticut, cioè della ‘Terra lungo il fiume delle maree’, si adunò il primo nucleo di colonizzatori, che negli anni andò sempre più accrescendosi, e quel territorio infine prese il nome di New England.

 

 

 

lo Yankee – un eccesso sul territorio dei nativi algonchini

 

 

     La Nuova Inghilterra, che affaccia sull’Atlantico, è oggi un’ampia regione nord-orientale degli USA costituita da ben sei Stati, di cui due comprendono le suddette terre di prima colonizzazione. Non ci dilungheremo, ma occorre aggiungere che precisamente in quella regione nacque, suscitato da cultori di miti biblici neo-veterotestamentari e da praticanti delle cabale massoniche, il progetto di indipendenza. Un progetto volto alla formazione di un’etnia diversa, singolare, definitivamente svincolata dalla madrepatria europea, il cui prescritto intento doveva consistere nel proiettarsi e trasferirsi in un Nuovo Mondo; persino slegata, dunque, dal suolo stesso in cui si trovava a vivere. Un modello di individui e di suolo in cui si riuscisse a verificare il drastico, radicale annichilimento di ogni ancestrale orma, la cancellazione dei caratteri ingeniti. Un definitivo distacco dalla vecchia Europa e dai suoi percorsi ideali che risalivano al medioevo ove ancora vigeva il modello romano. Un’etnia anonima su un suolo anonimo, una gente forestiera su una estranea terra, un’etnia cosmopolita con unica matrice i testi escatologici giudeo-cristiani. La teologia escatologica del Nuovo Mondo. Un prototipo ‘illuministico’ da imporre poi sull’ intero orbe.

 

    Il termine Yankee si originò e si diffuse proprio in quei territori della New England e la sua origine è rimasta oscura, comunque comparve molto prima della Guerra d’indipendenza. Alcuni hanno ritenuto trattarsi della deformazione o contaminazione dell’aggettivo ‘English’ nel linguaggio dei nativi Algonchini, forse avvenuta involontariamente. Volontaria o involontaria, se opera degli Algonchini, è la denominazione appropriata; chi meglio degli indigeni, secolari abitanti di quei luoghi, poteva identificare quei forestieri e con l’intuito degli spiriti arcaici, quell’intelletto che va diretto al fondamento delle sostanze, comprendere il contenuto, il senso e il valore di quella sopravvenuta realtà che si presentava alla loro vista? Una gente che regolava la propria esistenza sulla interpretazione di messaggi contenuti in un libro e non su segni viventi, una gente che veniva da lontano, aveva abbandonato la propria terra e dimenticando le avite cure lasciava al nero oblio i propri antenati. E con la massima indifferenza! Gli Yankees. Questo è il motivo per cui non ci siamo lasciati convincere dall’uso diffuso nel nord Europa e soprattutto in Finlandia del nome Yankeeland con riferimento ai territori degli USA, perché quella non è la terra degli Yankees, è una terra usurpata ai nativi, con il genocidio. Gli Yankees non hanno patria. Perciò abbiamo preferito questa loro condizione nominarla Yankèria. È uno Stato? Sì, è lo Stato, la situazione, la condizione degli abitanti il Nuovo Mondo!  È la Globalizzazione!   

 

 

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SULLA PIETRA BIANCA è il titolo di una singolare opera dello scrittore francese Anatole France apparsa nell’anno 1905. Lo scrittore racconta che alcuni amici francesi nelle serate di primavera si incontravano nel Foro romano da poco dissepolto, ospitati nella casetta del direttore degli scavi, l’archeologo Giacomo Boni; vi si intrattenevano a lungo sui problemi politici, ma anche religiosi e filosofici di quel tempo spesso anticipatori anche delle bufere che si preparavano. Noi qui riporteremo parte del discorso di uno dei protagonisti tratto dal capitolo IV e nella traduzione di G. Marcellini, edizione B.U.R. del dicembre 1961.

