GENTIUM IN LEONE SALUS

usbergo la fulva giubba ruggente

 

 

M E N D A C I U M

falsità frode menzogna

 

 

Magistra di alta virtù,

Incontrastata Verità,

Fa che la mia fida intesa

Non s’imbatta nella scabra menzogna!

                                                      Pindaro

 

 

    L’esatto senso della parola latina mendacium, ii, n., mendacio, nel volgar nostro d’oggi lo ritroviamo   distribuito in una serie di parole, “menzogna, bugia, falsità, finzione, inganno”, e, così spartito, ne risulta attenuato il grado di malvagità e perfidia e quindi anche la viperea tossicità; invece, in tempi passati era voce che cagionava una percezione di gran raccapriccio, quasi orrore, racchiudendosi nel mendace (mendax, acis, agg.), l’ingannevole, un che di esoso, quindi di losco e molto odioso. Ricercando, infatti, verifichiamo ancora che il vocabolo “menda” (menda, ae, f.), che pur ci rimanda a mendace, oggi è da noi usato soprattutto come sbaglio, menda, errore letterario e simili, in latino aveva il significato primo, originario, di macchia, imperfezione, difetto, avendo la stessa radice di mancus, a, um, agg., = monco, storpio, il mendosus che difetta di armonia nel corpo, ma anche perché sopraffatto dai vizi, e la stessa radice minus = meno, era indicativa del digradare, diminuire, abbassarsi. A questo punto non possiamo neanche tralasciare il verbo latino mentiri (mentior, iris, itus sum, iri), mentire, dire il falso e quindi falsificare, ovvero immaginare inventandosi cose false; e non possiamo giusto non accorgerci che alla radice di questo verbo è la paroletta mens, mentis, f., la facoltà intellettiva, l’intelligenza, il pensiero, l’indole, il carattere, la coscienza, la mente-anima, che il poeta Ennio e Cicerone ci tramandano anche in veste e funzione di deità, la dea Mente. Affermare il falso è lo stesso che trarre in inganno, pertanto il mentitore è un individuo dall’indole malvagia che ha disonesto carattere, perversa coscienza ed è altresì un corruttore del giusto pensiero, della valida ragione e della sanità mentale e psichica; da cui la dura locuzione latina mendacio fallere, ingannare con la menzogna. Perfidi individui, furfanti consumati in tal mala condotta, sono appunto coloro che “hanno perduto il ben dell’intelletto” a dirla con Dante, smarrito tutte le idealità, i trascendenti richiami e la pregiata simbologia di cui il paterno intelletto aveva costellato la loro anima, diventati dei miserabili (men-dici), alcuna provvidenza li assiste. Pieni di frode e d’inganno, chiusi in un ottuso egoismo, badano solo ai loro interessi, dileggiando il patrio onore e la civile concordia. Riconoscete in costoro la res mala che oggi domina il mondo? Intendiamo con mondo, il consorzio umano e le sue alterne vicende; occorre precisarlo, perché nella sua esaltazione globalista questa folle Cosaccia, una aggregazione di fanatici squilibrati, si picca di avere nelle proprie mani le sorti dell’intero universo. Oltracotante per il potenziale dei suoi arsenali nucleari, per i suoi missili atomici e bombardieri atomici e sottomarini atomici, pasciuta di stragi e distruzioni dall’alto dei cieli, suo vanto è aver dato inizio a l’Era atomica, il cristian-clero compiacente, tremolante il gregge, sebben già da molti secoli avvezzato ad esser trattato con rispetto. Breviter, in perpetuum? Già da lungo tempo, in ogni caso! E malgrado ciò, è meno scomodo per i pecoroni lasciarsi scannare gregatim (in massa) dalla immanis atomica belua, che esser disposti a lasciarsi sgannare, convincere uno per uno a invogliarsi per il meglio; disinteressatamente sgannare da un buonuomo, armato solo d’una penna d’oca e un vecchio calamaio, quandanche dovesse capitare.

 

-“Inhorresco!”- Ma no, tranquillizzi i suoi capelli, non si agiti! È la moda del giorno, passerà! - Donde è venuta, quella voce? - Persino il vuoto rabbrividisce, rizza i capelli e corruga la fronte!?!

 

della COSACCIA, il TIRANNO, e dei suoi PUPULI

 

   Spiacevole, ma è così! Tra miliardi di bipedi implumi, alcuni Replicanti, pochi Cyborgs dalla mente sgangherata, sconcia – una turpe Cosaccia fuor dall’umano cervello – sono riusciti ad impadronirsi di mezzo mondo soggiogandolo con il terrore; dappertutto tremano le membra, si piegano le ginocchia degli implumi mortali. E son secoli ormai, dagli zeloti agli zelonsci, sempre la stessa buffa, ma funesta, molto funesta, storia! Questi Replicanti mal costrutti, in sé disuniti, ma egoarchi e megalomani, personaggi da truce fantascienza, tuttodì intesi a mercar con menzogna, ad asservire i popoli al loro utile e tornaconto; adusi nei secoli alla propaganda massmediatica subliminale, oggigiorno rafforzata dal corrente progresso tecnologico, con tal infido mezzo, definito ipocritamente conversione, si sono impadroniti delle anime o coscienze dei mortali riducendole a fragile semenza: inconsci, subconsci, ombre sublunari e larve endogee.

 

  Settantasette anni fa, sei-nove-agosto-millenovecento-quarantacinque, un traumatico evento (trans, la stessa radice dei verbi latini e neo latini trapassare, trafiggere), il ciclone atomico, che colpì gli innocenti di Hiroshima e Nagasaki in modo sciaguratamente letale, con immane malvagità, cagionò e fissò nel tempo, per generazioni, una trafittura, lesione psichica, e una lacerazione animica nelle moltitudini e nella totalità terrestre. Il disumano, efferato atto fu disposto dal 33° presidente degli Stati Uniti, il sig. Harry S. (esse) Truman: S.(sic); toh, l’iniziale della parola serpe!  Solo per caso?  E Truman? TR, TAR, TRA e UMAN, in latino il dittongo AU si legge U e cosi in altre lingue i.e. Strane combinazioni? O chissà, intromissione, ingerenza della res mala, ovvero la Cosaccia? – Arri! arri là!  ̴ esss  ̴ esss  ̴ , sgroppa sgroppa!!! – Eh, la Cosaccia! Opera molto sulle paroline cabalate in enti numerici, sui simboli... e dappertutto si serve dei suoi pupuli, fantocci e fantoccine. Sì, anche qui da noi... I padri non contano più, via il paterfamilias, via i patres! Ricalcando Dante: Non isperate più veder lo cielo (Thèos, il Cielo, il Padre); e la speranza?... La speranza in giro col bavaglio! Non isperate salvezza, voi, già Italici un tempo! Res defraudatrice, la res mala; essa attraversa penitus, penentra radicalmente a fondo, i vuoti ricettacoli dei senzadio, ne fa la propria tana. Tempo è giunto di stanarla. Uomo destati, apri gli occhi! Torna al tuo dio!

 

 

  Mens sana in corpore sano. -Attente- o Uomo! Renditi conto del protervo, lungo fallare, dell’abbietto servaggio! Stai sveglio, vigila! Romane lotta pro legibus, pro libertate, pro patria! Occhio di falco e sii avveduto! Or dunque, la fraudolenta politica planetaria di questi anni? Anni pieni di frode e d’inganni! Le epidemie, il vaccinostile, l’emblematica mascherina di comunità, ovvero musoliera o mordacchia morbida e i tanti bavagli! ma soprattutto la gravosa, soffocante frustrazione. Povere genti deluse, logorate, imbruttite da anni di volgare democrazia esportata a suon di bombe; e la morte dal cielo, l’inferno dal cielo... infine il rombo orrifico: in atomo mors. Una ostentata vittoria, al fine di affettare una nobiltà inesistente; l’impiccagione degli sconfitti, per cancellare dalla Terra il “male assoluto”, eppoi ancora una lunga sequela di guerre, e ancora tanti tanti morti per una a oggi (non sentita, non accolta, non voluta, quindi...) inconseguibile pace...  Il mostruoso Mito!

 

 

  O piuttosto, una moderna contro narrazione catto-biblius o, precisiamo, addirittura un contro mito frustrante la stabilezza dei popoli europei, che dalla classicità, dalla luminosa radianza e retta misura dello spirito greco-romano, li ha precipitati in neri baratri, nell’oblio delle loro proprie culture, della loro ancestrale sapienza, spezzando brutalmente ogni legame coi padri, con l’esperienza tramandata e il sapere, coi venerandi costumi, con il giusto ed il bello. Costretti a condurre misera vita, senza la retta, appropriata ragione che l’opera accordi e le imprese dell’uomo al divino disegno; senza uno scopo nobile, senza la certezza d’un reale ed esemplare motivo. E le genti tutte defraudate, ingannate, senza più patria.

 

la GRANDE MENZOGNA

 

  L’ingente mendacità della promessa biblica d’un Nuovo Mondo, con l’annuncio che si sarebbe realizzata su l’intero pianeta una perpetua pace democratica, la pace degli evangelizzatori yankee e loro affini (populi-pupuli) la cui spiritata fortezza di lì a poco sarebbe discesa, senza dire né ahi né ohi, sui popoli del mondo con le colombidi ali del santo spirito. La più moderna, avanzata democrazia – superstiziosa, devastante credenza! – nel sistema solare dal giorno dell’esplosiva inaugurazione dell’Era atomica (disfacimento dell’essere quale terrestre organismo vivente, dissoluzione d’ogni forma) e una volta del tutto superata la morale esiodea da sorpassata Età del ferro, quando ancora alle gravose angosce e ai duri malanni potevano pur trovarsi misti dei beni.

 

  Così cabalando e complottando, han tramato la globalizzazione: un loro grande mercato planetario, un mercato caldo, turbolento, aggressivo, e lo hanno chiamato Nuovo Ordine Mondiale.

 

 Nuovo Mondo, senza alcun bene! E confusione e disordine. Nuovo, già, perché mai veduto prima!

 

 Ciononostante, sopravviene il giorno in cui la menzogna si disvela, giorno prossimo. Uomini di buona volontà, e semplice intento, con fida sincerità, allenano le loro facoltà conoscitive e richiamano alla mente non più asservita quei simboli e quei segni innestati nei loro cuori dal paterno intelletto e sin dall’origine posseduti dall’anima nella di sé profondità più divina, e onde la luce dell’intelletto conduce alla comprensione, alla visione reale dell’ordine sommo, dell’unità divina dell’Orbe. Aeternitas Romae.

 

S O L A R I T À

 

   Gli antichi vati ci hanno trasmesso l’aureo principio dell’indistruttibilità dell’ESSERE, il fuoco solare, spirituale, vivente nell’uomo che entro sé l’avviva e nutre:

 

Figlio del dio è l’oro,

non lo intacca l’anobio, né la tarma.

PINDARO

 

 

 

17 novembre 2022, Iovis dies – occidente solis

nell’anno del duro combattimento

 

 

 

V A L L O N I A

 

FELICE è IL SAGGIO

CHE FILA IL GIORNO, SERENO,

SENZA VERSARE LACRIME.

 

                                                                          

vasto sole e luna irradiante

                                            oraculi monitus

 

 

 

 UNA VALLE DI LACRIME

 

   Luce, calore, vita: saggezza, estro, audacia. E lucentezza, lineare semplicità, purezza: candore, sincerità, armonia. Il Viro e la Donna. L’intelletto paterno e l’essenza rischiarante dell’anima. Sconfinata ricchezza, potenza che risplende. L’oracolo e l’anima divinatrice, il dio.

 

    Vasto sole e luna radiante sulla rotante Gea, la Terra, l’antichissima madre dei mortali, oggi trascurata e offesa, ma che sempre aspira ad essere indiademata, come già un tempo lo fu, dai quei suoi figli che felicemente vorranno operare il bene, onde serbare la loro anima e la sua bellezza minacciate dal demone disertatore, e con il fine di prepararsi all’opera necessaria per il ritorno dell’uomo e il di lui indiamento nell’ordine del Cosmo.

 

   La Terra, pianeta perla del sistema solare, non è per niente apprezzata nell’ambito catto-giudaico ed è un millennio ormai che dal punto di vista religioso clericale viene esplicitamente deplorata, lamentata, tal quale una ‘valle di lacrime’! Nell’XI sec. fu composta e poi rimaneggiata sino al XII con aggiunte ancora nel XVI, una supplichevole preghiera ad una immaginaria Regina del cielo e madre di misericordia, perché volgesse gli occhi quaggiù e venisse, ‘avvocata nostra’, in soccorso ai devoti fedeli: ‘ad te suspiramus geméntes et flentes in hac lacrimarum valle...’. L’autore di questa prece, il supplice, era un monaco di nome Ermanno di Reichenau, vissuto nella prima metà dell’anno mille e morto all’età di 41 anni; il futuro monaco nacque deforme e inabile alla deambulazione, infatti è ancora ricordato come Ermanno il Contratto, però fu un noto studioso, ed è comprensibile, stante il suo stato, quindi una ineluttabile disposizione alla pratica devozionale, e magari una venerella poetica, egli abbia immaginato ‘nel cielo’ una siffatta gentil Signora cui rivolgere la infervorata supplica, acciò gli prestasse conforto; ma stando egli in su la terra contratto, in una realtà niente affatto soprannaturale, ma anormale e quindi addirittura innaturale, nessun appagamento gliene giunse se non illusorio.

 

    Ma, e soprattutto, contratti in una fideistica irrazionalità devozionale, esiliati su una misera terra vilipesa, infera Valle di lacrime, miliardi di umani han vissuto, ormai son molti secoli, geméntes et flentes, e subendo in ginocchio – eterni penitenti senza possibilità di riscatto – ogni sorta di rampogne e di soprusi. Espropriati delle proprie anime, catturate fin dalla nascita e imprigionate in un dogma imposto come verità indubitabile e indiscutibile. Dogma basato sulle convinzioni supposte dai profeti giudei circa tremila anni fa ed esposte in un libro, Bibbia, o Vecchio Testamento, cui circa duemila anni or sono s’è aggiunto un Nuovo Testamento, ma solamente nella credulità dei cristiani, avendolo i giudei rifiutato. Questi ineffabili Biblion – indicibile iattura! – han cagionato una contractio animi, rattrappimento d’animo nei popoli che vi si sono assoggettati in seguito a un voluto e studiato rivolgimento, vulgo conversione, scaltramente sorvegliato e incanalato a ottenere un unanime consenso nell’accettazione d’un unico progenitore per gli uomini tutti, Abramo, un unico legislatore, Mosè, e un unico dio, Yahweh, il dio di Abraham appunto: “così ti chiamerò, perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò”, come si legge nella Genesi. E su queste moltitudini la vigilanza “sacerdotale” del Popolo eletto, gente che vanta una diretta provenienza dalle mani di Yahweh per adamitica discendenza. Yahweh sabaot, il dio degli eserciti (d’Israele), in questo modo evocato anche nella giudaizzante liturgia cattolica e quivi ostentato in verbo latino: Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus sabaot!

 

   E a tutt’oggi è così. L’ateismo dei senzadio si è completamente diffuso tra tutti i popoli. Gli uomini non amano più la sapienza, non testimoniano più le cose superiori e ignorano il divino, trascurano ogni pratica religiosa e pia, sprezzano la verecondia, non han più gran riguardo per il diritto. Nessun rispetto per la natura, per il paesaggio della propria terra, per gli animali, per gli alberi, le praterie, i boschi e le selve. Tal quale insozza e impiastra le terre, i fiumi e i laghi, non manca d’imbrattare brutalmente i cieli, fare guerra all’azzurro e al rigoroso, austero raggio di Febo. L’uomo si è perso nella pigra fiacca della pratica devozionale, mettendo da parte il dio, ponendolo nel vuoto, fuori di sé stesso, in tal modo allontanandosi dalla condizione originaria, quando si componeva in una felice triade con il cielo e la terra. Ormai, solo un bipede per eccellenza, costui è un senzadio. Un bipede ‘volante’ però, che sfida i cieli con ali di lamiera! Eppoi, dopo morto, sacramentato e unto, sarebbe pur capace di volarsene implume al cielo tra gli angeli e gli arcangeli che Cimabue, Giotto, Giovanni da Fiesole e tanti altri sulle loro tele guarnirono di robuste ali? Oh, davvero?!? Un inceppo forse tra paradossalità e stravaganze, un intralcio plurisecolare in cui puerilmente si è impigliato l’inconscio delle masse difronte al conclamato, dai cleri cristiani, “Trionfo” della morte: memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris! Generazioni su generazioni di mortali tremebondi dinnanzi all’idolatria, a una teologia dommatica e a una dottrina campata in aria, in astrusi cieli, fondata su cieca devozione, oppure, ma di frequente, peritosa e titubante credenza.

 

   Districhiamo subito la mente da tanta spinosa roviglia, né abbandoniamola alla tortuosa corrente del Meandro. Chiarezza della mente, integrità, purezza del cuore, animo volitivo e ardito, indole italica e linguaggio latino: sana, incontaminata l’anima, in sé stessa leale, fedele al principio, perciò riconosciuta dal Padre e ad esso unita, non estranea quindi al consiglio di famiglia degli dei, sulla terra in verbo e figura umana, essa è custode dei propri corpi mortali, da comporre in unica forma, e quindi tutrice e ispiratrice della humana societas, sue azioni e vicende, e altresì vigile preservatrice della natura tutta. Il Cielo, l’Uomo, la Terra: il Mondo, il Cosmo. In conclusione l’uomo non deve profanare la sua anima nel materialismo; sostiene Plotino che “la materia non è né anima, né intelligenza, né vita, né forma, né ragione, né limite; infatti, essa è senza limite; neanche è forza, infatti cosa essa produce?” E aggiunge che “non possedendo essa questi necessari caratteri, non le viene attribuito il nome di essere, ma correttamente viene detta non essere...”.

 

  A tal punto è davvero appropriato prestar fede al racconto biblico della creazione dal nulla o, il che fa lo stesso, da fangosa materia, invenzione improvvisata da un dio tutt’a un tratto sbucato, per un grillo inatteso, dal fondo di una eterna solitudine? Meglio è che la mente sanamente partecipi dell’abissale verità con oracolare sapienza enunciata da Eraclito: “Il mondo di fronte a noi – il medesimo per tutti i mondi – non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà...”; e ancora, informò il suo tempo che, dall’eterno, “Tutto è pieno di dei.”  Vogliamo tuttavia qui di nuovo richiamare il monito che trovasi negli antichi testi vedici: “Colui che sostiene: ‘Altri è il dio, ed altri sono io’; costui non sa. Per gli dei egli è come una bestia.” E l’Oracolo: “Le bestie terrigne possiedono il suo corpo”.

 

 Frattanto vogliamo, al termine di questo discorsetto, correttamente puntualizzare che noi non intendiamo affatto osteggiare il sincero, intimo sentimento religioso di alcuno, o di pochi o di molti; né intendiamo screditare simboli, emblemi, segni e immagini rappresentative del sacro, né confutare, perché pregiudizialmente avversi, allegorie, metafore, racconti sacri o morali, sentenze, proverbi, parabole, scritti, libri e trattati sapienziali, dall’antichità ad oggi e di qualsiasi popolo o etnia. Il nostro disappunto, ciò che non ci va a grado, è nel caso in questione quel presupposto che possiamo definire di credulità “religiosa”, un tipo di religiosità svirilizzata, clericalmente devozionale, che tra le tante partorisce, o se preferite, produce gli increduli, cioè i senzadio, nel senso sillabato della parola, i privati del dio, perché è stato imposto loro un ‘credo’, cioè una convinzione o ‘fede’ allogena, aliena.  E questo è il sincretismo catto-giudaico, realizzato e praticato da Paolo di Tarso, fondatore del cristianesimo, non riconosciuto dagli ebrei, che rivendicano per sé il loro dio Jahvè Sabaot.

 

 

*

 

 

 UNA VALLE DI SANGUINOSE LACRIME

 

   “vix lucis spatio, vix noctis abactae/enumerare queam mores gentemque profanam: a malapena sarebbe bastante la durata d’un giorno e ancora d’una notte inoltrata per sciorinare l’operato di tal sorta di gente scellerata”. Sono questi versi di P.P. Stazio, e noi, dai nostri tempi siamo obbligati ad aggiungere: a stento basterebbe il tuono d’una voce stentorea per far conoscere tanto empio operato, stante il diffuso, prolisso ed esteso frastuono tivvudico. La hominum societas è messa sossopra, i mass-media disorientano le masse, annichiliscono l’individualità; i caratteri più resistenti, fratto l’animo e sconfortati, recedono dall’agire, le menti più attive, depresse, facilmente s’assoggettano a ogni prepotenza. Inverecondia e ingiustizia la fanno da padroni. Adulterando e affatturando i virus, scatenano pestilenziali deliri, poi con il vaccinostilo compiono immani stragi... e ci guadagnano contante e potere. I popoli sovrani pare non sopportino più la democrazia globalizzata, ma se la ritrovano appiccicata alle loro meningi al pari d’un credo, d’una recente fede religiosa cui non si può rinunciare pena la condanna a un’infernale “dittatura”, nera più della pece e della tenebra insieme appallate; e frattanto...

   Figura bizantina di contorto clericale, silenziosamente tirannico, infido avversatore, maneggione furtivo, circospetto raggiratore, e tutto il rimanente che lungo è a dire... Quando infatti il sistema democratico attraversa una crisi si fa pernicioso, nocivo per il popolo, straripa la demagogia, s’insuperbisce l’ignoranza, s’ingrossa ed espande la discordia, la libertà diviene libertinaggio (non di rado persino normato) per lo sregolamento dei costumi; la vera libertà, quella della riflessione e del giudizio viene insultata, l’individuo indagato persino nel suo intimo; e infine si scopre muserolato! E la stampa e la tv libera gridano, ‘siamo nell’era del progresso!’. Si, è vero la mordacchia, quell’aggeggio medioevale, è stata messa da parte. Oggi è più facile smerciare il morbido, il soft-soffice. Farsi mal(l)eabili, essere sempre accomodanti è buona politica... sicuro! fino a calarsi brache e brachesse...

   Anche le lacrime, e pur quelle sanguinose, sono morbide. E nella nostra antica lingua latina morbidus (da   morbus) significava malaticcio, infermo. Son dunque le sanguinose lacrime, le lacrime degli infermi? Sì! ché tali sono queste genti; gente non ferma, gente realmente disadattata, inetta a realizzare perché priva di idealità, gente che si è lasciata sopraffare, che si è asservita, dapprima e devotamente sommessa a un ibrido iddio straniero, e poi politicamente all’avverso straniero, quello di sempre, che tal devozione riuscì ad imporre per la grande ignoranza sulla natura degli uomini e del Cosmo, ovvero l’oblio di sé stessi in cui si sono dissolti i popoli.

   Se pur Giove, nella Tebaide di Stazio, riconosce che non gli basterebbero tanti giorni e notti a enumerare i mores, le ingiustizie, il malcostume e la corruzione della profana gente, figurarsi noialtri, e nei tempi attuali! Pertanto ci limitiamo a riportare soltanto alcune funeste notizie del momento, annunci d’altrieri, che di tanto in tanto ci corrono agli occhi.

 

   ANSA.it – Redazione 09 ottobre 2022. Gli incidenti mortali sul lavoro in Italia, nei primi otto mesi dell’anno, sono stati 677, con una media di quasi 3 vittime al giorno. Rispetto al medesimo periodo del 2021, quando le vittime furono 772, si registra un calo. I dati dell’Inail sono stati diffusi dall’Anmil a Fiume Veneto, in occasione della Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro. In totale gli infortuni denunciati nel periodo gennaio-agosto sono 484.561 (cioè 2.019 al giorno), con un aumento del 38.7% rispetto ai 349.449 dei primi otto mesi del 2021. Le malattie professionali sono state 39.367 (+7,9%).  A tanto, fa eco la voce neutra del Capo della Repubblica: Morti sul lavoro inaccettabili per un Paese moderno. Lavorare non può significare porre a rischio la vita.”.Ma gli incidenti durano, e le morti e le lacrime: ANSA.it. Campania, 10 ottobre 2022. Operaio precipita da un tetto e muore a Portici.  ANSA.it. Redazione Genova 11 ottobre 2022. Incidente su un treno cantiere a Sanremo. Locomotore a fuoco, muore operaio in stazione sotterranea. ANSA.it. Redazione Arquata del Tronto, 12 ottobre 2022. Incidente sul lavoro: morto operaio in cantiere sisma; c’è anche un ferito.

 

   E ancora minacce di danni estremi, anche per il futuro: ANSA.it. Redazione 13 ottobre 2022. I pediatri, un tentato suicidio al giorno tra gli adolescenti. – Negli ultimi due anni +75% di casi, in 100mila soffrono di hikikomori, la fuga dall’interazione con il mondo. – Ogni giorno nel nostro Paese una ragazza o un ragazzo adolescente, ma anche pre-adolescente, tenta il suicidio. L’incremento dei casi, negli ultimi due anni è del 75%. E sono 100mila i giovanissimi che hanno preso la strada della morte sociale, i cosiddetti hikikomori, isolati nella loro stanza, in fuga dall’interazione col mondo, travolti dalla paura del giudizio, soli. Sono numeri impressionanti. A lanciare l’allarme è il presidente della Federazione Italiana Medici Pediatri, Antonio D’Avino, in occasione del Congresso Nazionale della Fimp in corso fino al 15 ottobre a Riva del Garda.

 

   Un popolo deve avere un verso, una direzione o meta cui tendere, e quindi deve procedere in meglio, agognare al bene della sua patria; anche un popolo ha i suoi gradini da salire, un dignitoso cammino da intraprendere, perciò deve curare la sua progressione e pertanto mantenersi libero, non asservirsi, degradarsi. Un popolo deve avere una sua purezza ch’è segno di una concordanza di fini, d’intenti, pur nella varietà d’opinioni, il che vuol dire armonia, concordia civile, evitando le ingiustizie e le disparità sociali; deve curare i retti costumi e la cultura tràdita dai padri, coltivare bene le sue germinazioni allevandone e nutrendo di vigore i germogli e favorendone la dis-agguaglianza, cioè la migliore genialità, tutto digrada nei sistemi ugualitari ‘democratici’, livellatori e liberticidi. Un popolo, dèmos, sano deve saper governare sé stesso, la sua propria forza, kràtos, e riconoscere e tutelare con gran diligenza i figli migliori e farne degli ottimati, cui affidare il proprio governo, la respublica, lo Stato e quindi la sua tradizione religiosa, il suo diritto, i suoi retti costumi, la sua eredità culturale, e una degna discendenza, non snaturata e degenere.

 

   Il buon figlio del popolo, il più puro e il più nobile, attivo e coraggioso, giusto e distaccato, colui che conosce e vede la realtà, che non si lascia ingannare, che ama senza indulgere alle passioni, distaccato da brame e ambizioni, misurato e tollerante, ma giudice inflessibile del violento, dell’impuro, del corrotto, del pigro, del malvagio. Costui è l’ottimo e il degno di governare il popolo che lo ha generato, fatto crescere e educato.

 

   Un popolo che non ha più una patria – una terra su cui vive gente asservita non fa patria – non è patria quel luogo dove più non vige l’autorità dei padri; non è una patria quella terra la cui natura e la cui gente è assoggettata ad un dio allogeno, cui non vengono riconosciute le sue vere, ancestrali divinità. Un popolo che rinnega i suoi antenati e preferisce l’inimico di lunga età. Un popolo così mal ridotto si ritrova sepolto sotto una valanga di luttuosi annunci giornalieri, esiliato in una desolata valle di lacrime e oscenamente (s)governato da sfrontati gingilloni/e, al guinzaglio dello... oh oh! del... babau? dell’Orco etc...?

 

 

 V A L L O N I A

 

Felice chi vide ciò che è sotto la terra;

sa il termine d’una vita,

sa un inizio divino.                

                                                    PINDARO, fr.

 

 

   Sotto i dolci raggi del sole ottobrino la Valle adagia le sue membra arboree e il suo tessuto d’erbe ancor viride! Così è apparita stamane al nostro sguardo, come eternamente assorta nelle tinte dell’estate! Ci sorridono persino le rose; queste rose d’ottobre di calda corolla dai petali vellutati, carnicini, che segnano le pure, intatte gote della nostra salubre Valle, ne vantano l’incarnato; in questa apparita di rose, essa ha voluto mostrarci il suo volto e il suo sorriso accattivante?

 

   Sulla distesa fiorita dei folti cespugli di rosmarino nugoli d’api e di bombi risvegliano, anch’essi, fremiti d’estate con un rumoroso ma solare brusio. Riposi e vertigini estive s’alternano nel respiro dell’autunno, mentre già s’espande il forte profumo del mosto. D’un tratto, una folata di vento tepido muove tutto il fogliame e l’intenso fruscio s’accorda al ronzio degl’imenotteri; e...d’improvviso ancora, in tanto aleggiare di suoni, si cala dall’alto il ripetuto grido della poiana. Sono in due e volano alte, solo a tratti par che vogliano discendere, ma un balzo e son di nuovo su; non sono qui per cacciare, ma per porgere un saluto mattutino, e difatti l’ultimo forte lor grido, prima di allontanarsi, riecheggia su tutta la valle: sii li... sii li... assieme a l’eco di lesti battiti d’ala, ... eta... eta...  nel loro linguaggio: Sii lieta, e naturalmente sottinteso, o valle!

 

    Chicchirichì... chicchirichì... a distesa, di poggio in poggio rimbalza il canto di Chichirrò, il nostro gallo, o meglio, il gallo di questa Valle, dato che non abbiamo noi alcun diritto su di lui, e lui vivrà qui fino al suo ultimo canto, un canto che annuncerà un importante cambiamento, ossia una seria, inquietante novità; insomma non sarà  quella dell’ultimo suo canto un’alba gradita ai disumani, all’empio bipede – che fa giornaliero scempio, con infilzate e infilzate a migliaia, di chichirrù e simili, su rotanti nastri dove vengono spennati vivi, mutilati delle zampe e infine del becco e della cresta – efferato spregiatore del vivente; anzi, di esso animato e di sua vital sofferenza nutrendosi, per poi di sé stesso, lo spregevole bipes, far cannibalica carneficina.

 

    La estemporanea chicchiriata d’or ora, è semplicemente la risposta da qua giù, la risposta della Valle, al grido delle poiane, all’augurio giunto da lassù; la lussureggiante voce della risonante valle che contraccambia l’altero saluto dal cielo. Difatti Chichirrò, ligio al suo nobile compito di lucis praenuntius ales, aveva già cantato due volte stamane, quando il cielo era ancora livido, nelle ore antelucane e poi al sorger dell’alba più a lungo e con gola vibrante, per annunciarci una omerica aurora dal manto tutto di croco. Insomma, una bella giornata! Il vento continua a visitarci, con buffi tepidi, brevi e leggeri, sembra voler distribuire tutt’intorno amorevoli carezze, tocchi di vigore e sanità; sono le dita della Valle che sfiorano le foglie, le rose, i cespugli in fiore, le nostre guance cupide del buon tepido sole? Già, le dita di Vallonia, la deità di quest’antica Valle, ove mai l’invisibile divino si manifesti, ma certo, come potrebbe trasmettere salute, fecondità, vigoria, gioiosità, benessere, anima e felicità la Valle, se in sé non possedesse la sua arcana deità tutrice? Se non fosse così, sarebbe una valle deserta, vuota di tutto, una infelice valle di lacrime!

 

   Già l’autunno! Si lamenta in città; ma qui, vasto sole e luna irradiante, Vallonia ci concede giornate luminose e serene e notti stellanti; e negli splendidi tramonti, dalle creste e dalle vetticciole dei monti e dei colli che la circondano, Jugatinus / Giugatino, dio dei gioghi montani e della copula, comparendo in parvenze regali, adorno di porpora e d’aureo croco, tutta l’avvince nel suo amplesso: ed ecco, tal qual si ripete nel fulgore delle aurore! Di solito l’autunno, stagione delle nebbie, lo si confronta con un malinconico viale del tramonto, e invece non è così, oggi come ieri e sarà così anche domani e posdomani, ottobre smentirà questa affermazione e si mostrerà vivace e giovanile, lealmente ricco, abbondante d’uva, frutta e ortaggi come Vallonia richiede.

 

   Nello scorso mese, un settembre molto imbronciato, tra bufere, piogge scroscianti con forti raffiche di vento, interi pomeriggi trascorsi nel rumoreggiare continuo del tuono da un punto all’altro della valle, sostituito subito dopo il tramonto da un silente, ripetuto lampeggìo, eppure Vallonia ha protetto la Valle, nessun danno alle viti, agli oliveti, agli orti. Dopo giornate così burrascose, ci siamo un mattino svegliati nel caldo sole mentre lungo il giro dei monti una densa nebbia gravava, dalle pendici montane fino al corso dell’Albula che scende giù ad incontrarsi con l’Aniene onde poi nasce il Tevere. Guardando tutt’intorno, un verde intenso vivacemente splendeva dai poggi e dai campi e dappertutto cespugli fioriti e persino qua e là qualche rosolaccio, rarissimo a vedersi dopo l’equinozio d’ autunno. La Valle s’era sottoposta a un lavacro irruente per rinnovare di sé il ricordo antico; memorie originarie di rigoglio e floridezza, e il resuscitarsi d’un’aura di solare salute. La immaginammo, in un istante, come all’occhio poteva apparire in quei tempi lontani, una grande valle lacustre cosparsa di isolotti fioriti, le cui acque erano attraversate da un albo fiume e sulle cui sponde fiorivano grosse, bianche ninfee. E d’improvviso, da quella nebbia ancor densa e imponente uscirono nel cielo le bianche ali distese di tre grandi alcioni; involatesi dalle sponde del fiume, ora sorvolavano la valle rorida e pingue di verde; fecero un largo giro unite in un perfetto triangolo, poi tornarono verso le pescose acque fluviali, sulle quali la nebbia andava ormai diradandosi.

 

 

***

 

   La personalità evidenzia e contraddistingue il temperamento, il carattere, l’intima natura e insieme l’aspetto del singolo individuo umano, l’essere suo peculiare. La Valle – un luogo di natura fiancheggiato dai monti, spesso attraversata da un fiume, a volte ospitante laghi morenici – anch’essa ha la sua tipicità e i suoi tratti fisionomici, le sue sembianze, ciò che vien chiamato panorama, dal greco pán=tutto e oráo=vedo. La nostra veduta della valle è appunto il suo aspetto, lì sono i suoi tratti fisionomici e in quelli, come l’individuo umano il suo animo, essa cela la sua verginea deità. In stretta familiarità, suoi confidenti e lei nostra tale, Vallonia ci ha trasmesso la sua riposta cultura, norme semplici, e regole di vita in formule eterne. L’Italia, la patria nostra, distesa nell’azzurro mare, è pur ricca di monti e di colli e quindi di tante valli e di laghi e di fiumi; un etere luminoso, sereno e gioviale l’avvolge, la sua verginea deità è protetta da divini padri e un clima elisio regna su tutti quei felici clivi, perché su questo Orbe l’antica Italia, è la Regina delle Valli.

 

   Sosteneva l’antico filosofo e poeta presocratico Senofane: “Di certo gli dei non rivelarono ai mortali tutto e sin dall’inizio, ma con costante ricerca nel tempo, gli uomini da sé debbono conseguire il meglio”. Fatto sta che l’uomo (l’ultimissimo uomo), razzolando male, cerca cerca, oggi s’è affidato al peggio e della terra tutta ha fatto una valle di lacrime; seguitando nella sua razzolatura finirà, come diceva il rabbi giudeo Yeshua, nella Gehenna, quel vallonaccio un tempo sede dei culti di Moloch, oggi trasferiti altrove, e poi divenuto l’immondezzaio di Gerusalemme... ruzzolerà laggiù, nell’immondo vallonaccio, con gran soddisfazione dell’Orco babau!  Peggio per lui, l’inutile spreca-lacrime! 

 

  

Felice è il saggio

 

che fila il giorno, sereno,

 

senza versare lacrime.

 

E io canto la luce...

 

ALCMANE

 

 

28 ottobre 2022, Veneris dies – occidente solis

nell’anno del duro combattimento

 

 CANTO DEL RITORNO

 

   Ieri v’era ancora un bocciolo, stamane al tepente raggio del sole autunnale nel nostro giardinetto s’è aperta una tenera rosa, in una piccola aiuola tra freschi e verdi rametti.

 

   E, giusto iersera, in un colorito tramonto su cui nitide si stagliavano le creste montane, gli ultimi balestrucci attardatisi ai nidi sfrecciarono silenziosi nel cielo, qua e là raccogliendosi in gruppi; era il loro indifferibile commiato a questi poggi tra cui, pellegrine rondinelle, avevano soggiornato dalla scorsa primavera. E quei trepidi gridi improvvisi, prima di scomparire tutt’a un tratto? era un festoso arrivederci! E così schiusa è qui stamane questa auguriosa rosa ottobrina.

 

Muti accordi, espressive corrispondenze...

La voce della Natura, la forza del suo linguaggio, la sua lira...

 

  

Nel cielo vuoto di rondini

passano le nuvole,

passano veloci nel vento

che soffiando nei grezzi corni

in giro urla i suoi appelli.

Manda raggi il sole e scompare,

ricompare, ancor si nasconde,

dei fatati corni e del vento

sorpreso dal certo richiamo!

Tu, amico, che ami cantare,

non riporre la vecchia chitarra,

anzi aggiungi la balalaica,

un liuto, se reputi adatto.

Tutto quel che appare dispare

e ciò che disparve riappare;

intona un bel canto virile

nel moto che mai non ha fine!

La voce rievochi il viaggio

che volge il tornio degli evi,

il viaggio su l’ali del vento,

del vento che incide le sorti.

Quando il corno suona all’appello,

chi è qui, risponda: presente!

e anche se con tono minore

s’unisca a sì nobile canto!

Variando la voce ed il suono

gli epici fasti, aedo, rinnova,

ritrova gli evi nostri felici!

La boreal cetra s’aggiunge,

con l’eroico canto latino

ne suggella concorde il ritorno.

Tutto quel che appare dispare

e ciò che disparve riappare;

i cantari aviti intoniamo,

riviva la gloria dei padri

nel moto che mai non ha fine!

 

Partirono ieri le rondini,

chi dubita che torneranno?

 

 

10/13 ottobre 2022, Iovis dies

nell’anno del duro combattimento

 

 

N I M B O R U M   NOX ?

 

 

 

Il male è più debole della non entità.

                                             Oraculi monitus

 

   Il sole nella Bilancia o Libra, settimo segno dello zodiaco tra lo Scorpione e la Vergine, determina l’equinozio indicando l’inizio dell’autunno e, poi che sono state bilanciate con cura le ombre, le notti cominciano a prevalere sulla luce. La bilancia è l’insegna dell’equilibrio, del giusto, del retto, dell’equo, è la Libra, astronomicamente segno d’aria, in opposizione ad Ariete segno di fuoco, nel momento in cui all’equinozio di primavera arretrano le notti. Questo debito e tempestivo pareggiarsi agli equinozi di luce e buio con il loro vicendevole arretrarsi e avanzare determina l’alternanza delle stagioni indispensabile per la vita della natura tutta. E qui non pare possa metter becco il moderno in-sciente, inconsapevole vantatore/trice di superba ignoranza, o volendo ricorrere a un eufemismo, intromettersi la hybris dello ‘scienziato’ d’oggi, irroratore della volta celeste con rugiade artificiali, per fabbricar lassù e scaraventar giù, to fling war from the sky, sulle terre piogge a scatafascio e lampi, folgori e tuoni; quindi sgraffignare a Giove il suo vecchio mestiere e fottere la laboriosissima ditta Vulcano & Ciclopi associati. Altro che scienziati! voi titanici spogliatori e affamatori dell’Universo, e per di più accoliti e cagnotti del gangsterismo Yankee & compagnucci CLERICAL-NATO.

 

  Quod potius colat Italiam, si seligis, astrum

quam quod cuncta regit, quod rerum pondera nouit,

designat summas et iniquum separat aequo,

tempora quo pendent, coeunt quo noxque diesque?

Hesperiam sua Libra tenet, qua condita Roma

orbis et imperium retinet discrimina rerum,

lancibus et positas gentes tollitque premitque,

qua genitus Caesar melius nunc condidit urbem

et propriis frenat pendentem nutibus orbem.

 

  Sono gli ardui versi, 769/777- Libro IV, tratti dal Poema degli Astri del grande poeta augusteo M. Manilio, che qui ci siamo cimentati a tradurre, in modo dimesso forse ma non infedele: “Quale astro, a volerne scegliere uno, potrebbe dar maggiore protezione all’Italia di quello che tutto sorregge e intende il valore delle cose, indica l’essenziale, l’ingiusto separa dal giusto, e sotto il quale le stagioni ugualmente si librano, la notte e il giorno si corrispondono? Protegge Esperia la sua Bilancia, in essa una Roma stabile regge l’impero e le divergenti vicende del mondo, le genti su quei piatti disposte suscita o atterra; in essa generato, Cesare ha ora meglio edificato la città e con i propri cenni modera i moti del mondo.”