 

Pur supponendo che l’Europa diventi pacifica, non vedete che l’America diventa guerriera? Dopo Cuba, ridotta a repubblica vassalla, e l’annessione delle Hawai, di Portorico, delle Filippine, si può negare che l’Unione Americana non sia una nazione conquistatrice? Un pubblicista yankee, Stead, ha detto, applaudito da tutti gli Stati Uniti: ‘L’americanizzazione del mondo è in marcia’. E Teodoro Roosevelt sogna di piantare la bandiera stellata nell’Africa del Sud, nell’Australia e nelle Indie Occidentali. Roosevelt è imperialista e vuole un’America padrona del mondo. Sia detto tra noi, egli medita l’Impero di Augusto. Ha avuto la sventura di leggere Tito Livio e le conquiste dei romani non lo fanno più dormire. Avete letto i suoi discorsi? Sono bellicosi all’eccesso. ‘Amici miei, battetevi,’ dice Roosevelt, ‘battetevi terribilmente. Non c’è altro di buono che le fucilate; non si è sulla terra che per sterminarci a vicenda. Quelli che vi diranno il contrario sono individui immorali. Diffidate dagli uomini che pensano. Il pensiero infiacchisce. È un vizio francese. I romani hanno conquistato l’universo. Poi lo hanno perduto. Noi siamo i romani moderni.’ Parole eloquenti, sostenute da una flotta di guerra che sarà ben presto la seconda del mondo e da un bilancio militare di un miliardo e cinquecento milioni di franchi!

 

 

I yankees annunciano che tra quattro anni faranno guerra alla Germania. Per crederli bisognerebbe che ci dicessero dove pensano di incontrare il nemico. Tuttavia, questa follia ci deve far riflettere seriamente. Che una Russia, suddita di uno zar, che una Germania, ancora feudale, mantengano eserciti per le battaglie, è cosa che si può essere tentati di spiegare con la continuazione di antiche abitudini e la sopravvivenza di un crudele passato; ma che una democrazia nuova, gli Stati Uniti d’America, un’associazione di uomini d’affari, una folla di emigranti di tutti i paesi, senza comunanza di razza, di tradizioni, di ricordi, perdutamente gettati nella lotta per il dollaro, si sentano d’un tratto trasportati dalla frenesia di lanciare torpedini contro i fianchi delle corazzate e di far scoppiar mine sotto le colonne degli eserciti nemici, è una prova che la lotta disordinata per la produzione e lo sfruttamento delle ricchezze alimenta l’uso e il gusto della forza brutale, che la violenza industriale ingenera la violenza militare, e che le rivalità mercantili accendono tra i popoli odi che non si possono spegnere che nel sangue.

 

    Al militarista Teddy Roosevelt che nel 1898 a Cuba, nella facile e breve guerra contro la Spagna, conduceva di persona in battaglia il reggimento al suo comando e convinto promotore di politiche aggressive e interventiste, venne assegnato nel 1906 il premio Nobel per la pace. Il bellicoso colonnello, 26° Presidente USA, immaginava un dominio yankee esteso al mondo intero e di tale missione si sentiva investito. Quando in Europa scoppiò la Grande Guerra, non dimentico delle sue battaglie cubane, si batté strenuamente per un intervento degli eserciti statunitensi sul suolo europeo. In quel tempo, però, 28° Presidente in carica dal marzo 1913 era il signor Woodrow Wilson. Di carattere opposto al colonnello Teddy, il malaticcio Woodrow era piuttosto pavido e molto titubante; ma, guarda caso, il pacioso 28° non era meno immaginifico del battagliero 26° e anch’egli si rappresentava gli USA in una posizione dominante sullo scacchiere internazionale.