 

   Nimborum nox, notte di nembi, un traslato per tempi procellosi?  Tempi irrequieti, di rovina, di crollo totale? Crollo totale, e di cosa? Il rovinoso declino d’un ‘mondo vecchio e stravecchio’, ultimamente rimbecillito dalla tivvù e da un democratismo vecchile esponenzialmente retorizzato. Poffarbacco! la balla del Nuovo Mondo? Puah! una impostura che si va smascherando e si mostra come un apparimento privo di forma, perverso, mostruosità che si disfa e dissolve nell’aria pura e nella luce. Son trascorsi secoli e secoli e la stirpe dei mortali ha nutrito dentro di sé tale orrendezza e ha trasmesso per lunghe generazioni ai suoi figli e nipoti il culto d’una massiccia menzogna; ingannando sé stessa si è svuotata dell’essere, disumanando nell’uomo ultimo. L’uomo cresciuto nella serra insalubre della menzogna, che i latini dicevano mendacium, la bugia appunto, la falsità che corrisponde all’alterazione della realtà, al rifiuto, al diniego della verità da parte del mendace, l’uomo mentitore, che agisce con mente fuorviante; tale comportamento mentale si effettua in un solo senso: invalidare la realtà. Per comprendere più a fondo il danno che ne consegue, e con il marchio della irreparabilità, ripensiamo un’espressione latina ricorrente in Orazio – fundus mendax – in italiano vale a dire un podere che non rende, non frutta, non produce. La mente mendace è quindi una mente infeconda, che non offre frutti, cioè beneficio, giovamento, gratificazione, floridezza etc. Profondità del linguaggio latino, ricco di immagini riposte ma indicative! Or dunque, una società d’uomini condizionata, e persino affascinata dalla menzogna, è una società sterile, una società disfacibile, che precipita verso la fine.

   Nimborum nox, dunque? Certo, sarà una lunga notte tenebrosa e di impetuosa, furiosa burrasca! Una notte di bufera infernale! Persino la procellaria, l’uccello della tempesta, spaurita si rifugerà nel suo nido. La notte in cui crollerà il mostruoso apparimento, l’orrido oscuro maniero della menzogna, un mondo turpe, indecente sarà travolto, scacciato negl’inferi. E non sarà sciagura. Un vortice infatti di vento lustrale, catartico, soffierà poi su tutte le contrade. Un soffio rapido, possente, che spingerà avanti e muoverà sicuro al sereno, verso freschi e lieti lidi; un alito forte, temprante, che dà ristoro, un alito vivificante. E il passo incontrastato, sicuro, fermo, di coloro che sostennero il duro combattimento e impavidi affrontarono il rischio con cui ci si confronta a ogni ineludibile cambiamento: necessaria la fine, ossia una risolutiva catastrofe, preludio di rigenerazione nel trionfale principio raggiunto attraverso catarsi risanatrice.

 

   Nel rifarci all’epigrafe oracolistica posta all’inizio di questo scritto, per la quale chi non ha tradito il proprio essere non deve temere il male, rileggendo i versi riportati dal Poema degli Astri di Manilio nei quali è detto che l’Italia è sotto la protezione della Bilancia, l’astro che presiede alla rettitudine e alla giustizia, sciagura non incoglierà all’Itala gente; ma pur nelle più aspre congiunture sempre prospera sarà di bene e di giusto, se allontanati gli odiatori della verità, gli arroganti e i vili, quindi debellata la corruzione che affligge la nazione da riportare a nuova vita, impedita la rapina allogena delle terre, dei cieli e dei mari, una volta rivitalizzato l’humus nei suoli agricoli – e occorre far presto! – restituita l’Italia tutta al suo clima felice, all’operosità del suo popolo ridesto, ristabilita la patria potestas, raro sarà, se non improbabile, trovare su questo vulcanico suolo e sotto questo gioviale cielo un fundus mendax.

 

   A sostegno di queste considerazioni, siccome è nostra dimestichezza il serbare una costante vicinanza alla sapienza degli antichi, riportiamo qui dalla Kore kosmou, un testo ermetico greco, alcune righe del discorso sacro che Iside rivolge a suo figlio Horus, nella genuina traduzione di Chiara Poltronieri:

 

   “Horus, figlio mio, le numerose sfere del cielo sovrastano tutta la natura del mondo inferiore e in nessun luogo manca loro alcunché di ciò che il mondo ora possiede, perciò necessità vuole che tutto sia stato ordinato dal mondo superiore e che la natura del mondo inferiore sia stata completamente colmata. Il mondo inferiore non è certo in grado di dare ordine al mondo superiore. Infatti i misteri inferiori cedono necessariamente il passo ai misteri più potenti. L’ordine dei corpi celesti, assolutamente stabile e inafferrabile per l’intelligenza dei mortali, è più potente di quello del mondo inferiore.

   Perciò il mondo inferiore, colmo d’angoscia, sospirò e pianse sulla bellezza e l’eterna durata del mondo superiore: contemplando soffriva alla vista della bellezza del cielo, immagine del dio ancora ignoto, e dello splendore solenne della notte, accompagnata da una luce viva, anche se inferiore a quella del sole, e alla vista della solennità degli altri astri, in movimento nel cielo ognuno secondo il proprio turno, che danno ordine e crescita alle cose del mondo inferiore in ragione di movimenti e di orbite temporali in virtù di segrete emanazioni.”

 

    E dal momento che questo scritto lo abbiamo affidato al favore e quindi ai buoni auspici di un memento oracolare, conseguentemente terminiamo con un altro verace memento oracolare:

 

   “Le cose divine non sono raggiungibili dai mortali che comprendono con il solo corpo, ma soltanto da coloro che, spogliati dei loro abiti, si affrettano al vertice.” Oraculi monitus

 

   E non solo le cose divine, oggi, ma anche quelle che dalle divine dipendono e persino le cose più comuni, spicciole, della politica, dell’etica, della medicina, dell’ordine sociale, dell’educazione giovanile, della diplomazia, della guerra; insomma della salute e del reggimento dei popoli. E poiché, eccettuate poche anime, tutti qui, in questo paese sono magna pars di tanto pantagruelico magna magna... dopo aver letto e riletto e ben compreso il senso dell’0racolo, e parola per parola... mettetevi all’opera... e tu, amico, nosce te ipsum

 

PRO SALUTE POPULI

 

3 ottobre 2022, lunae dies

nell’anno del duro combattimento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C A T A R S I

 

 

 

Solenne è questo platano, pieno, e frondoso! L’agnocasto,

cresciuto alto, offre gradevolissima ombra e, diffusamente

fiorito, tutto profuma qui intorno. E sotto il platano scorre

piacevolissima fonte d’acque molto fresche, come il piede

m’avverte. Immagini di fanciulle e statue suggeriscono un                                                                                                                       

 

 posto sacro alle Ninfe e ad Acheloo. E, se consenti, amabile

e dolcissimo è il venticello del luogo. Una eco estiva melodiosa  

risponde al coro delle cicale. Ma più di tutto attrae l’erba in

dolce declivio predisposta, e tal sembra, per adagiarsi e

poggiarvi agiatamente la testa.

                                                                                             Platone, Fedro, ns tr.

 

 

     “O benevolo Pan e voi di costà altri Dei tutti, concedetemi di operare il bello nella mia internità, e che tutto quel che di fuori si mostra s’accordi con ciò che nell’intima essenza ha sede. Che io consideri ricco il sapiente e possa disporre di tanto di quell’oro che niuno altro, tranne chi è temperante, possa prendere e farne uso. Altro ci occorre, Fedro? Ritengo d’aver con moderanza pregato”.

 

   Questa è la preghiera a Pan con la quale si conclude il Fedro, il dialogo platonico in cui si discorre del retto uso della retorica e si approfondisce il tema dell’amore sublime che eleva l’anima alla ideale bellezza. Socrate e il giovane cultore Fedro, i due protagonisti, si sono intrattenuti a dialogare fuori Atene nella incantevole valle dell’Ilisso e stanno per rientrare in città. La preghiera, pronunciata da Socrate, è rivolta agli ospitali dei dell’ameno luogo campestre. Dei hospitales, natura hospitatalis, si addicono e, di più, si confanno a un ospitale piumque pectus, a un cuore gentile e pio. Questi geni o divinità tutelari dei luoghi corrispondevano, ancora a quei tempi, al nume tutelare avente sede in animo, nella interiorità, del vero uomo, o romanamente si vir es, est et cetera; dell’uomo insomma che possedeva la conoscenza di sé stesso. Tra l’avvenente amenità della valle – ove scorre l’Ilisso, l’un l’altro margo fiorito, con i suoi allora magnifici, annosi platani – e l’elevata parola e quel misurato argomentare socratico sorgeva una relazione coerente e coesa, si destava un’armonia. Segni, suoni, voci del fascinoso echeggiante sito campestre, cenni annuenti, renuenti, intercorsero tra i geni del luogo, il nume della Natura tutta, Pan, e l’Uomo con il suo Mentore, l’intelletto solare, guida interiore e vegliante consigliere. A tutti costoro attento, il saggio rivolge la sua preghiera: mai abbia ad oscurarsi nell’anima dell’Uomo la bellezza e l’uso misurato dell’aurea sapienza, in ogni tempo duri il sommo Bene che genera accordo e armonia; Pan ne esulti, e tutto fecondamente viva.

 

   Tale era il carattere sacro, l’arcaica sacertà insita nella preghiera dell’uomo antico, così intimamente congiunto al divino prima che dilagasse l’idolatria e con essa l’ateismo barbarico e il materialismo dei mercanti in comunella con le ‘fedi’ devozionali di marca giudaica, i quali giudei invocavano il loro Yahweh Sabaot, ‘dio o capitano degli eserciti’, con ogni sorta di imprecazioni (imprecari = pregare il malanno) contro gli inesauribili nemici di Israele. Sopraggiunse il cristianesimo e di tutto questo s’impadronì, con ben trasposte sfumature gnostiche, il paolottismo, dottrina prettamente biblico-testamentaria che poi – aggiustata con venature aristoteliche operate dai cosiddetti ‘Padri della Chiesa’, e con la formulazione di ritualismi e simbologie tratte da credenze e pratiche superstiziose residuate o estratte da oscuri culti popolari del suburbio o di borgata – è stato il fondamento del catto-giudaismo insediatosi in Roma.  Con il disparire dello Stato romano e l’ascondersi dell’alta spiritualità che aveva sostenuto quelle divine istituzioni e la pia religiosità del Senato e del Popolo dei Quiriti, anche la preghiera archetipica della mente e del cuore uniti, fu dimenticata e sostituita da una vuota preghiera delle labbra, uguale per tutti, dogmaticamente standardizzata, con rigidezza imposta e catechisticamente appresa e tramandata. La sfilza nei secoli dei secoli dei gloria e paternoster, e avemmarie a miriadi!

 

   Per intendere, e come meglio si può, quel che accadde, e a tutt’oggi con travolgente, rovinosa furia, ascoltiamo la voce di Plotino, la sua parola sapiente, noi fortunosamente e ‘per caso’ capitati nel mezzo d’una sua lezione, in Roma regnante l’Augusto Gallieno:

 

   “La totalità degli esseri e delle cose di questo mondo provengono da lassù, tuttavia lassù tutto è più bello. Quaggiù infatti, e non lassù, tutto deriva da mescolanza; in quest’universo tutto è dal principio alla fine tenuto insieme dalle forme; principalmente la materia è costretta nelle forme degli elementi, poi altre forme si sovrappongono alle prime, e nuovamente altre ancora; perciò è difficile scorgere la materia riposta sotto tante forme; ma poiché anch’essa è in certo senso una forma estrema, quest’universo è forma ed esaurisce tutte le forme; il modello stesso era di già una forma.

 

    La creazione si verificò in silenzio siccome il creante è tutto, essenza e forma; per questo senza affaticamento venne a compimento la produzione, e fu produzione del tutto in quanto il Tutto doveva venire ad essere. Non ci fu ostacolo ed essa ancora domina, benché le cose siano divenute d’ostacolo le une alle altre; e neppure adesso sono d’impedimento per lei, ché tuttora continua a sussistere nella sua totalità. Ritenevo in aggiunta che se noi stessi fossimo archetipi, essenza assieme e forma, e il modello che crea le cose quaggiù coincidesse con il nostro essere, anche la nostra feconda operosità primeggerebbe senza fatica. Ma l’uomo invece, seppure realizza secondo la sua idea propria, si è diversificato dalla sua vera essenza ed è divenuto ciò che al presente è; l’uomo attuale infatti ha totalmente abbandonato l’essere. Solo cessando di essere uomo <<si aggira in alto>>, come si dice, <<e regge tutto l’universo>>; rientrato nel tutto può allora creare il tutto”.

 

   Così Plotino si rappresentava, a quei tempi, la realtà vera, archetipica, che fu sempre e sarà, la totalità dell’essere che si lega al modello di lassù, il mondo intelligibile che permane uguale a sé stesso; e fino a che partecipa dello splendore del Padre – somma intelligenza, bene e bellezza – coeterno con esso è il mondo sensibile, in una unica eterna creazione. Chi a questa perenne produzione rinuncia, da tanta operosità dello spirito si separa venendo a mancare in lui i divini modelli; non più ricongiunto al Padre, quei si perderà nel branco dei bruti e dei malvagi. Il Buono e il Bello sono in alto, lassù nella sede del Padre e solo da lassù provengono. “Dunque noi, quando siamo belli è perché ci apparteniamo, siamo tali in virtù del nostro essere; invece quando diveniamo brutti, ciò accade perché abbiamo mutato natura, ci siamo snaturati. Siamo belli quando conosciamo noi stessi, brutti quando non ci conosciamo”. Torna a dire in sintesi Plotino, e Porfirio, il discepolo prediletto, a sua volta: “A coloro che per via del loro intuito hanno la capacità di ritornare nella propria essenza e quindi conoscerla e raggiungere la piena consapevolezza di sé stessi, preservandosi in questa identificazione (visione salvificante) di conoscente e conosciuto, ebbene, presenti a sé stessi, anche l’essere è ad essi presente. L’essere è invece assente in coloro che escono dal proprio essere e, man mano discendendo per rivolgersi altrove, assentandosi da sé stessi, (una volta alienatisi) in loro è assente l’essere”. In breve, Porfirio ancora nelle ‘Sentenze’ afferma: “L’anima che digrada nella materia perde valore, rimane vuota di tutto, mentre quando con la mente si eleva in alto è piena di virtù e nel possesso di sé stessa e del suo valere, ossia immutata nella sua potenza.”

 

   Ebbene, amici, gli asserviti encefali dei conterranei, da secoli immersi nel sonno leteo dalla mano untuosa del Battezzatore, e le nostrane casalinghe animule democratizzate all’uso yankee, mai riusciranno a scorgere la differenza tra le indolenti impetrazioni e le nostrali d’abulico devoto sfilze di gloria e di ave labbreggiate a pappagallo, e la prece sonora di quel vecchio saggio dal capo eretto, dalla mente sveglia, retta e virtuosa, il piede scalzo lambito dalla fredda acqua fluviale, il Socrate di Platone nella valle dell’Ilisso: il cuore pio d’un uomo saggio, la vivente ospitale natura, e la prece unente, in una unica ispirazione, essere ad essere. La netta separazione tra ciò che è sacro con coscienza e l’inconsapevolezza del devoto abituale. La prece efficace, che opera e crea, quindi realizza, è propria di colui che è presente a sé stesso, della mente che si eleva in alto. La prece degli odierni, il gran pregare della devozione in gregge, in massa, uno sbrandellare di voci che si estingue sui labbri, è il lagno dell’anima vuota di tutto.

 

 

L E A D E R I S M O R E L I G I O S O

 

 La Sublime Soglia: ASTANA

 

 

   E questo triste lagno dell’anima vuota di tutto, l’altrieri lo abbiamo visto fondersi in un desolante insieme di ‘leaderismo religioso’, come riportato dalle cronache, e riversarsi nella desertitudine, in una regione appunto stepposa del lontano Kazakistan nei pressi dei grandi sistemi montuosi dell’Asia centrale, i monti Altaj. Invero, il termine leader è più appropriato ai capi politici che nell’ambito delle competizioni democratiche tendono ad affermarsi, superandosi l’un l’altro in gare demagogiche, ove non c’è nulla di religioso, magari supervisione gesuitico-clericale dall’alto della cupola, quella sì, e con supporto yankee altresì. Stiamo attenti, quando qui parliamo di ‘politici’, intendiamo demagoghi, oligarchi, loyolisti, oclocratici, tutta gente che in questi tempi ultimi ha fatto la sua comparsa in grande, ma tra l’altro fa da comparsa per conto di chi la fa da padrone. In realtà, ben altro è il politico vero! Un uomo libero che possiede, detto in breve, la virtù di saper controllare le passioni, di agire sempre con ragionevolezza, di saper ogni volta predisporre l’azione saggia mirante alla salute della società e dello stato, insomma di non nuocere al popolo; il politico valido, giusto, non deve mai mancare di lealtà e coraggio, un coraggio vigile e temperante; deve, sorvegliando e reprimendo, impedire corruzione e impudicizia, acciò non ne venga travolta la Giustizia, sommo bene da custodire integro a vantaggio del popolo tutto. Costui è il buon politico. Pertanto, al presente siamo lontanissimi da un tale modello; tra le ultime ultime, le ultimissime, sentiamo solo ideuzze e spunti, concetti, questioni, atti e dispute di poco valore, e peggio tante malefatte, cui s’accompagna la rinomanza di politichini presi dalla smania di politicheggiare! E ancora il vanto della leadership, la prima pagina, e la lor   faccia tosta e le melliflue voci tutti i giorni in tivvù e in tutte le case! Eppoi, il ‘bello’ della democrazia è che tutti, a centinaia di migliaia, e in ogni angolo del paese, possono aspirare ad esser leaderini e leaderine.

 

    E qui ritorniamo al ‘leaderismo religioso’, perché trovarlo desolante? Alcuni giorni fa, l’altrieri, si è svolto il VII (già il VII!) Congresso dei leader delle religioni mondiali; tal riunione si è tenuta ad Astana, come dal 1998 al 2019 si chiamò la capitale del Kazakistan oggi ribattezzata Nur-Sultan, denominazione più adatta ad una città ultramoderna dal clima afoso in estate e situata nel mezzo d’una steppa semidesertica; una città la più fredda del mondo e con gl’inverni più freddi del mondo, sei interi mesi di ghiaccio e anche 51° gradi sottozero. In una siffatta città, all’interno di una grossa piramide detta ‘Palazzo di Pace e di Riconciliazione’ si è tenuto il suddetto Congresso all’ombra dell’alta torre di Baiterek, che significa il pioppo, l’Albero della Vita dei Kazaki; mentre Nur-Sultan occulta l’antica ASTANA, il cui significato in kazako è la grande capitale, in lingua persiana invece indica una città santuario, sacra, dove si accede con pavorosa riverenza, infatti vi s’aggiunge il significato di ‘soglia sublime’ oltre che di ‘porta reale’. Soglia sublime, sacro soglio!? Se non che il termine sacro, dal latino sacer, sacra, sacrum, qualifica il consacrato a ... e può anche racchiudere il senso di esecrato; mentre   sublime= a superiore limine, qualifica in assoluto l’elevato sopra tutto. Questa simbolica è abilmente dissimulata in Astana cui per di più fa da velo il nuovo nome della grande capitale kazara. Che stanno combinando a livello mondiale i leader delle note e da secoli sovrabbondantemente inculcate religioni rivelate, che ormai hanno tanto poco di religioso e tanto più di politically correct, andando così a completamente confondersi con i demagoghi loyolisti, capipartito e campioni dei fatti propri e dei più lucrativi business, sempre al buio s’intende e addirittura sugli ossari (traffico di schioppi, corpi umani e simili...)??? Cosa vanno architettando in una città già tutta monumentalmente disegnata masonic? Cos’altro ancora hanno da monumentare? Lasciamoli ai loro combini! Altra cosa curiosa: che ci ricaverà dal suo viaggio laggiù Rookie, quel vecchio marmittone gesuita in zucchetto e pantofole? Avrà indubbiamente portato con sé una fiaschetta di quell’acido vinello tenuto in serbo là, negli orci vaticani, più veleno che vino a dir di Marziale, ma a parer nostro un venenifero fluido ateo-confessionale che disunisce le menti e disperde gli animi. Con lui, due, tre, quattro aruspici consiglieri e un grosso borsone contenente – or via! – la deità inferna di Vatica; o, forse più bonariamente e senza malizia, qualche innocua Pacha Mama, un po’ d’idoletti e un pugno di terra andina? E, la benedizione Urbi Astanae et Orbi? Dalla novella Capitale della prossima ventura Religio Univorsa Uniter Plurima? “Gravosa, pesante è l’aria quaggiù, opprimente l’afa, si rischia l’intoppo del respiro! Meglio la pronunci un leader kazako, sacerdote della Torre di Baiterek”. Baiterek come Babele? Eggià, la Torre di Babele! Come davvero le cose tornano! Ma lui, il vecchio Milite Yeshuaita, di quella antica torre biblica aveva perso del tutto la memoria. Astana ovvero oggi Nur-Sultan, Capitale nell’immensa steppa, faraonicamente masonic, confinata d’estate nell’afa soffocante; nei lunghi, inesorabili inverni stretta nei rigidi confini dei ghiacci! Laggiù, nella immensa desertitudine stepposa!

 

   Ma noi non ci lasceremo sorprendere da sì minaccioso e angoscioso evento, infatti ci soccorre con provvide ali una vigile memoria e all’orecchio ci risuonano questi versi di Ovidio: “Alle altre genti furono destinate terre entro precisi confini;/lo spazio della romana Urbe è l’Orbe stesso”.

 

 

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Se un fosco ammonimento ci dà pena

E paura sparge sulle terre d’oro...

Tu dici: calma insieme a me non devi

Temere ciò che passa e si rinnova.

                                                                                s. george

 

 

   Vi sono in natura luoghi che accolgono l’orazione, e inoltre l’amplificano, e son soprattutto i luoghi – luoghi singolari! – cui è accordato il carattere oracolare e nell’antichità furono eretti a santuari. Al presente, luoghi di tale fatta tacciono. In realtà manca la persona pia, il sacerdote, la sacerdotessa, la sibilla, lo sciamano, la mente e il cuore religioso (è venuta meno persino la devozione sincera di gruppi o compagnie di fedeli oranti), manca il sapiente in spirito, il vero sacerdote, il pontefice, l’Uomo orante in purità, cui risponde la Natura con armoniosi accenti e in uno il cenno annuente dell’invocato Nume. Ad Astana nella desertitudine delle steppe, un luogo null’affatto oracolare, il tutto è sostituito da una monumentalizzazione estrema fregiata di simbologie masonic, un vero cabalone che utilizza simboli anche antichi, ma svuotati di vitale senso e con artifizio inseriti nel groviglio politico-religioso premesso a sostegno delle loro sfuggenti programmatiche. E qui trova luogo anche una sorta di finzione oracolistica; la preghiera, l’invocazione, il sermone, vengono riformati e ammodernati e trasmessi con imponenti sistemi audiovisivi e massmediali. L’orazione pronunciata dalla Torre di Baiterek per tanto rimbalza sull’istante in tutto il globo. La modernità non ha mai recepito la   preghiera come conosciuta e praticata dagli antichi; recentemente persino le devozioni, preghiere delle labbra uguali per tutti, una volta quotidianamente recitate, sono trascurate dai fedeli; residuano sparuti gruppi, i più perseveranti ad oggi sono gli islamici. E conseguentemente i leader delle Religioni Mondiali hanno ritenuto opportuno di dare carattere politico alle stesse religioni e a loro volta politicizzarsi del tutto. Le orazioni da essi recitate, frattanto, si alterano del tutto, da preces (prex,is) rese semplici declamazioni, sopraffatte dalle conferenze politico-religiose; ma vengono poi potenziate artificiosamente in risonanze radiofoniche. Il radiotelevisore è l’altare e il ciborio che offre il nutrimento ai fedeli della novella religione, una Chiesa plurima “fatta di tanti volti”, come l’ha definita dalla sublime Soglia quello tra i più influenti dei leader del Congresso di Astana.

 

*

     Lo scritto iniziato pochi giorni addietro, per circostanze impeditive era rimasto a questo punto sospeso, nel riprenderlo oggidì apprendiamo che la capitale del Kazakistan, già Nur-Sultan, da ieri 17 settembre 2022 ha ripreso il precedente nome Astana, in seguito a una modifica costituzionale. A momenti l’avevamo immaginato, e non era nemmeno difficile supporlo dopo tanto convenuto e seguito Congresso, e il settimo, poi! E senza negligere l’autorità dei tanti eletti leader e la presenza soprattutto del carismatico vecchio Milite con la fiaschetta d’acido vinello. Non difficile abbiam detto, e tante cose sono ancora, non difficili da immaginare! Non poteva però immaginarlo il gruppo di cosacchi che, proveniente dalla regione russo-siberiana di Omsks fondò una fortezza sul fiume Ishim dove poi nel XIX secolo sorse la citta di Akmolinsk, la prima capitale kazaka, oggi Astana. E noi adesso abbandoneremo Astana con la sua monumentalità, abbaglio della steppa, visione demonizzante venuta fuori dalle Lobie demomassoniche! Abbandoneremo Astana, la grande capitale, soglia sublime sulle immense praterie steppose, serrata nei lunghi, strazianti geli invernali, assillata da insoffribili afe, confinata nella desertitudine!  Lasciamo al loro acerbo dispetto, sospesi laggiù nelle dispute sul credo novello, o in preda a babelica confusione là, sulla torre di Baiterek, quei superstiziosi Leader adunati in sfinenti, infiacchenti congressi. Ciarlate, ciarlate pure, bravini e bravoni, e dalla fatidica fiaschetta du bonpapa con il viticum, l’acidulo vinello, libate agli inesauribili e inappagabili demoni della steppa... per davvero cacchi vostri! E good-bye!

 

  Perdinci! Ma in ciò ch’è risaputo e qui accennato di Astana non si ravvisa in compendio questo mondo d’oggi, in cui ci troviamo a vivere? Astana! Immagine, emblema di questa modernità ultima, e di tanta desolata genia dominata da oscure, ossesse, paranoiche leadership? Malvage leadership cui tengono bordone personaggificazioni di ambiziosi e vanitosi dall’esistenza meschina e colma di schiavitù e malafede, presuntuosi che non fanno gran conto della discrezione e per conseguenza del pudore, il cui animo lontano dal divino è privo di giustizia. Languono così i popoli, poi che mancano di salda e saggia guida, senza un barlume di luce dall’alto e speranza di salvezza.

 

   Di faccia a tanto disastro, cosa fare? Accettare la catastrofe, o qual rimedio? A queste domande già abbiamo risposto nel precedente scritto, qui va semplicemente precisato il motivo essenziale per cui abbiamo sostenuto la inevitabilità della catastrofe, la ragione prima per cui si produrrà l’evento inesorabile. Astana con il suo massiccio – il masso, la pietra fondante! – complesso simbologico architetturale con connessi sistemi massmediali, Soglia sublime ospitante i convegni di politica soprannaturale esposta dagli alti prelati, i leader delle religioni mondiali politicizzate, Astana ci ha dato l’appoggio; da Astana abbiamo ricevuto il sostegno per penetrare... una chiara intenzione: cioè niente affatto, o tanto per dire, segreta? Esattamente così! E adesso davvero abbandoneremo Astana tra le sue steppe, distogliendo lo sguardo da così abbagliante monumentalità; può darsi che un giorno torneranno proprio là su quel tronco del fiume a ricostruire la loro fortezza i cosacchi siberiani, esperti addomesticatori di irruenti puledri, ma pur anche domatori dei selvaggi demoni delle steppe.

 

   L’uomo che si snatura, non avendo più cognizione di sé, non riuscirà a conoscere sé stesso, perché non ritrovandosi più nella propria essenza, non potrà più raggiungere alcuna consapevolezza di sé; più digrada nella materia, più si assenta da sé stesso e svuotato della sua anima, sarà vuoto del tutto. Oh, quante analogie ha proposto e propone la scienza dei moderni progressisti tra gli ‘esseri viventi’ e la ‘macchina’! Gli organismi bionici? I cibernetici studiano l’avvicinamento tra la neurofisiologia e l’elaboratore elettronico, la possibilità d’un apparentamento. La scelta è tra la macchina pensante e ... l’uomo bionico? Zombi e zombie? Sì, non più il peso della persona, totalmente assenti virtù vizi perfezioni difetti bellezza bruttezza salute malattia, ma la compiutezza assoluta, fisicomatematica, dell’automa biologico e sotto l’occhio bionico, inciso nel triangolo equilatero, lassù, con squadra e compasso.

 

   Disse Anassimandro di Mileto:

“l’apeiron (l’infinito) è il principio degli esseri... da dove gli esseri hanno origine, lì essi vengono a dissolversi secondo necessità, perché essi reciprocamente scontano la pena espiando la colpa dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

Il tempo determina la generazione, l’esistenza, la dissoluzione dei mondi.”

 

   Secondo necessità e secondo l’ordine del tempo, ineluttabilmente scontano la pena ed espiano la hybris. Scontano la tracotanza con cui l’uomo snatura, violenta, oltraggia sé stesso e la società tutta, infrangendo le leggi divine. In conseguenza con i tracotanti si troveranno ad espiare e in maggior spregio i pusillanimi, i codardi, i vili, “questi sciaurati che mai non fur vivi...”,come li stigmatizza il verso dantesco,

 

caccianli i cieli per non esser men belli,

né lo profondo inferno li riceve,

ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli.

Fama di loro il mondo esser non lassa;

misericordia e giustizia li sdegna;

non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

 

Non ragioniam di lor, infatti trattasi di sciaurati che mai non fur vivi.

 

Ma diversamente i giusti e i verecondi si prepareranno, pura la mente e il cuore, con animo sereno alla catarsi, purché sappiano pregare come allora pregò Aiace dal campo degli Achei nell’atroce infuriare della battaglia, e Omero ci riporta:

 

- Giove padre, deh togli a questo buio

I figli degli Achei, spandi il sereno,

Rendi agli occhi il vedere, e poiché spenti

Ne vuoi, ci spegni nella luce almeno. -

Così pregava. Udillo il padre, e visto

Il pianto dell’eroe, si fé pietoso,

E rimossa la nebbia, in un baleno

Il buio dissipò. Rifulse il Sole,

E tutta apparve la battaglia.

                                                          Omero, Iliade- canto XVII, tr.Monti

 

   Nella interminabile scorretta, sporca guerra che oggi si combatte, alimentata da sinistre forze atlantiste  che pretendono l’affermazione totale a livello mondiale del progetto demomassonico e del potere cabalistico yeshuaita che tesse intrighi in tutti i continenti, la preghiera omerica adattata al momento, all’ordine dei tempi, può sicuramente agire catarticamente nelle menti più sveglie e nei cuori coraggiosi e puri, menti e cuori di combattenti italici e d’Europa tutta; rimuovendo la nebbia possa dissipare il buio e l’incombente tenebra; spanda infine il sereno e renda agli occhi la luce, onde il buon combattente abbia a vigilare e dominare nella luce del Sole la battaglia tutta, e a scorgere il nemico da sconfiggere, affermando così la virtù e il valere della sua anima, e insieme la potenza delle romane genti.

 

 PRO SALUTE POPULI

 

 

20 settembre 2022, Martis dies

nell’anno del duro combattimento

 

 

 

MERITARE  LA  SEMPLICITÀ

 

UN MASTRO DI SAPIENZA IN ROMA ANTICA E UN VERSO DI GIOVENALE

 

L’aria si muove per le cose nuove

Teneri fuochi sbocciano nel cielo

                                     s. george

 

 

   Se vuoi volger te stesso verso l’alto, inalzarti, prendi la vanga e scava con forza, entra giù giù nel profondo e poi detersi i sudori, addentrati nel segreto; ma sappi che non ti sarà concesso, se superato non avrai presuntuosità, saccenteria, vanità e ogni soverchia cupidigia; difetti, debolezze accumulate che si succedono, s’alternano, di cui mai per incuria ti sei dato pensiero, o forse a te, greve pigrizia, persino ignote! E poi, potresti rischiare d’aver speso invano la fatica e d’aver sfiorato solo al buio tale addentramento; tutto di fatti t’è sfuggito in un lampo, ché in te non fu il coraggio di osare e fermezza e volontà e tenacia. Poter contemplare entro di te quel segreto senza soccombere a spavento? Al guardiano orrendo, quel Kèrberos dalle tre e più teste? Non avevi altro di cui munirti e poterti fidare, se non il tuo coraggio e il tuo volere. Allora, avendo fallito questa visita interiora terrae, rinunci e ti volgi alla contemplazione dei cieli, misticamente, fideisticamente, romanticamente, o peggio confidando, miseria dell’umana corporea vista, nel cannocchiale astronomico. Son quasi duemila anni di questa mistica devota storiella e quattro secoli ormai che, l’occhio incollato alla lente oculare, con cannocchiale e telescopi scruti gli impasti di fanghiccio che riempiono l’universo. Orbene siamo in agosto, il cielo è un limpido sfavillio di stelle, nella valle alto s’espande il coro dei grilli canterini. Il canto dei grilli in queste notti ben s’accorda con quel brillio lassù! E sì tanta sorprendente magia non è per nulla casuale, quelle antennette sul capino del grillo, che ne indirizzano i cori, forse contengono più e più di scienza che mille telescopi. Che fai tu con quel naso pinocchiesco, lungo e appuntito nelle nuvole? Infatti, son solo nuvole, nuvole... nuvolame! E tu sei grossomodo una rozza macchina e ti credi un qualcosa di unico... Presunzione, pompeggiamento dell’IO: il male cronico del mondo d’oggi! Un male invilente l’uomo e che va desertificando il mondo; frattanto le società precipitano in una sempre più cieca e insensata arroganza partigiana, malanno fratricida che porta insanabili discordie, frustrazione ovunque, incomprensione tra le nazioni. E tutto ciò è brutto ed è male, nell’individuo e nelle società.

   Sosteneva Plotino che l’inclinazione ai vizi, ai beni e ai piaceri materiali, i comportamenti ingiusti, la impurità dei sentimenti, la viltà, la meschinità, l’invidia, la passione corporale, rendono ignobile l’individuo, mentre l’anima oppressa da questo male esterno finisce con l’immischiarsi all’inferiore e inclinando alla materialità l’anima si guasta, imbruttisce. Da tal mescolanza impura discende la bruttezza dell’anima. Ma ricondotta all’Intelligenza, che è una qualità propria dell’anima, essa recupera la bellezza, come l’oro, sporco di limo, una volta ripulito torna al suo splendore. Infatti Plotino sostiene che il bello è la vera realtà, quindi è bene; al contrario il male è bruttezza. Una sola cosa sono il buono e il bello. Per tal motivo la corporeità va giustamente corretta e ristabilita nella sua sana organicità, onde possa al corpo l’anima accordarsi nella sua purità. Un corpo sano è un organismo non fiaccato dai vizi, da intemperanze e passioni, ma, morigerato, esso sottostà all’anima ed è preordinato perfino a non aver bisogno di nulla e a non mancare di nulla, sì da non indurre l’anima a spingersi verso il basso, trasferendo ad essa desideri e timori. Brutto è tutto ciò che non partecipa di forma e fondatezza, e resta quindi estraneo alla ragione e all’armonia divina. Pertanto un corpo si presenta bello, e lo è, quando è partecipe di un’Idea, e l’anima, ch’è pura, s’accorda a un corpo siffatto.

   La locuzione latina “mens sana in corpore sano” è in un verso della decima satira di Giovenale, che scriveva durante il regno di Adriano, tempi in cui ormai la corruzione si diffondeva non risparmiando la stessa città di Roma. Nel riportarla, Giovenale si rifaceva agli aurei tempi antichi da lui tanto amati, tempi di semplici usanze e severi costumi; l’età rustica del opus agricolare, della agri colendi disciplina. Il verso intero recita: “orandum est ut sit mens sana in corpore sano”; il poeta riteneva essenziale la preghiera – occorre pregare – perché reggesse una tale salutare convergenza e un’armonia venisse pienamente preservata; in sostanza trattavasi di operato divino. L’espandersi nella società dell’ingiustizia e dell’inverecondia, che andavano sconvolgendo i costumi e oscurando la tradizione statuale e religiosa, preoccupavano fortemente la sua musa latina, memore di Ennio, Lucrezio, Orazio, Virgilio. Giovenale presagiva un franamento nelle genti della sublime spiritualità classica greco-romana. L’anima della romanità e quel corpo umano la cui bellezza era stata esaltata dallo scalpello degli scultori ellenici, quell’armonia, quella perfetta unione d’anima e corpo, come celebrata da Pindaro in lirica dorica, veniva aggredita dalla bruttura, dal male. Come ben s’intuisce, quell’antica locuzione latina racchiude un senso molto più profondo di quello odierno riferentesi in modo ristretto alla sanezza e a un appagamento fisico-mentale, ossia al solo benessere della fisicità stringatamente carnale ed encefalica.

   Plotino si era trasferito a Roma nell’anno 245 e.v., regnante Filippo l’Arabo, cui seguiranno Decio, Valeriano, Galieno, e si spense in Campania nel 270, nell’anno in cui morì anche Claudio II il Gotico; insegnò quindi nell’Urbe per circa venticinque anni, un secolo e alcuni decenni dopo Giovenale e vi ebbe molti discepoli. Era un tempo in cui Roma tornava in fiore, avevano ripreso prestigio il Senato, vigore interiore le istituzioni religiose e ci fu un energico riassetto dell’esercito, soprattutto ad opera di Gallieno, ch’era stato preceduto da Decio il primo Imperatore soldato di stirpe illirica, dalla quale, nell’anno della morte del sapiente Maestro, verrà il solare Aureliano. Tutto considerato, erano anni in cui tra le mura dell’Urbe l’esistenza trascorreva senza grossi turbamenti, i Romani avevano ritrovato la semplicità e in buona parte la costumatezza dei tempi andati. Plotino doveva ben conoscere la locuzione latina e il religiosissimo verso di Giovenale, indubbiamente ne ammirava la sapienza e anche la virtù medicamentosa che per divino consiglio poteva scaturirne. Egli aveva vagliato e studiato a fondo quell’antico sapere, ne aveva trattato compiutamente con i suoi discepoli. Plotino, il semplificatore, primariamente insegna che una brutta cosa è il materialismo, dunque esso è male, poiché, non essendo sotto il dominio della ragione ed informe, rimane estraneo alla ragione divina; infatti tutto ciò che è confuso, molteplice, mescolato, non informato e quindi non partecipe di una idea non è regolare e perfetto, ma brutto, deforme, privo della forma, ossia distante dall’Idea. In effetti, è l’unione all’idea, che, componendosi e organizzandosi le parti, ordina tutto in armonia, si forma l’unità. Infatti l’Idea è una e l’essere o l’ente da essa informato diventa uno, pur se composto di parti. In tale unità, in tale armonia è la bellezza; un corpo è bello, se s’accorda dunque alla bellezza dell’anima, della imago ideale che lo ha preceduto. Ora ben si comprende perché tanta importanza e tanto pregio attribuiva Giovenale all’antico detto, da arrivare al punto d’incomodare gli dei: orandum est ut sit “Mens sana in corpore sano”.

   Sappi dunque, Buon Uomo: solo da te stesso devi attenderti la salvezza! La troppa credulità non giova, infiacchisce, in specie se ultra millenaria e sostenuta dalla catechizzazione infantile, obbligata, dalla indiscutibilità dei dogmi e dalla memoria dei roghi. La credulità prolungata allontana dal proprio sé, estranea, aliena, obnubila la mente. Uomo, svegliati!  Dalla conoscenza di te stesso, o Uomo, da tal risveglio, discende la tua salvezza e la salute dei popoli. Necessita il ritorno sulla terra della Sapienza; voci struggenti chiedono che saggezza si affermi nei popoli, tra i popoli una volta rigenerati! Il Sapiente è colui che s’accosta al divino, e sottrae le genti all’ateismo, le tira fuori dall’oscurantismo materialista. La generosa Sapienza che protegge le nazioni dai vanitosi e saccenti demagoghi, tirannacci e tirannelli abbagliati da abietta presunzione, accecati da colpevole ignoranza. E tu, se dopo aver vangato e rivangato, giunto giù giù nel profondo, osando senza timore la ricerca entro te stesso, esaminandoti con bravura, coraggio e incrollabile volontà, finalmente ridesto, distogliessi d’un tratto la mente dalla indotta (e son secoli!) celesta astrazione, e d’improvviso in un bagliore, laggiù, tu scorgessi danzare una stella?