   In tali recisi termini dichiarava i suoi propositi espansionistici e le sue intenzioni soverchiatrici, nell’aprile 1907, parlando a giovani studenti americani in una lezione presso la Columbia University: “Dal momento che il commercio ignora i confini nazionali e il produttore preme per avere il mondo come mercato, la bandiera della sua nazione deve seguirlo, e le porte delle nazioni chiuse devono essere abbattute… Le concessioni ottenute dai finanzieri devono essere salvaguardate dai ministri dello stato, anche se in questo venisse violata la sovranità delle nazioni recalcitranti… Vanno conquistate o impiantate colonie, affinché al mondo non resti un solo angolo utile trascurato o inutilizzato”Pertanto non trascurava di imporre l’imperialismo yankee sulle Nazioni dell’America latina, militarmente deboli ed economicamente stremate, così intervenne manu militari dal Messico alla Repubblica Dominicana ove furono in più compiuti numerosi massacri. Fervente devoto, dedito alla quotidiana lettura della Bibbia, pur se imbelle in fatto d’armi, si sentiva investito della missione divina di dover condurre gli USA a soprastare dovunque nel mondo per soprintendere ai destini delle genti. Quando scoppiò la Grande Guerra, quindi, pur mantenendo la neutralità, non trascurò di promuovere l’addestramento di tre milioni di soldati e infine di infilarli nel conflitto con la dichiarazione di guerra alla Germania  del 6 aprile 1917; il pretesto fu il ben conosciuto incidente del transatlantico inglese Lusitania, che partito da New York stracarico di materiale bellico, nel maggio 1915 mentre traversava le acque irlandesi venne colpito dal siluro di un U-20 germanico con conseguente deflagrazione dei munizionamenti stivati a bordo, causa delle numerose vittime e della perdita del bastimento. Il Lusitania quindi era attrezzato per la guerra, non era una nave inerme. Nonostante fossero entrati tardi nel conflitto, sconfitti gl’Imperi centrali, alla Conferenza di pace di Parigi, su un’Europa in rovine, dissanguata e stremata, gli Usa s’ imposero come potenza dominante, sostituendosi come Nuovo modello politico ed esistenziale sulla scena politica del mondo. Inoltre gli Yankees avevano ottenuto la definitiva assimilazione dell’intera e numerosa popolazione d’origini germaniche esistente negli United States; questa era restia ad abbandonare usanze, costumi e cultura dei paesi d’origine, al punto che i germanici, ad esempio, festeggiavano addirittura pubblicamente il compleanno del Kaiser. La sconfitta provocò una crisi traumatica di smarrimento, purtroppo irreversibile; gli immigrati di etnia centreuropea mutarono di colpo e presero ad anglicizzare i loro nomi e cognomi, trascurando la loro cultura, fondendosi ed uniformandosi del tutto alle usanze yankee.

 

   La Seconda Guerra Mondiale ha infine imposto il predominio degli Yankees nel cuore dell’Europa, le immense distruzioni e la desolante, brutale invasione ha invigliacchito le genti d’Europa e asservito le loro classi dirigenti; sono regrediti e imbarbariti i costumi; sono scomparse, sotto il peso della denigrazione, le culture germaniche avendo, tra l’altro, subito una dura soluzione di continuità la cultura classica nei paesi latini compresa l’Italia, che in un vorticoso crescendo vede frangersi le sue più sacre tradizioni e calpestata la trascendente nozione dell’avito ius, per cui “tutti gli uomini virtuosi amano il diritto per sé stesso”, come scrisse Cicerone; la gente italica che con l’istituzione familiare rischia di veder travolta l’ultima vestigia, che ancor dura nell’animo del popolo, d’una religio e d’una patria pietas d’ascendenza Quirite.

 