   Non nei cieli un tempo – fu un tempo senza menzogna! – l’uomo saggiamente contemplava, ma prima di tutto entro di sé, in quel ch’egli realmente è, nella essenza che porge il vero sapere, insostituibile, che non muta con il variare delle età, il centro custode degli aurei mores, dell’arte e della maestria per cui una volta vinto l’errore, col farsi modello di Giustizia e Verecondia, l’animo nobile perviene alla conoscenza del Vero, stella lucente di divina Sapienza e guida delle genti. Esci fuori da esta selva selvaggia del mondo che ti assedia, sii te stesso, soprattutto redimiti dalla credulità dei/nei “Credi!”, liberati! Nelle Upanishad, testi vedici, è detto:Colui che sostiene: “Altri è il dio, ed altri sono io”, costui non sa. Per gli dei egli è come una bestia.

   Quando sarai libero – simpliciter liber! – figlio di Liber pater, il corpo partecipe dell’ideale virtù,  la bellezza dell’anima, svincolato dalla bruttura della superstizione, in armonia con il bene, suprema bellezza, e realmente Mens sana in corpore sano, finalmente ti sarai meritata la semplicità propria dei liberi, la libertà vera, grazie alla quale riconosciuto hai te stesso e insieme appreso il tuo codice di comportamento, l’autodisciplina che ti si confà, cioè un agire retto sempre contenuto nel giusto; ti sarai fatto libero, creatore, generatore, origine di libertà. Animus simplex, divina unità, non sarai più un incredulo, romanamente potrai e in modo vero, sì, pregare Mente, la Menrva astata che è in te.

    Saprai in un momento, nel qui e ora, e constaterai, giunto il tempo, che tuo compito, ma anche una prova e una verifica, è prenderti cura dei tuoi vicini più generosi, di tutta una volonterosa prole, sono essi i tuoi figli e fratelli, compatriotti che, una buona volta incoraggiati dall’esempio, s’adopreranno con serietà nel duro combattimento. Sii pronto e confida nel divino che ti appartiene! Incrollabile fidanza si salda a speranza certa. Ora che in quella stella ti riconosci hai con te i Patres e gl’iddii della tua gente.

 

καταστροϕή

 

 

Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda,

calcolatrice? Scellerato, e scellerato bassamente.

                                                        Foscolo

 

   Sono imminenti i tempi della catastrofe? Tempi che spesso vengono annunciati violentemente calamitosi, tempi di disastri e rovine, severamente apocalittici? Insomma, il venturo dì d’un immane flagello: del cataclisma annunciato con ansimante respiro da chi si figura nella mente orribili cose, d’un finimondo non di rado presentato anche con sottesa, ma forse involontaria ironia. Quasi sempre il riferimento è alla vasta letteratura apocalittica ebraico-cristiana, letteratura che si rapporta alle dottrine escatologiche sul destino dell’uomo e del mondo, compenetrate del profetismo veterotestamentario decisamente pessimista su tali sorti, tanto quanto il messianismo cristiano-paolotto, dubbioso e diffidente verso tutta la condizione creaturale, costretta a sottostare a un ‘giudizio finale’ e a subire la fine della sua esistenza, il termine, un inesorabile termen del mondo. Una narrazione fantasy-orrorosa in grande anticipo rispetto ai tempi, ma del tutto accomunabile alla apocalittica filmografia hollywoodiana novecentesca. Si riconosce la stessa mano bionica! Eppure tanto horrorific, questa fisima ormai ultra millenaria, con secolare insistenza e batti oggi e batti domani, incombe perpetua minaccia nella mente di miliardi d’individui, dal netturbino al regnante, dal semplice alfabetizzato al premio Nobel. Nei giorni scorsi, mercoledì 17, leggevamo sull’ANSA in sintesi questo annuncio: “Papa: morte passaggio difficile ma il bello comincia allora...! Soddisfatte, mortali creature? Tanto vale far presto, anticipiamo le Apocalissi!

   Matteggiare, continuatamente e per lunghissime discendenze, è a parer nostro niente proficuo; ma se la maggioranza, e sono alcuni miliardi, ritiene uno spreco di tempo il coltivare la salute e serbare una “Mens sana in corpore sano”, democraticamente da essi segregati, noi, invece nobilmente isolati, in sette forse anche in cinque o in tre, ci riterremo sinceri discepoli degli antichi saggi e di costoro in stretta compagnia continueremo ad ascoltare la voce dell’Oscuro, l’aristocratico Efesino: “Il mondo di fronte a noi – il medesimo per tutti i mondi – non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spenge secondo misure.” E così, vicinissimi ai nostri Patres greco-romani: Uomini del bene prisco che non conoscevano ‘apocalissi’, perché da sé stessi artefici d’un divino destino e delle terrestri sorti.

   Catastrofe, però, è parola greca, ci vien suggerito, e non implica deterioramento mentale, insania. Con tale parola difatti i Greci si riferivano allo scioglimento dell’azione drammatica, nella tragedia. Il suo senso più comune è quello di ‘voltare al contrario, capovolgere’, anche di ‘sconvolgere’. A fronte, per esempio, d’una società umana ormai in cedimento, con le istituzioni compromesse, in caduta morale, culturalmente degradata, marcita nelle fondamenta, cos’altro se non attuare un atto rivoluzionario, al fine di rettificare la caotica situazione e operare un salutare capovolgimento, riportando un nuovo integrale riordinamento? E il tutto, si intenda, Pro Salute Populi!  Insomma, per quanto la catastrofe sia determinata da un perturbamento irrazionale, scatenamento di impulsi conflittuali, pulsioni e spinte bassamente istintuali, essa all’incontro prepara altresì l’azione purificatrice, la necessaria catarsi rigeneratrice. Eventuali previsioni catastrofiche quindi non dovrebbero indurre turbamento né cagionare estremo pessimismo, ma essere considerate con attenzione; inoltre occorre tener ben distinti catastrofe e cataclisma, anche al fine di proteggersi dal diffuso e con artificio oggi inculcato atteggiamento mentale cataclismatico, i nefasti media agitando la ineludibile soccombenza dell’essere umano all’avverarsi (prossimo e certo!) dei grandi sconvolgimenti climatici e terrestri; in lat. cataclysmos, anch’esso prestito greco, significa, infatti, ‘inondazione improvvisa, rovinoso diluvio, sconvolgimento tellurico’. Con il cataclisma l’uomo è in balìa, senza scampo, dei terrifici eventi naturali; è quel che sostengono giornalmente gli ecomanager dell’ecologismo mondialista, la scienza materialista, quella che pretende di accrescere la conoscenza delle umane creature, sono i compari degli apocalittici; son della stessa pasta, vicendevolmente si reggono il sacco.

   Intanto si preparano grossi e rischiosi eventi... La catastrofe del Nuovo Mondo? Oddio, il Nuovo Mondo! Un decrepito sopravvissuto e pessimo arnese, piuttosto marcio e dalle fondamenta; insudiciato dall’impudicizia, ingiusto, disonorato dagli immani eccidi; corrotto da barbare superstizioni, ateo, spergiuro, materialista iniquo, intenebrato! Eppoi, questa calca di gente stordita dai media, uscita di memoria e sul punto di perdere persino quella genetica, e pertanto, facilmente assoggettabile ad una artificiale alterazione del patrimonio genetico o necessitata a ricorrere alle protesi bioniche; individui svincolati dalla naturale distinzione biologica e suggestionati dalla insania del transgender e delle figliolanze in provetta! Ridotta ad una massa che non possiede memoria storica comune, strappata ad ogni avita tradizione e priva quindi d’un patrimonio spirituale; oggi, coinvolta in una guerra per ora impenetrabile ma carica di minaccia atomica. Si rende quindi indispensabile, urge la catastrofe. Sia la tua catastrofe, scellerato, immondo Occidente! Il tempo è giunto di mondificarsi e di mondificare; dal centro dell’antica Europa, investendo l’Occidente tutto si leverà un fremito tellurico e l’ululo del Martius lupus uno con il fragor Caeli. Si ribalta il carro torvo dell’usura, nel fango si dissipa il pensiero perverso dell’infido e freddo Calcolatore. Avanzando sui rifioriti sentieri terrestri, tornano Aἰδῶς, la Verecondia e Nέμεσις, la Giustizia. Torna ancor tu a splendere rimonda, o Europa, libera riprendi l’antico cammino! Cingi la tua fronte con il polare diadema, l’arcaica fascia di tela lina, inviolabile infula di luce, che s’oppone, irruenta folgore, all’infoscante panno del tenebrore! Il pensiero degli uomini si rivolta dalla parte giusta se un’azione avveduta e saggia lo rende puro e veridico, torna allora retto pensiero, torna nell’ordine antico, nell’armonia del cosmo. Diotima, la leggendaria Diotima, prepara lassù, nella favolosa Corte ove tutto ebbe origine, nel luogo del compiuto bene e della fulgente bellezza, l’antico simposio, il convivio dei saggi: “Adesso il pavimento è puro e pure sono le mani di tutti… – poetava Senofene – … Uomini saggi e sereni per prima cosa devono elevare inni al dio…”. Spetta agli amanti della Sapienza, remando contro la corrente rapinosa, riportare la barca del mondo alla scaturigine, salubrità onde sgorgano chiare, fresche et dolci acque, e in quieta confidenza con sé stessa, attiva vegliante, o amico lettore, ambirebbe a permanere la tua Mens sana in corpore sano, e di tanta, tanta, brava gente. Là, Diotima e Socrate attendono, con l’ottimo Platone e la sua Res publica della Gente perbene e onorata.

 

23 Agosto 2022 – Martis dies

nell’anno del duro combattimento

 

 

VIAGGIO ALLA CORTE

DELLA COMPIUTEZZA

 

O cuor salamandrato,

di viver sì infocato

Jacopone

 

 

 

Un segreto soggioga gli amanti

se fidato serbano il cuore.

Conosci l’amore sovrano

che giammai fu tradito?

 

Controcorrente sul fiume

remeggiavano le braccia d’Amore…

A prora il Cigno, la barca viaggiava

alla volta della sorgiva

dal melodioso canto.

Là, a nord del fiume aurifero

dove in veste d’asbesto

al foco s’avvinghia la Salamandra,

ed ha in custodia l’Ondina

gli orciuoli della rosata rugiada,

di zefiro abbigliate

danzano le Silfidi al suono

degli organetti da fiera.

Là, tra gli arcani monti selvosi,

degli appartati Gnomi

l’alcόvo nell’anca si cela

d’un erto sperone roccioso

ove il rostro l’aquila arrota.

 

Al ritmo di alati remi,

a prora il Cigno, risaliva

quel fiume la barca, scivolando

su uno zendole d’oro.

                                  Un fluire d’agili note                                   

libravasi in alto, congiunti

in uno gli sferi nel cielo.

Volgeva a valle sfrenata

corrente frattanto, laggiù

a perdersi nel vasto mare.

 

Un segreto soggioga gli amanti

se serbano fidato il cuore.

Conosci l’amore sovrano

che giammai fu tradito?

 

 

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dal DESTINO MANIFESTO    alla GUIDA DEL MONDO

 

aratrum ac gladius: disciplina virtutis!

 

 

His ego nec metas rerum nec tempora pono,

imperium sine fine dedi. 

                                          Virgilio,Eneide, I

                                                                                                                                                              

 

Orbis Mercurii, inquantoché in lui, di tutto è magistero, o di tutta la merce, risiede la cura”. L’enuciato è nel trattato seicentesco Chymica vannus; e ‘merce’ qui, non con il senso di mercanzia, va intesa come quel bene reale di cui l’Uomo si vale allorché partecipa dell’essenza principiatrice, non trascurando il merto che procede dal progredire nell’Opera – magnum opus et difficile – che conferisce il dono della conoscenza, e quindi ne è l’origine. La intellegendi vis, l’intellectus (intus-lectus,scelto, eletto, distinto) e, occulte, la scientia. E ancora copertamente, o meglio Latine, quel magistero d’una avita disciplina virtutis che provenendo dall’alto di tanto appartato seggio promosse, in quel tempo, un intero popolo a Quirites, il popolo di Ianus Quirinus, che, come tale, poté accedere alla Quirinalis porta; Quirino era appunto la terza figura divina della triade arcaica. La Sphaera Mercurialis in cui si prodigava il sommo magistero – e con attenta cura alla firma valetudo gentium, alla natura, qualità e indole degli individui umani – per gradi soffondendo di perspicace, armonica saggezza tutta la civium societas: res publica, sodalitates, ordines, collegia etc. Con l’insegnativa esemplarità dell’ordine e dell’ottemperanza virtuosa allo ius, legge umana, e al fas, legge divina, un popolo armato di prisca consapevolezza s’impose sulla barbarie che devastava le terre del Mediterraneo e l’intero continente, bandendo l’ingiustizia, l’offesa, il misfatto e la scelleratezza, emendando le genti dall’inverecondia e da delittuose superstizioni. Un popolo educato alla dura fatica della guerra, grave Martis opus, addestrato alla gravosa, impegnativa cultio agri vel agri colendi disciplina, agricolare opus.  Il culto divino dell’uomo che si pone nella Realtà, separata di netto dal falso, e in sé la verifica e la certifica; a quei tempi sinceri, non confusi, un culto esercitato primamente in sé e su di sé anche dal contadino soldato, il miles colonus. Tra i culti prischi della Saturnia Tellus, e mai trascurati, il culto tutto Latine di Liber Pater – che è Marspiter, che è Sol – e di Ceres, la Mater Libera.

 

    Ci sono eredità che resistono durevoli nei secoli pur nel logoramento delle usanze e dei costumi, nonostante il subentro di nuove fedi e ideologie, a dispetto dell’urto violento e inumano della modernità. Eredità costituzionali, concernenti cioè la costituzione organica della persona umana, sani retaggi altresì morali, intellettuali, culturali, eminentemente vitali e funzionali alla stessa ‘costituzione politica’ di uno Stato, rappresentando di esso addirittura il naturale fondamento, e indipendentemente da ogni formulazione legislativa o cartacea promulgazione. Tale fu Roma, una Costituzione vivente, uniter Senato e Popolo Quirite, S P R Q. ROMA, la legislatrice eminente, che estirpate le barbare superstizioni, portò al mondo la luce del Diritto e questo donò ai popoli; di esso insegnando i principi, la disciplina e la concreta formulazione e applicazione delle sue norme, la scienza giurisprudenziale: dei saggi la matura coscienza. Irreprensibilità, dunque, dell’operatore consapevole, sciente (da scindere, separare) di fare giustizia, vale a dire conscio della seria, grandissima responsabilità,che investe ogni iudex, l’arbiter, nel graviter suum cuique tribuere.

 

    Tale perdurò in avanti il retaggio italico e puranco europeo del leggendario contadino soldato, dall’Alto Medioevo al fatale agosto 1945. Sopravvivenza di virtù quiriti ancora nella prima metà del XX secolo; dipoi tutto mutò, si snaturò e rovinò sotto l’urto devastante delle scelerate, empie atomizzazioni e della sincrona disfatta suicidaria dell’Europa, con la fine della sua autorità e del suo primato politico e culturale nel mondo.  Teodoro Roosevelt, 26° Presidente USA, aveva fatto proprio il concetto di ‘Destino Manifesto’ del 11° Presidente statunitense, Mr. Polke, in carica dal 4 marzo 1845 al 4 marzo ’49, che già allora vagheggiava un predominio Yankees sul mondo intero e soprattutto l’assoggettamento dell’Europa, voleva insomma l’americanizzazione del mondo. Il bellicoso Teddy Roo, che nel 1898 a Cuba,nella guerra contro la Spagna, conduceva di persona in battaglia, pistola in pugno, il reggimento al suo comando, quindi, aggressivo e interventista ovunque, premio Nobel per la pace 1906, era solito dire: ‘I romani hanno conquistato l’universo. Poi lo hanno perduto. Noi siamo i romani moderni’. E ‘tanto dire’ ei sosteneva realizzando una potentissima flotta di guerra, con un costosissimo bilancio militare e, infine, battendosi per l’intervento degli eserciti statunitensi sul suolo d’Europa allo scoppio della Grande Guerra. Se poi vogliamo darci la briga di esaminare l’imperfetto, abortivo frasario del pacioso colonnello Teodoro R...evolver, Nobel pacione, è un dire simile a una bottata, rammenta la rozzezza d’uno shot, d’uno sparo a casaccio, andato a vuoto; congettura frutto di presunzione figlia d’ignoranza. Innanzi tutto, Roma non ha mai perso la universalità, intendiamo la Roma di Romolo, intendiamo la Roma di Augusto. Affermazioni, non c’è che dire, di tono imperialesco, ma vane, senza costrutto, ancorché allarmanti. Roma sorse non per esser parte d’un luogo, una polis che deve appartenersi, con sede nel proprio particolare e con il fine di badare a sé stessa, di affermarsi nel dominio o di avvantaggiarsene; venne, come già fu un tempo Saturnia, con il compito di raccogliere in una unità genti disperse, di universalizzare le nazioni, sottraendole al particolarismo, all’inselvaggirsi, allo sviarsi dalla virtù e dalla conoscenza; sorse per dirozzare e ingentilire i popoli, e fortiter rimuovere gli egoismi, la corruttrice avidità di profitto; per mandare in frantumi l’ostinatezza punica, con il bieco mercantilismo ambizioso, insaziabile di ricchezze e conquiste materiali e gli oscuri culti e idolatre superstizioni che ne incrementavano i traffici, le lussurie, gli eccessi e gli stravizi. Romano onere riportare nel mondo, divinitus, Verecondia e Giustizia; espandere, religiose, una vitale civiltà e la imperativa cultura del diritto!

 

   Nel mezzo dello scorso luglio l’attuale Presidente USA, Joe Biden, un ottantenne malconcio, ma dal sorrisetto autenticamente americano spiccante sotto il labbro superiore su dentiera bianco avorio, ha visitato il Medio Oriente, Arabia Saudita, Israele e i Territori palestinesi, con l’intento, a dir dei giornali, di ‘ridare un ruolo guida agli USA’. Insomma questo vecchietto, intellettualmente corto, poco vivace, ha copiato paro paro i suoi predecessori Mr. Polk e Teddy Roosevelt e, attualizzando le lor trascorse affermazioni, ha detto paro paro a tutti che gli USA sono pur sempre la guida del Mondo, come Teddy amava dire: ‘il destino ci manifesta esser noi statunitensi i romani moderni’. Ohibò! Che sfrontatezza! Eppure, è così, sono gli empi oggi alla guida del mondo! La New City, Karthago, la Città Nuova, entro le cui mura si praticavano, e anche oggi, oscuri culti ai moloc dei traffici, dell’usura, dei mercantili domini e dei materiali interessi, il tenebroso imperialismo punico dell’aggressivo espansionismo finanziario. Le chiese puritano-calviniste e i tantissimi conventicoli affini annunciano. “La grazia del Dio testamentario allieta coloro che hanno saputo materialmente accumulare grande ricchezza”. Abbiamo già definito, questa regola calvinista, una magnificazione teologale della usurocrazia mondialista e della ideocrazia finanziario-mercantilistica specifica dell’espansionismo USA. Espansionismo aggressivo, criminogeno, atto a generare ogni letale sorta di devianza sociale. E… l’ammasso armato, le torme, la fiumana, l’orda!

 

   Invece, noi torniamo al contadino soldato! Al combattente coraggioso e vittorioso, all’impavido che affrontò onorevolmente la sconfitta, al reduce fiero delle sue ferite e soprattutto delle sue battaglie. Al miles romanus – unus ex mille – uno dei mille. Così Varrone (Lingua latina, V, 16): “Milites, quod trium milium primo legio fiebat ac singulae tribus Titiensium, Ramnium, Lucerum milia militum mittebant”. In volgare: ‘Milites deriva dalla circostanza che originariamente la legione era composta di tremila uomini e ognuna delle tre tribù, dei Tiziensi, dei Ramni e dei Luceri concorreva alla sua formazione con mille militi.’ A questo punto dobbiamo aguzzare il comprendonio. Il linguista Varrone ci avverte che la parola milites, un plurale, si origina, deriva da un presupposto fattuale, cioè la formazione di una legione; questo vuol dire che il singolare, miles, nell’accezione distinta di milite o soldato, procede da quel plurale e, in fatti, è da intendersi come unus ex mille, uno dei mille. Generalmente con ‘mille’ si indica una quantità composta di dieci centinaia, ma può altresì assumere un valore indeterminato e comunemente si dice: mille pensieri, mille fatiche, mille altre cose; però, e a parte la convenzione aritmetica,la radice MIL racchiude sia un valore indeterminato, l’innumero, che l’opposto senso del riunire, il raduno, l’adunare, il raccogliere in uno. Il miles è appunto quell’innumero da riunire, non per semplicemente così divenire, fatto desolante, un numero da aggiungere a una quantità, alla truppa (milites), alle trenta centinaia, pur se tale operazione per regolamento necessaria a comporre la legione che in effetti doveva raccogliere in uno tremila uomini; ma proprio in quell’unus ex mille, in ognun d’essi, la legione aveva il suo fulcro, quel che la sorreggeva; un solido fondamento di militar servigio e di guerresca azione in quel miles colonus educato al grave Martis opus e bene addestrato alla laboriosa agri colendi disciplina, agricolare opus. Aratrum ac gladius: disciplina virtutis! Giacché, sosteneva Varrone, “exercitus, quod exercitando fit melior”.