   Sotto gli efferati bombardamenti di città inermi e le esplosioni nucleari dell’agosto 1945, credono i Soprastanti paolottisti, gli Zeloti di sempre, di aver sepolto l’eroismo dei vinti. E credono alfine l’Europa, che anche l’Europa, sia una terra per Yankee, con le popolazioni oramai assimilate, poco mancando all’agguagliamento totale. Da quell’estate non sono cessate le guerre e le stragi, tante guerre ed ingiuste e non mancano a tutt’oggi le minacce.  Il selvaggio vitalismo Yankee che l’europeo decaduto ammira ed esalta, invidiandone l’attivismo pragmatico e grandemente tecnicizzato che lo sostiene, si consumerà nell’ansia affaristica, nella sterilità del puritanesimo, nella fanatica e ipocrita retorica democratica e globalista che va esaurendosi in una politica litigiosa fino alla bellicosità, del tutto incapace però di edificare un nuovo ordine e una duratura civiltà. La preminenza nell’americanismo, come si è soliti chiamare l’attivismo yankee, d’una fede illimitata nel progresso contingente, ossia nella precarietà del temporale sull’impegnativo compito di operare alla crescita spirituale dell’uomo e delle società e civiltà umana, rappresenta la sua condanna; tanto più che gli Yankees si son lasciati investire d’una ipocrita missione, quella di offrire al mondo intero come vera, esclusiva religione, la latria giudaico-cristiana neo-veterotestamentaria, di cui viene sbandierata la ‘universalità’, pur oggi che, con ‘democratico’ malizioso fine, la si è voluta ancor più frazionata – ma solo per finta, una simulazione – in una miriade di chiese e chiesuole, in risalto  tra tutte la setta puritano-calvinista: “La grazia del Dio testamentario allieta coloro che han saputo materialmente accumulare grande ricchezza”. Magnificazione teologale dell’usurocrazia mondialista e della ideocrazia finanziario-mercantilistica propria dell’espansionismo USA.  Su queste chiese e sette cristiane, di tutte al vertice, il gesuitico e ben provvisto Soglio – sacer esto! – di Vatica.

 

    Ma l’antica leggenda è ancor viva in questa avita Saturnia Terra, e fulge e cinge di sacro mistero la nostra Mens, la ispiratrice divina, la italica, latina Minerva. Le Itale genti e con esse i popoli dell’intera Europa ancora torneranno a vivere d’uno spiro eroico ed ardente.

 

 

 

tubilustrium, XXIII di marzo dell’anno MMDCCLXXIV a.U.c.

 

 

 

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   PER GIUNTA. Redazione ANSA – NEW YORK  22 aprile 2021.Si legge la seguente notizia: “L’America esulta per Floyd, ma la polizia uccide ancora. Spari a morte contro una teenager afroamericana. Biden [Joe Biden, 46° presidente USA]: Il razzismo è una macchia, per l’anima del nostro Paese”.

 

   Detto dalle labbra della strage! Definitely, enduring blot! Una macchia indelebile.

 

   Redazione ANSA – Washington 06 maggio 2021. Riporta la seguente notizia: “USA, in South Carolina torna il plotone di esecuzione. I condannati a morte potranno scegliere tra la fucilazione e la sedia elettrica se mancano i farmaci per l’iniezione letale. Il provvedimento è già stato approvato dal Senato dove sarà necessario un nuovo passaggio prima della firma del governatore. La South Carolina diverrebbe così il quarto stato Usa a prevedere il ricorso al plotone d’esecuzione, insieme a Mississippi, Oklahoma e Utah”.

 

   Indulgenza puritana, longanimità, generosity of Yank Democracy!

 

   Su tali aspetti, però, è meglio lasciar la parola a personalità emerse nell’ambiente yankee, come aforisti e scrittori del calibro di Mark Twain o Ambrose Bierce, entrambi nati statunitensi e niente affatto convinti d’un vuoto moraleggiare e di una ipocrita esistenza condotta nell’ ossequio formalista alle scritture canoniche e biforcantesi tra bibliche superstizioni e la smania affaristica, di potere e di apparato. Su questo menzognero, confuso proporre l’esistenza riversò il Bierce il suo sarcasmo e andò a morire altrove; scomparve nel fuoco e nelle passioni impetuose della guerra civile messicana all’inizio dell’anno 1914 e non se ne seppe più nulla. Mark Twain fu un critico strenuo dell’imperialismo mercantilistico statunitense e della presuntuosa teoria del “destino manifesto”; riteneva ottima cosa se non si fosse giunti alla “scoperta dell’America” e derideva il biblicismo affaristico dei nordisti yankee; preferiva viaggiare per l’Europa, far lunghe soste in Italia, per respirare più affabile aria. Grande ammiratore di Twain fu nella prima metà dello scorso XX secolo lo scrittore e linguista Henry Mencken di Baltimora che su la scia di questi esercitò sulla società puritana statunitense la sua graffiante satira, non trascurando l’ipocrita sistema democratico che definì impietosamente “l’adorazione degli sciacalli da parte dei somari”.