 

   E tale fu il nostro contadino soldato! Poi dall’antica, severa milizia, dalla legione romulea, dall’uomo combattente secondo virtù e disciplina, si finì giù nella guerra sporca, ci si assuefece a sempre più barbari ammazzamenti, infierirono le orde, ci son piombate addosso soldataglie mercenarie, aggressive; abbiamo subito la comoda (in fortezza volante!) guerra contro gl’inermi, giù dai cieli deflagranti di bombe; addirittura la criminale, spietata atomizzazione di intere città, e ci siam spinti fino al partigianismo più partigianescamente fazioso, e oggidì ad una partigianeria cavillosa, tortuosa, involuta e largamente diffusa in tutta la società civile, in quel che ne resta, persino nelle scuole e, mostruosità, negli ambienti medico-sanitari! Il contadino soldato difendeva il suo focolare, la sua gente, la terra feconda, i frutti aurei della millenaria patria cultura. Il partigiano è l’apolide d’una ideologia spatriante, l’ideologia del Nuovo Mondo, da inferna loca il messo di primitive costumanze, degl’ignobili culti d’una selva idolatra d’uomini diseredati del divino, delle familiari virtù e della cultura avita.

 

*

 

      “... noi siamo i romani moderni... siamo ancora oggi la guida del Mondo”!?!

 

    Mirus! Vix credibilis! Sbalorditivo! Ohi ohi, Mr. Polke, Teddy Roosvelt, egregio singularisque Joe Biden! Non vi lasciate sopraffare dalla smania della romanità, ma nemmeno per ischerzo! Voi siete dei rompiballe, prepotenti business-man e piantagrane, dovunque comparite nel mondo è strage, malessere, disordine, e seminate rovine... Abbandonate questa vana, infondata presunzione, e smettetela di fare i ficcanaso! Per non essersi a tempo emendata di questo viziaccio, Kartathago, la New City, la vostra vecchia ava talassocratica e trafficona, le prese di santa ragione, scomparve dalla faccia della terra. Poi che siete in confidenza con il Papa, la Curia e i Gesuiti... ebbene, sic transit gloria mundi, rassegnatevi! la vostra punica potenza sta per tramontare, Roma non vi concede altro tempo. Non potete a vostro piacimento spadroneggiare ovunque sulla terra e nei cieli. Principes dei Caelum et Terra, dei magni sunt, divi qui potes, e nel mezzo deve esserci l’Uomo, iustus pontifex, l’Uomo il cui ufficio arduo e severo è far da ponte tra la Terra e il Cielo. I Deep State, i mega apparati? Nil! Non valgon nulla! Niente! se d’un tratto in Cina, in Iran, in Russia, in Serbia, o in un qualunque altro angolo del globo, dovesse comparire un vecchietto volitivo, deciso e dalla faccia dura, un certo M. Porcius Cato Maior...

 

    La parola presunzione deriva dal verbo latino praesumĕre, composto da prae=innanzi e sumere=prevedere, attribuirsi; il nostro vocabolario ci spiegherà, quindi, che il presuntuoso è colui che ha una troppo alta opinione di sé, che si arroga forze, qualità e conoscenze maggiori di quelle che ha; i romani usavano i qualificativi arrogans, insolens. Insomma la presunzione dipende da una carente, manchevole conoscenza di sé, propria degli egocentrici e degli autolatri. Immaturità, ignoranza che affliggono gli individui, ma altresì le società umane e i popoli che hanno smarrito la via della conoscenza. “Nati non foste...” Diversamente nel mondo non cesseranno le catastrofi – i guai del mondo! – come suol dire il volgo; ma del nobil volgo, corretto espositore delle proprie idee, restano pochi, schietti analfabeti di tutte le ultramoderne scienze e come noi tivvudicamente incolti alla perfezione, un volgo all’antica... se vi va bene, amici lettori... altrimenti disapprovate pure e convenitela a modo vostro, ma prendendo in seria considerazione quanto qui di seguito si riporta:

 

“[. . .] Se fu nella nostra natura di risiedere stabilmente nella medesima essenza, di arricchirci di noi stessi, non discendere in ciò che non siamo, non impoverirci di noi né pertanto congiungerci di nuovo alla povertà pur in presenza dell’abbondanza, se noi che non siamo separati dall’essere per luogo o per essenza, né da lui recisi per qualcos’altro, ce ne separiamo perché ci volgiamo al non essere, ebbene espiamo la colpa della lontananza dall’essere con la lontananza da noi stessi e con l’ignoranza, benché poi di nuovo, grazie all’amore per noi, recuperiamo noi stessi e ci riannodiamo al dio. Pertanto giustamente fu detto che l’uomo che diserta dagli dei si trova necessariamente incatenato in una specie di carcere e si sforza di sciogliersi dai lacci, come uno che, rivoltosi alle cose di quaggiù e abbandonata la condizione di essere divino, è, come dice [Empedocle], “in fuga dagli dei e ramingo”. Tanto che ogni resistenza meschina è piena di schiavitù e di empietà, e per questa ragione è anche priva di divinità e di giustizia, in quanto un soffio vitale pieno di empietà e per ciò stesso di ingiustizia vi prende consistenza. Così ancora giustamente fu detto che il giusto lo si trova nell’agire che corrisponde a quel che si è, e che il simulacro e l’immagine riflessa della vera giustizia consistono nella distribuzione del dovuto a ciascuno di coloro coi quali viviamo.

da Porfirio-Sentenze, tr. Massimo Della Rosa

 

 

7 Agosto 2022 – dies Solis

 

 

 

 

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UNA PUGNACE CONTESA

 

        ARROGANZA E ARMEGGI a ponente     TENSIONE E SANGUE a levante

 

 

II

 

 

 

 

Storia è mito, puntuale mito d'una caduta

dell'Uomo resa palese nel tempo.

Henry Miller

 

At nobis, Pax alma, veni spicamque teneto; 

perfluat et pomis candidus ante sinus.

Tibullo

 

 

 “Di quanto pochi popoli è possibile la storia! Un popolo acquista questo privilegio solo mediante una letteratura, o le opere d’arte – poiché, diversamente, cosa rimarrebbe di individuale e di caratteristico in lui? È naturale che un popolo diventi storico solo quando diventa una collettività pubblica. Ha forse un’esistenza storica l’uomo prima di essere maggiorenne e di rappresentare un essere particolare?”

Questo passo è del Novalis, il 58° dei Frammenti di Teplitzer (tr. L.V.Arena).

 

   Illuminati da questa esemplare, impeccabile riflessione filosofica del Novalis  semplice, naturale, giusta notazione sul piano socio-politico, quindi obiettivamente compiuta sul piano storico – e indifferenti sotto l’aspetto emotivo, ci arroghiamo il diritto (ben s’intenda del tutto demo-eccetera) di formulare qualche nostra considerazione sulla bellicosità, ossia su tanto e vasto subliminale spirito guerresco che ha scosso il pacificissimo Occidente, dal bossismo yankee esperto nei genocidi atomici e al napalm, bombe incendiarie o a grappolo, al discepolato atlantista; e seppur modesti servi,  questi legati al 'Patto', non sono meno zelanti armaioli  e istigatori, oltre che lanciatori di bombe all’uranio impoverito. Tutti, per carità, filantropi e fautori della democrazia, cristianissimi, puritani, evangelici, apostolici, catto-comunisti e tutte queste cosette qui, onde puoi fare quel che ti pare, le azioni più criminali, senza incorrere in tribunali, fucilazioni sommarie e capestri! E soprattutto si evitano le pene degli inferni, essendo gli inferni già saturi e stracolmi di bombardati spirti e d’incapestrati figli di p . . . oliticamente scorretta! Eppure, nulla di più criminale (barbaro e inumano) oggi al mondo, e c’è da rammaricarsi se ai più parrà inverosimile, della democrazia atomicamente imposta, esportata, importata o servilmente accettata che sia. E davvero, dopo l’atomizzazione di Hiroshima e Nagasaki, dopo l’atomizzazione dell’anticamente inviolato subliminale del mondo un tempo coltivato e protetto con l’esercizio delle virtù civiche, difeso dalla sacertà delle istituzioni religiose, che ne sarà dei popoli affidati a tali litigiose turbe di spregiudicati manipolatori ed esperti in demagogia? Guardiamoci in giro, che desolazione! Incapaci di degne iniziative, incolti, incoerenti, abulici, corrotti, servili, rovina dei popoli, zombie! E qui, nel paese Italia, è meglio serrare le palpebre, tapparsi le orecchie alla vista e al vociar di costoro, grossolani, dozzinali, del tutto banali e impudentemente intriganti, ambigui, evasivi, infidi dalla cuffia ai calzerotti, tortuosi, spregevoli politicastri. E la gente in balia del loro camorristeggiare, della loro raffinata, maliziosa mafiosità! E prosperano camorre e mafie, mentre il popolo arretra nell’inerzia e da dietro le quinte lo statista in abito talare, il milite gesuita, con il codazzo dei gesuitanti, conduce il gregge al suo ovile per la mungitura, la tosatura e il sacrificio dell’agnello. . .

 

    E oggi tocca al belante agnello ucraino. . .

 

    – Toh, belecchiano con i mitra quei zelenskyti. . .

    – Perchè spaventati dall’ Orso russo! – replica lo stoltennato di turno.

    – Si! Si! Quell’orsaccio del ca...del ca...Put...Puh! – balbettano le draghesse e i dracunculi a un cenno del Dragon dal volto bieco! 

  – Orsaccio? Per nulla! Quel bonaccione dell’Orso del Caucaso? Vive tranquillo in quelle terre, i Russi gli vogliono bene, e non rischia l’estinzione. – Obietta uno studioso tolstoiano con tono sdegnato. – Piuttosto ragioniamo dell’Orso nordamericano, tanto aggressivo, che ha ridotto a poche decine di migliaia e in spazi obbligati e delimitati il suo rivale, l’Ursus Arctos Horribilis, il più grosso e aggressivo tra gli orsi; il malcapitato, del resto, Orso grigio, il Grizzly, poveraccio! Forse la sua natura, quella riposta, segretissima a esso individuo ma non alla specie, rimpiange i tempi in cui l’aggressività, anche quella delle fere, era mitigata dalla vicinanza delle tribù degli Uomini, i suoi amici Cheyenne e Sioux, che si rivolgevano al Grande Spirito acciò la pace scendesse su tutti i viventi; e se chiamati al combattimento, mai i guerrieri si mostrassero feroci o sleali.  Schivavano la nocente malvagità uomini e fere.  

   

   Poste queste riprensioni memorative e chiarificanti, è debito riportarci prontamente al pensiero del Novalis riprodotto a capo di questa pagina e a formulare, dopo tanto inchiostro azzardatamente scorso dal pennino, le promesse considerazioni sugli eventi in corso e la conseguente psicosi bellica che ora affligge l’Occidente guerrafondaio e la nostra paciosa (ma altrettanto litigiosa) Penisola che vien fuori, brutalmente stroppiata, da due anni e passa di pestilenze telediffuse, strapazzata da una dannosa e insopportabile classe politica, davvero inimmaginabile, impensabile se non addirittura stentatamente inconcepibile. Situazione insomma paradossalmente incredibile! E, alt! fermiamoci qui, altrimenti rischiamo di ritrovarci nel buscherio della scempiezza politica in cui al presente affoga il vitulame rinchiuso nel democratico bovile, ogni capo alla corda e in doppia museruola. In questa democrazia, tutta importata, non c’è nulla di buono; una ragguardevole folla di speculatori, trafficanti e opportunisti sovrasta un insieme di sfruttati e vittime; manca il popolo, che, infermiccio e vieto, si è ridotto a una guasta, incolta società di massa. Occorre dunque operar sodo; animo, su, per il ritorno del Popolo d’Italia!

 

   Da quanto si è potuto osservare, una volta spazzata via la propaganda, e quindi considerati e valutati gli eventi  con un giudizio da potersi ritenere quanto più possibile spassionato, realistico, obiettivo, ossia neutro e non fazioso, allo stato e all’attuale situazione del popolo ucraino, a parer nostro, s’addice appieno l’attenta opinione del Novalis sulla caratterizzazione d’un popolo e  la sua maturità a realizzare un destino, cioè a stabilire per sé, o assegnarsi persino, una destinazione storica. Il rischio grosso dell’acerbo operare, della inesperienza, è il cadere facilmente preda di estranee, cioè interessate mire, spesso il trovarsi intricati in astuti intrighi. E quest’ultima evenienza ci par sia l’accidente sciagurato, fatalmente complicatosi, in cui si è imbattuta l’Ucraina e non riesce a sottrarsi. Il suo popolo non ha sufficientemente dimostrato ad oggi di essere una comunità matura, in possesso d’un ben orientato, giusto e inconfondibile interesse nazionale e dedito al culto e alla cura d’un bene comune, civile, culturale, morale, politico etc., custodito e lealmente partecipato da tutti i cittadini.

 

   Ai tempi orrendi di bolsceviche memorie non esitò l’Ucraina a dotarsi di una dirigenza politica incline a quel terrore che produsse la cosiddetta ‘coscienza della rivoluzione’, che finì per realizzare, eliminato il capitalismo, la ‘società socialista’ atea e materialista. In primo luogo è da osservare che la rivoluzione bolscevica, e i comunisti ucraini non da meno, operarono per la distruzione del sentimento nazionale delle popolazioni, compresa la distruzione delle unità familiari e senza risparmio di sangue. I bolscevichi puntarono ad emulare l’Occidente “borghese e capitalistico” nella meccanizzazione e nella industrializzazione senza la necessaria preparazione, con subitanea forzatura. Questo avveniva in tutti i territori della URSS. Quando in tutto il mondo comunistizzato si procedette alla modernizzazione dell’agricoltura e quindi all’integrale collettivizzazione del lavoro agricolo con la contemporanea lotta contro il contadino, visto come un controrivoluzionario, l’Ucraina che era soprattutto terra di contadini (kulaki), con gran numero di braccia dedite alla cerealicultura, si trovò coinvolta nel gran disastro che sopravvenne a cagione di quella dissennata scelta politica (e ideologica!). Il contadino serba gelosamente le tradizioni e il carattere distintivo di esse, quello patrio, è altresì fedele custode delle costumanze religiose e civili, integro difensore della morale familiare. Era stato il ministro dello zar Nicola II, il nazionalista Petr Stolypin, assassinato (guarda caso!) a Kiev da un rivoltoso ebreo nel settembre del 1911, a promuovere la riforma agraria che stabiliva la divisione delle terre comunitarie tra i contadini e creando così la proprietà privata contadina servita anche da una Banca Agraria. Fu quello un momento cruciale, decisivo, nell’esistenza delle genti ucraine e per comportamenti contrastanti, opposti, si sarebbe presto rivelato invece un terribile frangente. Quella collettivizzazione integrale del lavoro agricolo fu avversata dai kulaki in tutta la URSS e si manifestò un risoluto tentativo di resistenza. I bolscevichi, tra cui molti erano ebrei ashkenaziti, reagirono con dure imposizioni, si procedette a massicce requisizioni e a perseguire quelli che ormai erano ritenuti pericolosi controrivoluzionari. Sopravvennero le dure carestie sovietiche del 1931/33. Paese soprattutto agricolo, era chiamata il granaio d’Europa, e con un’altissima popolazione dedita alla produzione e al mercato cerealicolo, l’Ucraina si trovò a esser schiacciata dal suo contraddirsi, dal suo muoversi incoerente, confuso. La collettivizzazione voluta dai sovietici, allora stalinisti, si mutò in una carestia terroristica e nella spietata repressione bolscevica. La carestia provocò oltre quattro milioni di morti nella sola Ucraina e ne profittarono i bolscevichi per annientare la ‘classe controrivoluzionaria contadina’.

 

   La carestia e la mortalità imperversarono in Russia, in Bielorussia, in Siberia e nel Kazakistan, ma l’Ucraina fu il luogo in cui più crudelmente la fame e la morte di stenti furono sperimentate da una intera popolazione   al pari d’un martirio, al punto di attribuire a tanta tragedia un nome: holodomor. Un nome a un trafiggente, atroce dolore, tanto profondo da imprimersi e per lungo tempo sopravvivere nella memoria collettiva! E che dire dell’odierno grido, slava Ukraini, che incita a immolarsi e a versar sangue in una guerra combattuta per conto di chi dell’Ucraina quasi nulla importa, quel infido Occidente atlantista che, trafficando in armi, va importando in giro  la sua democrazia falsa e bugiarda, le sue mafie, le sue speculazioni, il suo mercantilismo usurario, le sue pesti con al seguito la ben nota spregiudicata farmacopea, il suo disumano scientismo, e poi inverecondia, ingiustizie, ateismi e materialismi vari, simile in tutto ai suoi compari bolscevichi; i compagni di oggi gli stessi di ieri. Ragionevole indizio d’un popolo psichicamente depresso, spinto alla ricerca di situazioni ambigue, difficili, penose; un popolo, è da supporsi, che rasenta l’algofilia. Un popolo che utopicamente ritiene vitale, giovanile, voler rimanere in una permanente fase di formazione, lungi dal raccogliersi e incentrarsi in un cosciente processo di affermazione, per cui si manifesta intempestivo e impreparato nelle sue pretese velleitarie di fronte alla storia. Attualmente il Presidente del paese Ucraina è un ebreo ashkenazi, attore TV e comico a rimorchio USA e NATO. E qui conviene pur menzionare Leonid Breznev che fu alla guida dell’URSS dopo il ritiro di Chruscev dal 1964 al 1982. Nato a Kamenskoe, era orgogliosamente ucraino, Breznev fece del Partito Comunista e del suo apparato burocratico, assimilato a quello statale, un formidabile strumento di potere, accentuando così la distanza tra il regime bolscevico e la società civile sottoposta a brutali repressioni. Da Leonid a Volodymyr, dall’accigliato cespugliuto e zelante Capo bolscevico allo Zelenskyj di turno, sempre uno zelota al comando! Un mistero doloroso? Or dunque, proprio riprendendo il discorso riguardo a l’holodomor, ritenuto un sintomo indicativo, sebben presenti più segni rivelatori, ci pare poca cosa rifarsi alla sindrome di Peter Pan, fuga dalle responsabilità dell’età adulta, trattandosi nel caso ucraino di una sintomatologia non semplice, ma complicata, profondamente oscura.  Meglio è ricercare tra dati, elementi del posto, evidenze prossime, segni e note di contrada. E non è un caso che in Ucraina, nel 1836 a Leopoli, nella Galizia allora provincia dell’Impero austro-ungarico, sia nato Leopold von Sacher-Masoch, da genitori ucraini, la madre una nobile rutena, il padre capo locale della polizia imperiale.

 

   Il barone von Sacher-Masoch fu un grande scrittore di romanzi e novelle in lingua tedesca; non narrò fatti nella lingua madre, preferì cimentarsi nella lingua dell’Impero.  Cionondimeno raccolse tra la sua gente e le etnie del posto una gran quantità di informazioni, umori, costumi, caratteri, immaginazioni, vicende, onde dell’anima di quei luoghi e di quei clan ebbe piena approfondita conoscenza; scrisse, tra l’altro, racconti e novelle di Galizia, racconti di russi, di ebrei polacchi etc., non tralasciando nulla, anche gli aspetti più crudi. Al suggestivo ricordo di alcune passate letture ci ha raggiunto l’impressione e sfiorato la supposizione che nella sua opera di narratore non manchi tra le tante righe una traccia riflessa dell’anima delle genti che gli han dato i natali. Non staremo qui a rovistare tra masochismo e sadomasochismo, dopo che il filosofo francese Gilles Deleuze con il suo acuto studio Il freddo e il crudele ha affrancato dallo psicanalismo freudiano e recuperato alla letteratura l’opera dello scrittore, confinandone nella desolante biografia dello stesso la ‘conturbante perversione’. Il Deleuze ha rivendicato al masochismo una propria tematica letteraria, artistica, ideale, etnica; ha poi, nettamente separato le due categorie, sado/maso, come enunciate e raffigurate dalla psichiatria; a suo dire, nemmeno sussiste il sadomasochismo; il masochismo non prevede il sadismo, il sadismo non consente il masochismo. Inoltre è proprio ed esclusivo del masochismo lo stato d’animo di chi sta in vana attesa, l’esperienza dell’apprensione, della tensione ansiosa cagionata dall’incertezza che possa non sopraggiungere la situazione dolorosa propiziante l’estasi; il supplizio, il martirio che provocano e accompagnano piacere e godimento. Le circostanze e situazioni storiche dolorose (combattere oggi contro il popolo consobrino) in cui intenzionalmente va a cacciarsi la Nazione ucraina fanno presupporre una vocazione al patimento e alla tribolazione dell’anima collettiva dei ruteni. Un ‘perverso’ martirare nella discontinuità dei tempi d’attesa... attesa d’un evento messianico... la straziante attesa della più sublime delle idealità... un’estasi avvilente, poi il dolore estremo, inclemente.

 

   Ma altro è l’Occidente! Opposta identità di sé attesta oggi l’Occidente atlantista; l’Occidente sadico, criminaloide impune che ha atomizzato il globo terraqueo, il perfido punico, un moloc, il mercante dall’insaziata brama, incessante trafficante in armi...

 

   Paese di confine, terra di demarcazione, ossia da doversi necessariamente definire con esattezza al fine di renderla stabile sede, l’Ucraina. Ma le sue genti sono protese nell’apprensione, nell’aspettativa... sono le genti che dettero i natali al barone ... von Masoch, della cui arte letteraria abusarono Freud e gli altri accoliti brutalizzandola in una categoria psichiatrica e ne fecero il masochismo e i sadomasi/e. Tutto ciò a noi non importa un granché; se qualcosa d’interessante, singolare e insolito, abbiam tratto fuori lo dobbiamo all’arte narrativa del barone e alle tracce d’una tipologia slava dispersa nel messianismo, in essa arte da noi recuperate e qui segnalate; tracce, tra percezioni e intuizioni, che il narratore ruteno volle esplicare, forse per evitar contraddizione, in lingua germanica.

 

   E l’Occidente???????  Le sue oligarchie, sempre gli stessi, si compiacciono a scimmiare lo Yankee! Il buonista Yankee che possiede l’arsenale atomico più strapotente al mondo.  L’atomizzatore di Hiroshima e Nagasaki, che a Los Angelos negli studi di Hollywood, con spirito filantropico, creò il mito stupefacente dell’Atomica nella persona d’una star, l’attrice Rita Haywort! Questa figura femminile dal fascino latino e dalle forme prorompenti, per antonomasia l’Atomica, penetrò nelle pupille di milioni e milioni di spettatori al buio nelle sale cinematografiche di tutti i continenti e, attraverso le pupille, nei cuori della gente. E così, dopo la II Guerra Mondiale e mentre nel mondo altre sanguinose guerre si succedevano, per merito dell’Atomica, pacificamente la gente continuò a campare sicuti flumen cum pace delabens. E continua a vivacchiare questa gente d’Occidente, mentre l’agnellus ogni giorno versa il caldo sangue.

 

   Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?

       Quam ferus et vere ferreus ille fuit!

   Tum caedes hominum generi, tum proelia nata;

        tum brevior dirae mortis aperta via est.     

 

   L’Occidente ha smarrito il cammino. Si è allontanato dalla conoscenza. Ha persino trascurato la sua cultura, il suo diritto, i suoi verecondi costumi. Dileggia la bellezza, e non c’è più mente d’artefice che di essa partecipi. Alienandosi da Mente (allor che disconobbe Mentore, la saggia guida, il Padre) si è straniato dalla realtà; grex Ecclesiae, bovinamente disperdendo la sua virile essenza nel grezzo vitalismo; ridotto a taglio di carne, American rosbif, ha rinnegato le sue arti antiche, la sua poesia, i suoi musici, i suoi vati. E l’interrogativo di Tibullo sull’inventore delle orrende spade, e la sua deplorazione e condanna delle carneficine e delle guerre, risuonerebbero oggi indulgente disapprovazione e benevolo biasimo, quel ferus e quel ferreus, di fronte all’enormemente mostruoso e al terrificante della strage atomica su cui basta poi cali il velo del sex symbol, l’Atomica, la star dalle forme prospere e prorompenti! E il mostro della Terra, l’efferato in bona p ... paceficamente continua le sue guerre...

*

 

   Adesso, una pausa! Una necessaria sospensione per non soggiacere all’afa soffocante del nostrano zelenskismo dei politicanti e dei tivvudisti. . . al servizio dei guerrafondai in pancerina.

 

 

LA GRANDE PORTA DI K I E V

 

 

  

 

   La storia della città di Kiev è lunga e complessa e principia con i movimenti delle genti norrene dalla Scandinavia verso il sud-est europeo. Variaghi, Vichinghi e guerrieri germanici scesero in quei luoghi soprattutto su invito di genti slave e finniche, tra loro in dissidio, al fine di pacificare i litigiosi e portare tranquillità in quelle terre, stabilendovi anche proficui traffici. Tra queste genti, norreni, germanici e vari gruppi slavi intervenne una rapida assimilazione, si segnalò in particolare una stirpe russa. Kiev fu fondata intorno al V secolo. Dall’882 al 1169 fu il centro più importante d’uno stato slavo orientale detto Rus’ di KIEV e nei primi anni del X sec. il principe Variago, Oleg di Kiev, vi portò la capitale e tale rimase sino al 1169, quando poi subì una tremenda devastazione alla calata dei Mongoli.

 

  E noi, invece, con un volo di circa sette secoli ci ritroveremo a Kiev nell’anno 1870 dove si consolida una virile amicizia tra il grande compositore russo Modest Musorgskij e il famoso pittore e architetto russo Viktor Hartmann.  Era stato il critico letterario e critico d’arte Vladimir Stasov a far incontrare i due artisti, ché entrambi si rifacevano alle radici culturali e alle più antiche tradizioni della terra russa. Ma Hartmann morì nel 1873 per un aneurisma, a soli trentanove anni. Il critico Stasov per celebrare l’artista scomparso allestì nell’anno successivo una mostra di quadri, disegni e acquerelli presso l’Accademia di belle arti di San Pietroburgo. Tra le opere esposte vi era il progetto, realizzato anche in un quadro, di una porta monumentale a Kiev in stile russo e cupola a forma di elmo slavo, per celebrare la salvezza dello Zar Alessandro II Romanov nel fallito attentato del 4 aprile 1866. Struttura che però non sarà mai realizzata.  Ma Musorgskij, visitata la mostra, rimase vivamente ammirato e tra il febbraio e il marzo 1874 compose la celeberrima suite in quindici brani, Quadri di un’esposizione – La grande Porta di Kiev è il decimo brano. Con tale opera Musorgskij celebra trionfalmente e con toni maestosi e solenni l’antica gloria del suo popolo, gloria risonante di felicità. Esalta la calotta/cranio della città di Kiev, nella pittura dell’amico vi si raffigura l’elmo slavo, la Mente, la Minerva di genti guerriere: la Rus’ di Kiev. La Kiev del principe Oleg, dei Variaghi, dei Norreni, delle genti slave, dei Cosacchi, degli Ucraini che parlano anche il russo, dei Russi di Kiev che non disdegnano l’ucraino. Un paese davvero slavo e legittimamente europeo; non la sorciaia zelenskita corrotta e in combutta con un atlantismo schifoso e pavidamente guerrafondaio.

 

*

 

   A Mosca nel cimitero di Novadeviij è la tomba di Nikolaj Gogol’, era nato a Velyki Sorocynci in Ucraina il 31 marzo 1809, morì a Mosca il 4 marzo 1852. Gogol’ era ucraino, suo padre era noto come scrittore di commedie in lingua ucraina; autore di capolavori universalmente conosciuti, Nikolaj scrisse unicamente in lingua russa e Dostoevski lo riconobbe come il padre della letteratura russa successiva all’inizio della II metà dell’ottocento. Tra i suoi capolavori c’è il racconto Taras Bulba, un’epopea cosacca ambientata nell’Ucraina del XVII sec. e nel quale c’è pure la sua testimonianza e una descrizione dell’anima popolare della sua gente. A Mosca nel cimitero di Novadeviij è la tomba di Michail Bulgakov, era nato a Kiev il 15 maggio 1891, morì a Mosca il 10 marzo 1940. Fu il più grande scrittore russo del primo novecento; son conosciuti in tutto il mondo i suoi romanzi La Guardia Bianca e Il Maestro e Margherita; nacque a Kiev da famiglia Russa di Kiev, ove si parlava pure la lingua ucraina. “A Kiev sono parlate comunemente sia l’ucraino che il russo. Al censimento del 2001, circa il 75% della popolazione di Kiev ha dichiarato di considerare l’ucraino la propria lingua madre; intorno al 25% il russo. Secondo un sondaggio del 2006, il 23% degli abitanti di Kiev parla a casa l’ucraino, il 52% il russo, mentre il 24% parla correntemente entrambi.” (da Wikipedia, l’enciclopedia libera; alla voce Kiev, 5. 1 Lingue)

 

   A Kiev l’Accademia musicale nazionale è intitolata a Petr Cajkovskij, il più grande, universalmente conosciuto, musicista russo della seconda metà dell’ottocento. L’Università nazionale, invece, al poeta e pittore ucraino Taras Sev’cenko, 1814/1861, che scrisse anche in russo e si riferì e riallacciò alquanto all’arte e alla letteratura russa, ma il cui messaggio artistico e ideale, pur se generoso e sincero, si prefigge il destarsi d’un nazionalismo ucraino e insieme tenta una giusta risposta alla questione sociale. Una visione, tutto sommato, umanamente comprensibile, ma che trova ragionevole posto e con appropriata naturalezza in un ambito prettamente regionale.

 

   Dall’Occidente, seminatore di menzogne con sembianza di verità, esportatore di fittizie democrazie, vanno sempre più diffondendosi psicosi di pesti e di guerre; quest’Occidente è ormai un male spiacevole che  sfacciatamente si propaga. Un qualcosa di adeguatamente propizio, guidato da un qualcheduno con salda volontà e buona disposizione, da un artista fecondo, dovrà pur fermare questo sconcio, bloccare la minaccia di questo incubo, dissolvere questo insensato terrore, arrestare questa larva, importuna e molesta.

 

 

6 Luglio 2022 – Mercurii dies 

 

 

 

Oleg di Kiev
Oleg di Kiev

 

 

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UNA PUGNACE CONTESA

 

                     SCOMPIGLIO a ponente    SANGUINOSA RISSA a levante

 

 

I

 

 

e questa d’oggi fuggevole schiatta d’umani

corre il rischio di disumanarsi in fattezze aliene,

pressoché un androide...

 

 

   “Se è proprio della nostra natura il risiedere stabili nella di noi essenza per arricchirci di noi stessi e non calarci in ciò che non siamo, verso il basso con il rischio di impoverirci, trovandoci così nuovamente nella povertà sebbene a nostra disposizione sia tanta ricchezza, e sebbene, né per luogo né per essenza, siamo disgiunti dall’essere o per alcun altro motivo estraniati, e noi invece ci separiamo da esso e ci convertiamo al non essere, di tal allontanamento pagheremo il fio naufragando nell’abbandono di noi stessi e quindi nell’ignoranza; soltanto per amore e di noi cura poi riusciremo a ritrovarci e a riunirci al dio. Fu giustamente detto che l’uomo separandosi dal divino proposito si trova carcerato e in catene, pertanto tenta di sciogliersi da quei legacci; dacché preso dalle mondane cose per avere abbandonata la divina condizione, è come fu detto “in fuga dagli dei e senza meta vagante”. Un’esistenza spregevole è tutta schiavitù e addirittura empia: atea quindi e ingiusta. E così pur saggiamente fu detto che retto agire è assolvere bene il compito cui si è inclini, e che immagine di vera giustizia è rendere il dovuto ai prossimi a noi.” (Porfirio, Sentenze)

 

  “Suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo”, già molto prima di Porfirio, aveva sentenziato Cicerone dalla urbs aeterna, la Romana urbs. L’Occidente immemore però ha tracannato più d’un “calice d’ebrezza obliviosa”, a citare il Tommaseo, e prave stulteque s’è volto in opposta direzione (devortit), divertendosi a uniformare, a pareggiare, calandosi nelle bassure d’uno spianamento totale che non si riscontra nemmeno nei gruppi sociali comunistoidi più primitivi; una scimmieggiatura amerikana, yankee in mezzo tàit e con tanta democraticheria... cottidie trafficante in armi e atomicamente ultra, cioè oltre, più oltre... atomorum virorumque business!!!

 

   Cazzerola! perché cotanto cazzeggiare? Son fatti seri! E questa è tutta gente che va presa sul serio! C’è poco da scherzare...

 

   Gente che va presa sul serio? Certo... ma non per quanto e per quel che pretende! Son dessi burattini, marionette, fantocci... Mica possiamo intrattenerci alle burattinate, varrebbe sedersi davanti alla tivvù; oh, tontoloni! Piuttosto occorre indagare e seguire attenti le peste del fabbricante, dell’abburattatore, quello che li vaglia, li sceglie e presta loro mosse, movenze e parola: il BURATTINAIO! Dal canto nostro, inoltre, serio è tutto ciò che merita rispetto, che segue la via della rettitudine; questa è gente seria! E i fatti seri sono quelli eccellenti, i fatti che destano ammirazione. E, allora? Se d’improvviso infuria la bufera? V’affidate all’autorità degli scurri e delle scurrule, o ai troppo seduli zeloti? Al facinoroso fascinatore zelenskita? Ohi, tontoloni, spegnete quel attrezzaccio, non v’accorgete che v’indraga il cervello, il quale giorno dopo giorno diventa sempre più aggressivo, prepotente, litigioso e finisce col piegarvi e assoggettarvi alla grande desertitudine che grava sempre più sul mondo?

 

    Dalla romanità ci viene il monito che si deve a ciascuno quel che gli spetta; ma ciò può aver luogo solo al cospetto di verecondia e giustizia; ed è certo che non v’è giustizia laddove inemendabile è l’inverecondia. Sono da ritenersi quindi virtù non disgiungibili giustizia e verecondia; si può affermare che non sono per nulla distinguibili. Entrambe richiedono un retto, integerrimo contegno, onestà, un’ordinata, governata prassi, una castigatezza dei comportamenti. Verecondia, difatti, è aversi cura e nel contempo aver rispetto altrui; rivolgere somma attenzione a sé stessi, per essere norma in sé e di sé; è tale disciplina che offre all’uomo, all’individuo educato (per buona sorte dal giusto e saggio centauro, il famoso Chirone), il modello primo, la regola giusta di conoscenza dell’altrui virtù, valore o disvalore, ossia per l’equanime, imparziale, apprezzamento dell’umano agire, quello proprio e l’altrui. Tali furono i Viri, gli antiqui Patres, la Legge vivente! Il legislatore che porta in sé la legge, fa la legge e con viva parola, autorità del verbo, la offre alla comunità. E indi il Popolo dei Quiriti, che a quel tempo la espresse, la significò, dunque rappresentò la legge e di tanto imperio e divino ordine fece dono al mondo.

 

 

SMARRIMENTO DEL DIVINO MODELLO

 

 

Nel Tartaro remoto e tenebroso

 . . .  . . .  . . .  voragine profonda

Che di bronzo ha la soglia e ferree porte,

E tanto in giù nell’Orco s’inabissa,

Quanto va lungi dalla terra il cielo.

                                          (Omero, Iliade-L.VIII,16/20, tr.Monti)

 

 

   Per tutto il tempo che di quel dono durò memoria, nei popoli d’Europa un’orma del divino modello si conservò, e nelle nazioni, loro culture e ordinamenti, con l’universo nome di Civiltà classica. E così è stato, nonostante le invasioni barbariche, l’enorme sconvolgimento dei costumi e dei sistemi statuali, l’estremo smarrimento religioso con il diffuso e aspro settarismo, e poi con le sanguinose guerre intestine. Guerre intestine in Europa che dureranno nei secoli, perché nel cuore del suo mondo s’era insediata appunto la nimicizia, l’avversione, l’oscuro, mortale, millenario inimico dell’idealità Romana. E non ha desistito l’insidioso, né mostra di voler desistere dal secolare plagio negante all’uomo la via alla conoscenza, con l’incarceramento di mente e anima delle genti europee nell’allucinante teologia biblica. Teologia universalizzata (???) e frattanto sminuzzata (adattandosi il racconto caso per caso) in una inconcludente sequela di versioni settarie, salvo insistere – guarda caso! – dal dominante centrale seggio dell’Urbe Eterna, nell’imprescindibile dogmatico primato (in oblio le fiamme dei roghi e le infami torture!) del Sacro Librone. Un Libro che appartiene ai nostri tempi del confuso e dell’infondato, un unicum vecchio e nuovo, in cui è riposta la mistica traviante della ‘Gerusalemme celeste’, dove le anime dei credenti defunti troveranno la benevola comprensione del papalino; già, quello scaltro multiforme d’un paparino clericale! Lui, con gran degnazione, concede la beatitudine eterna al bombardatore atomico – infandum! – che sull’istante, ferreo e spietato, estingue, maxima culpa, centinaia di migliaia di umani incolpevoli; mentre, e sempre Lui, sdegnatissimo, condanna alle fiamme perenni dell’inferno il seduttore impenitente, l’innocuo Casanova, per i suoi peccati carnali; parva culpa, limitata all’alcova lussuriosa del seduttore e della compiacente partner.

 

   Già per secoli e secoli minacciate, sinistramente minacciate, furono le severe fiamme dell’inferno... E roghi quindi furono allestiti, le cui fiamme abbrucianti arsero nelle membra dolenti i condannati dai monaci teologizzanti della Santa Inquisizione: e furono molti gli abbruciati vivi! Infame vivicomburium! E già fu, l’August, l’ottavo mese del quarantacinquesimo anno del XX secolo; e già furono, quei mattini agostani del sei e del nove, mensis metendi, con le terribili immolazioni, dell’alba al risveglio, di tante umane vittime incolpevoli al Moloch atomico; lo sterminio mostruoso nel fuoco atomico, l’eccidio da lassù... e il terrificante inferno di Dresda, di Amburgo; sì, già furono nel febbraro di quell’anno le grandi tempeste di fuoco dal cielo... inferni... più che mai inferni! Nimie! Troppo!

 

   La Storia, quella positiva oggi chiamata scienza storica, gli storici e le loro storie, non destano granché il nostro interesse; non miriamo a soddisfare le curiosità, ma piuttosto tendiamo alla ricerca dei patri vestigi per prendercene cura, di rintracciare le curiali significazioni e investigarle, come segugi seguirne le tracce. E sopra ogni cosa, calcare l’orma saga della Lupa iperborea; pertanto più che impegolarci nelle storielle propinate dal conformismo storicizzante, a noi importa addestrare il nostro fiuto, e via per i più invisibili, sconosciuti sentieri! Saranno modeste scoperte? Il merito è che siano veritiere, cioè corrispondano al reale, quel reale che si nasconde dietro ai fatti, cioè agli umani/non umani affari, affaracci, ambizioni e peggio: l’appositamente inscenato teatro delle menzogne! Predisporre i fatti...fingerli... In modo apposito abbiam detto, e non è detto a caso.

 

 

   Quelle esplosioni atomiche alla prima luce dei mattini agostani, allo spuntar dell’alba, prima del sorger del sole, e nelle terre del Sol Levante, distrussero due città nipponiche inermi e una gran quantità di vite innocenti – come senza colpa erano i nativi nel continente di cui s’ignora il vero nome, il nome antico, delle ataviche genti – e nello stesso istante pretendevano colpire il cuore del mondo, in una Europa ancora sanguinante e fumante di macerie. Quelle terre del Sol Levante tanto simili alle terre Italiche, vulcaniche, telluriche, monti e mare! Il culto di Amaterasu e il culto anch’esso antico di Ausonia, la Terra del Sole, il Sol Indiges e il culto degli Avi solari, le genti fiere dei loro medioevi, con il culto degli eroi e il rispetto per il combattentismo leale. Di sicuro, l’oscuro inimico dell’Idealità Romana ha preteso far scomparire l’ORMA della romana civiltà, cancellare lo spirito classico dalla cultura delle nazioni d’Europa e non solo, quel carattere sostanziale, immutabile che determina una Civiltà nel Mondo, il suo Genio, la distintiva testimonianza dello IUS e del FAS.