 

   Cogliamo qui l’occasione di dire inoltre, ritenendone certa la possibilità, che tra le moltitudini yankees accada possano emergere particolari e ammirevoli personalità, uomini inclini per innata virtù, sofferta opera o interiore tribolo, pur se tra somme difficoltà, a ritrovare la loro vera origine e il patrio indispensabile ricordo. Con i sunnominati possono meritatamente ricordarsi Nathaniel Hawthorn, di Salem, narratore della prima metà dell’ottocento che, avverso all’ipocrisia puritana, sostando in Roma e peregrinando per le campagne umbre, ritrova nel profondo di sé le condizioni, gli elementi archetipici rappresentati poi nel Fauno di marmo, mirabile romanzo e soprattutto racconto d’un risveglio, indirizzante il suo animo alla ricerca della genialità latina. Risapute sono le vicissitudini di Ezra Pound, grande poeta del trascorso XX secolo, sottoposto a disumane umiliazioni ed estreme costrizioni, fu poi addirittura recluso per dodici anni in un manicomio criminale dagli statunitensi, che tuttavia non riuscirono a sradicare la sua autentica disposizione interiore, la sua inclinazione a dar pieno compimento in sé a una cultura di respiro europeo e quindi ai valori spirituali di segno classico, prettamente greco-romano. Liberato nel 1958, soprattutto per la pressione esercitata in suo favore dagli ambienti dell’alta cultura e a livello internazionale, se ne venne in Italia dove aveva già trascorso gran parte della sua vita. Ad un giornalista che, al suo arrivo, gli chiedeva del suo stato d’animo una volta uscito dal manicomio, rispose: “Non ci ero uscito; quando ho lasciato l’ospedale ero ancora in America, e l’America è tutta un manicomio”.

 

    È indubbio: nella vantata Yankèria si respira un’atmosfera da manicomio. Quel Nuovo Mondo, che ha esteso i suoi massicci tentacoli sul globo intero, compresa la Cina “rivale”, è davvero un’abnormità, un eccesso, come sopra, nello scritto, l’abbiam definito, nel senso d’una gigantesca dismisura. E in quella dismisura si agita la caotica indefinita primordialità dei mastodonti o, a dir blando, gli impulsi incontrollabili d’una qualunque età primitiva. Pertanto l’americanismo degli europei e qui in Italia quello praticato dagli italiotisti, oggi sovrabbondanti, è senz’altro una patologia che rasenta il disturbo dissociativo; inavvertitamente si modifica il proprio comportamento, si disattendono i patri usi e costumi, si disistima la cultura trasmessa, i modi di pensare, di giudicare del proprio mondo, si perde l’intesa con l’anima natia, si devia dal sentiero dei padri, si acuisce il contrasto. Conformismo oggi: essere e agire in conformità al modello yankee! Ma tutto questo viene da lontano, come abbiam visto nel racconto di sopra, e qualcheduno, con un sorrisetto malizioso, aggiunge: E ora, possiamo pur sospettare che ci abbia messo il suo zampino Vatica?  Con tutti quei fratacchioni produttori d’un pessimo vinello che si conserva negli orci Vaticani. Sì! l’atroce veleno di cui parlava ai suoi tempi Marziale. E con il Vaticum, quel venenifero licore, essi vanno preparando un distillato da cui ricavare un vaccino, risolutivo ai fini democratici di assicurarsi il consenso totalitario. Un vaccino da inoculare (oltracotanza propria dei battezzieri!) borgata per borgata, uscio per uscio, al globo intero, a codeste folle insanite del Nuovo Mondo.

 

    Nuovo Mondo! briaco di superstizione e di pandemico spavento.

 

 

lunae dies, X di maggio dell’anno MMDCCLXXIV a.U.c.