 

    La vittoria del Giusto porta sulle terre tutte la Pace: “Non si possono vincere le guerre sterminando donne e bambini”. Tale fu il lapidario giudizio dell’ammiraglio statunitense William Leahry, denunciante l’ignominia yankee di quei spaventosi giorni. I promotori e leader del Nuovo Mondo – dopo essersene impossessati, così chiamavano quel Continente avendone con l’eccidio delle sue genti distrutto del tutto l’antico retaggio mitico, religioso e cultuale – avevano già da tempo, quei spadroneggianti, deciso un evento catastrofico e calcolata una data catastrofale in cui stringere l’Europa intera, disfare l’impaginatura di quel mondo classico, ideale, mettere definitivamente a soqquadro l’ordine di quel che pur sempre era il ”Continente antico”, la terra dei Padri. Far svanire quindi il ricordo e la memoria degli Antecessori, annichilire le Tradizioni, le Patrie con le culture avite, guastare e cancellare l’Orma luminosa da essi con punica fede detestata, e affacciarsi al Global World, the New World, la loro spudorata mistificazione. L’Occidente si è lasciato andare e fuorviato dal democratismo yankee, mercantesco prepotente malavitoso aggressivo, è caduto nell’inganno, ha così chimerizzato il suo pensiero, la sua immaginazione. Deprivato d’una visione alta, nobile del mondo, ormai l’agire non vi ha più un giusto fondamento, sviluppandosi su un piano volgarmente utilitaristico, non creativo ma ostinatamente tecnicizzato; allo stato l’intera Europa è compartecipe della macchinazione, travolta nell’impostura, rapita da la scivolosa chimera del Mondo Nuovo! L’Occidente, dunque, indirizzato a una crescita spregiudicatamente mercantilistica e nutricante avarizia e usura, costantemente risponde all’esclusivo Profitto (commodum, lucrum) curialesco, il Grande Vermine che controlla la “infimità astrale”, la muta dei cani ctoni attirati su dalle infere oscurità e che (cave canem!) ai caduchi umani non rivelano mai la meta giusta, l’esito certo.

 

*

   Il popolo davanti allo Scanno dell’autocrate, come del plutocrate o del burocrate, si è sempre inchinato intimidito, e questo non da meno avviene nei regimi democratici. Non è forse la democrazia quell’agorà dove si assume, leggi pure presume, di predicar bene e nel mentre si razzola male? E questo fin dai tempi di Platone, e basti qui menzionare Pericle e lo stuolo dei sofisti che insegnavano agli aspiranti politici l’arte persuasiva, la parola lusinghevole che convince; e giù, giù fino agli apologeti cristiani di tutte le sette, e ancor più giù ai club e ai circoli della rivoluzione francese, dai moderati Girondini ai Giacobini più radicali.  Eppure, nulla di più mostruosamente ipocrita allor che l’ideologismo democratico si presenta come verbo evangelico e dottrina salvifica esportabile persino con le armi per piegare i riottosi. In tal caso e dovunque, l’esportatore si è appalesato la belva più feroce mai comparsa sulla terra. E sono stati eccidi immani! Questa escalation democratizzatrice (e guerrafondaia soprattutto) yankee ha radunato tutto il cristianissimo democratume d’Europa, business-man/women, tutta la più spietata mentalità affaristica, in modo democratico senza distinzione di sesso, attorno al banco dei rematori finanziari per accordarsi sui più mafiosi traffici e senza trascurare quello losco delle armi. E a questo Stato Maggiore, vertice assoluto d’Occidente, ai burattinai e loro scurri e scurrule, nulla importa che popoli e nazioni possano essere coinvolti in una pericolosa spirale bellica! Abbiamo adesso capito chi sono gli esportatori della democrazia che alla fine d’ogni bellico affare celebrano il successo con i patiboli e robusti nodi scorsoi, brindando alle democratiche glorie? Non ci scordiamo dell’August, anno mille novecento quarantacinque! E delle albe di due mattini nebbiosi, laggiù dove si leva il sole: il sole che nel mese augusteo accresce il calore e dona abbondanza di messi. Quelle deflagrazioni atomiche, accrescendo nelle moltitudini popolari il radicato condizionamento d’un presentire catastrofico, innestantesi ai plagi della ultra millenaria “apocalittica” giudaico-cristiana, coinvolse il subliminale delle masse, attanagliandolo nel terrore, quindi in uno stato degli animi sempre disponibile ad essere padroneggiato, controllato e manipolato con apposite intimidazioni o costrizioni. E tanto, si è constatato in modo evidente nel corso di questi anni della “infezione” volutamente pandemica. Una “infezione” ovvero una “apocalittica” riadattata ai tempi?

 

 

L’ARMA TIVVUDICA

 

 

   Volutamente, e sì, perché un’altra arma s’è aggiunta, messa a punto e rafforzata frattanto, parallelamente al potenziamento nucleare, l’arma propagandista audio-visiva, bene acconciata ai tempi e più micidiale dell’atomica; un’arma devastante, soprattutto s’intende se nell’uso malvagio di quello che alcuni chiamano “Deep State” in lingua anglosassone, e nella nostra “Stato Profondo”. Deep State, cos’è? Per i democratici di regime, cioè i Governanti, trattasi di una teoria cospirazionista; per quelli che la sostengono trattasi di potenti lobby finanziarie mondialiste che vogliono distruggere la democrazia. Noi più semplicemente, e nulla escludendo, crediamo che sia il vero e proprio stato di essere e di svolgersi della democrazia, che tende per sua natura a mutarsi in tirannide, come aveva sin dalle origini del malanno preconizzato Platone e altre menti sapienti. E dati i tempi, e la tantissima democrazia e la pressante tivvù, è anche possibile l’avvento d’una tirannide mondiale! Di tali argomenti abbiamo già trattato in questi nostri scritti; perciò messo da parte il termine astratto democrazia, oggi confusivo e vago, ci teniamo a ribadire che un popolo, un demos, è in sé e di per sé democratico, quando possiede in sé e custodisce precisamente secondo patria tradizione, la forza, kràtos, fisica e morale, ossia la virtù e la valentia, per originare, digne ac merito, nel/dal suo seno, gente di pregio, lodevole, e dare alla luce, suscitare dunque una élite, una classe dirigente onesta, retta e valorosa, un saggio e virtuoso legislatore. Un popolo che nel solco degli avi, scientemente percorre la via della conoscenza, con una coscienza sapientemente educata alla conservazione e difesa della propria Civiltà, cioè delle proprie più elevate tradizioni religiose e cultuali, del proprio diritto, dell’umana moralità e gentilezza, della Verecondia e della Giustizia, divine realtà. Non, pertanto, un popolo imbelle, fiacco, spaventato, con una morale in frantumi, sbandato, privo d’un’intima religio! Tanto empio da eliminare dal proprio ultra millenario ordinamento il fondamento della Patria potestas, mostrandosi figlio disamorato della Patria; poi, gran disonore, degradando nel suo intimo il femminino con la pratica venale dell’utero in affitto, così togliendo ai nascituri, ai propri figlioli, il naturale diritto, ma soprattutto umano e anche di più, divino, di avere un padre e una madre. Un popolo dai comportamenti bovini, assoggettabile a qualsiasi dominio, facilmente riducibile a vile, ignobile soggezione che consente i soprusi, le illegalità, gli arbitrii di chi sgoverna impunemente il paese, e misere nell’interesse straniero. Faciloneria, quindi dabbenaggine? No, una ecclisse! Un deliquium solis, nei popoli d’Italia.

 

   Un deliquium solis che ha causato la debilitazione di alcune fibre cardiache e del vigore di corrispondenti facoltà e processi mentali; difetto di coraggio, scarsità intuitiva, astenia volitiva, incostanza nell’agire, indifferenza verso ciò che impegna o si ritiene un compito gravoso, natura impulsiva, temperamento indolente, inetto a raggiungere un fine elevato; in declino sul piano morale, socialmente invecchiato, in politica sempre più sterile, ignorante, servile, incoerente, facilone e sovente confuso. Insomma il declino dell’Occidente ha investito in pieno l’intera penisola e le sue isole. Quest’Occidente intontito, torpido, ottuso, corrotto, immorale, immerso nel cybersesso, ateo e materialista, dimentico ormai della sua cultura! Mercantesco Occidente, a volte usuraio, trafficone, mafioso, camorrista, hollywoodiano, catoTVdicamente aggressivo, cioè a dire: una volta sottomessisi al volere mass-mediale, il plagio è tale che gl’individui vengono indotti in massa ad appassionarsi a quel clima di stregoso zelo aggressivo suscitato dalla potente arma audiovisiva, al punto da incarnarlo. Va sempre tenuto presente che sul piccolo schermo la parola contrastante non potrà mai comunicare un parere sereno, imparziale, esser davvero libera, perché, trattandosi di falso dissenso, stante tra gli apparenti discordi il comune presupposto del conformismo democratico, essa s’integra in pieno e sull’istante al disputare in corso. Un serio oppositore sarà tacciato di scorrettezza pensativa e quindi di comportamenti inaccettabili: un inavvicinabile, un reietto. Opinioni e passioni, quindi, come la Gran Madre TV li comanda ai mortali d’Occidente e del restante Mondo! Sappiamo che la democrazia fu rivendicata con la ghigliottina, l’ideologia dem si rinvigorì abbeverandosi al copioso scorrimento di sangue dei ghigliottinati, fu consacrata dall’intervento dei cannoni con atroci squartamenti; divenuta poi col passare del tempo una trave imporrata, i suoi teorizzatori e leader del XX sec. per rianimarla ricorsero alla bomba atomica, sterminatrice di popolazioni inermi, rendendola così, con tanta terrificante pressione, esportabile nel mondo intero.

   

   Caldeggiata e stimolata con bombe al napalm sempre a spese della popolazione civile, nelle terre asiatiche, Vietnam etc., ma anche nei Balcani e in Medioriente, la democrazia ha oggi il suo ‘Educatorio supremo’ nella TV che dispone d’un vociante personale educational, istericamente agguerrito sui ring delle scazzottate tivvudiche; culturalmente pretenzioso, vistosamente pacchiano, discorsivamente artificioso. Un cosare invadente, prolisso e noioso. Una vuotezza assoluta di cultura seria, di idee, di valori, il nulla! Eppure sono precisate, studiate con puntiglio, quelle scene, quelle immagini; quei dibattiti presentati con enfasi. Sì, ma non si sfugge alla sensazione di un certo che d’innaturale, d’artefatto. La trasmettono soprattutto i personaggi conduttori dei programmi, i soliti protagonisti dei serial, maschi e femmine, anche i frequentatori e gli ospiti assidui; ci si abitua a percepirli come una deliziosa fatua fauna lillipuziana, che nondimeno entra nelle pupille per assidersi sui lobi cerebrali dell’ignaro telespettatore, per fissarvisi durevolmente, impronta d’un mondo straniante. Immaginette, figurine, santini tivvudici dal contegno, pose e movenze da teatro dei pupi; dalle facce scarnite, pergamenizzate, gli sguardi alterati, spogliati d’umana espressione, pupille vuote di vivacità naturale, spogli i volti dei caratteri personali, spenti i visi, privi d’aura. Volti? No, maschere elettro-magnetizzate, figurine neutre, che divengono immagini stereotipe, modulate istante per istante a insinuare in giro, nel subliminale delle masse, segnali appropriati, corrispondenti a moduli, forme in formule studiate con lo specifico intento di suggerire e conseguire qualcosa di appositamente voluto, forme strappate alla spontaneità, innaturali, quindi non libere e volontarie; stati, aspetti, modi di essere frenati e trattenuti nella meccanicità, ridotti per sempre in totale sottomissione. Di questa lobotomia massiva risulta vittima l’Occidente intero e le sue irriconoscibili genti, tradite, vendute, appestate dai contagi telediffusi, robotizzate. Un Occidente immemore, che non ha più coscienza di sé.

 

   Ove fioriva un tempo l’Europa Elleno-Romana, oggi putre e fermenta l’anti-Europa giudaico-cristiana. La punica New City, una Karthago d’oggi, il Mondo Nuovo!

 

   Tali non sono le sue radici, le sue vere radici sono antiche, profonde e ferme come le radici d’un monte, e saggezza ci narra che “le radici profonde non gelano”.       

 

 

15 Giugno 2022 – Mercurii dies 

 

 

 

 

                                                      

  

 

 

S A E C L U M   I N F E L I X

 

6 - 9 AGOSTO 1945

 

DECLINO DELL’OCCIDENTE E IL NON FACILE RISVEGLIO

 

 

 

 

. . . una landa ingrata,

dove si trovano strage e livore, e di altri lutti le stirpi,

e morbi brucianti e putredini, e rivoli stagnanti.

nella prateria dell’errore, per chi si aggira attraverso le tenebre.

                                              (Empedocle, Poema lustrale, trad. C.Gallavotti)

 

 

 

   Un accenno all’epigrafe su preposta. Vogliamo soltanto indicare che nell’originale greco, in luogo della frase qui tradotta “di altri lutti le stirpi”, testualmente si legge: “delle altre Keres le stirpi”, evocandosi così le dee della sventura, dei malanni, della pestilenza, dee vendicatrici e punitrici; mentre “la prateria dell’errore” è da Empedocle menzionata come la “prateria di Ate”; Ate, la rovina, e dea della colpa, dell’ignoranza che acceca, e quindi pur sempre della sventura. La traduzione moderna da noi prescelta è perfetta, e semplicemente intendiamo sottolineare a ogni buon conto l’aspetto religioso nel linguaggio degli antichi, che ritenevano le azioni degli uomini e dei popoli scaturire sempre dalla loro più profonda predisposizione, attraverso di esse azioni manifestandosi di ciascuno, individui e nazioni, indole e tendenze. Dall’operato, quindi dalla condotta umana – ma vi rientrano anche l’irresolutezza o l’inerzia a opporsi e reagire – s’avviano, una volta decisi, e hanno poi svolgimento gli avvenimenti, si determinano in breve gli eventi. E deve intendersi, che gli accadimenti tutti procedono dai comportamenti umani, giusti e ingiusti, dall’agire contenuto e dall’atto smodato, dall’iniziativa consapevole e con effetti previsti, così come dai moti e processi inconsapevoli, e similmente dal confarsi o dal sottostare, volenti o di contro voglia, a l’una o l’altra iniziativa altrui. Questo stato o modalità naturale dell’essere nell’uomo, la cagione radicale, contenente le sue inclinazioni, e in cui egli s’adagia e cui s’affida, è responsabile di quanto intorno gli accade. Eppure, sì, l’uomo ha davanti a sé più degna via. Gli antiqui Patres la chiamavano: la via romana agli dei. NOSCE TE IPSUM!

 

    L’uomo (quello terrigno) è un “asinus portans mysteria”, ma difficilmente può far da maestro, cioè assurgere ad “asinus in cathedra”, come di sovente fa gonfio di boria ed oggi è d’asini una folla, perché comunemente è nelle condizioni d’essere dei più, cioè “asinus asinum fricat”, un asino che cerca sollievo sfregandosi ad un altro asino.  E or se un asino si struscia con la propria cervice contro la cervice d’un altro asino o asina che sia, nulla ne ricava, al massimo, “gratis et amore Priapi”, altri asinelli, e questo alla fine è anche il sommo risultato del governo democratico del mondo. C’è da meravigliarsi dunque che in quest’Occidente vada tutto in malora? Che scompiglio e disorientamento rimpiazzino l’enfasi dei dottrinarismi, la presunzione insistente in teche cerebrali ribollenti di false convinzioni e credenze fideistiche, tutte le esotiche catechesi, l’intero scibile scientifico della modernità tecnicamente accreditato, le ostinate superstizioni degli uomini del presente e le loro rovinose ideologie, irriducibilmente contrastanti e belliciste? Non c’è da stupirsi di tanto nullismo!  Discende, o meglio è determinato dal fatto che gli uomini poco si curano di sé stessi presi dalla parvenza, da ciò ch’è fuori, che sta e rimane fuori. Spunta pure l’ardua scelta dilemmatica tra l’ideale, quindi l’immateriale, l’incorporeo, e il materiale, il palpabile, il tattile, tra la ricerca spirituale e l’indagine tangibile. Il VEDERE che è anche il cercare, l’intuire, lo scorgere il sapere, il conseguire l’imago ossia “l’agire nel profondo” – intanto si DI(S) VIDE, si separa in due; ciò che deve essere unito, reso uno, si disgiunge. Infelicemente tale lo stato psichico dell’odierno individuo, che viene caratterizzato come dissociazione! Il recente bipede è una individualità disunita, scissa. L’alieno è sceso su questa terra, e ci si è messo anche di mezzo lo scienziato tutto sa, buono, altruista, filantropo; quello con un cervello dal peso atomico, lo stesso della fissione nucleare … a carattere esplosivo!

 

    Anche al tempo che Berta filava quel dilemma serpeva nascosto nei cerebri umani, e in tanti si perdevano nella prateria dell’errore, e in tanti venivano colpiti da morbi brucianti e da stragi, livori e lutti. Non mancavano buoni Principi e i Signori del buongoverno, ma capitava spesso anche il malgoverno del tiranno o delle democrazie mercantili e usurarie; c’erano popoli tranquilli e nazioni inquiete, e con tutto ciò, mentre Berta silenziosa e appartata filava, il saggio adagio, calmo, sereno operava. Ebbene, a quell’epoca i saggi ancora trovavano orecchie disposte all’ascolto; ed essi raccomandavano ai volonterosi discenti e seguaci di essere i migliori, sempre, e presentarsi al mondo auguratori del buono e del giusto; facevano ciò con l’intento di arginare la tara capitale, troppo spesso decisiva delle sorti umane, l’egoismo prepotente e soverchiatore, limitante l’intima consapevolezza, oscurante per intero il mondo interiore della conoscenza, indispensabile apertura a comprendere l’altro e poter giovare al progresso delle genti. Sosteneva Platone: colui che intende dedicarsi alla politica deve innanzitutto coltivare la virtù essenziale a rendere migliori i cittadini, essere insomma un educatore delle coscienze; infatti quando i governanti sono corruttibili, altrettanto corrotti, vili, avidi, mentitori diventano i cittadini. La gente difatti è governata più dagli esempi che dalle leggi. Da sempre l’esempio trascina, e perciò prima di dare i buoni consigli devi essere costantemente di buon esempio. Ma qui in Occidente tutto è ormai divenuto ignobile, indecoroso, è venuta a mancare l’esemplarità classica, il gentil culto. La condotta degli individui, dai politici ai comuni cittadini, le costumanze, tutto s’impronta di volgarità, della cafonaggine yankee. L’azione delittuosa s’acquatta dietro ogni angolo di strada. I ‘politici’? Beh, una scombinata compagnia del teatraccio tivvudico! Attorucoli e attricette che recitano su un copione imposto dalla preterìa catto-masso-usa e le altre congiunte lobby. Si spalanca davanti al Vecchio Continente un baratro di bassezza e miseria! L’occidente è una squallida colonia, un paesaccio coperto da un’inquinante torbida caligine, stremato dall’abbruciante furia secolare de’ roghi clericali, con le fiammate nelle piazze e gl’inferni di fiamme minacciati a l’orecchia dei popoli nei fori penitenziali; un Occidente europeo battuto e piegato, or son tre quarti di secolo, dalle tremende tempeste di fuoco che si rovesciarono dal cielo su tante sue celebri città ricche di arte, cancellandone l’antica storia. Quanto a lungo s’attarderà nella prateria dell’errore questa Europa, aggirandosi fra le tenebre? Pur tuttavia è da qui, dal centro del suo Mediterraneo che l’Europa e la Civiltà, dovranno ritrovare il cammino, perché il Sole dello IUS e del FAS torni al cuore e alla ragione delle genti, e Giustizia e Verecondia ricompaiano tra i popoli.

 

IL CAMMINO DELL’UOMO. VERITÀ E CONOSCENZA

 

    Trattando delle difficoltà che gli uomini affrontano sul cammino verso la conoscenza, Empedocle nel Poema Fisico espone ai novizi alcuni metodi e procedimenti. Il corpo umano è l’insieme di organi disposti armonicamente e coordinati al fine del funzionamento dell’intera struttura fisica; questo organismo vivente è, pur nella sua fisicità e nell’insieme sensoriale, già preparato a facilitare all’individuo umano la possibilità di comprendere quanto nel mondo si manifesta. Attraverso i sensi tutti, per mezzo di ogni organo, purché sensibilizzati e resi disponibili, è data all’individuo la possibilità di aprirsi un passaggio onde accrescere la propria consapevolezza. Insomma sono mezzi disposti e pronti a favorire l’accrezione dell’intelletto volente. Ma questi organi racchiusi nel corpo sono generalmente limitati e ottusamente assoggettati alle impressioni più spregevoli che vanno ad offuscare la mente. E a questo punto ascoltiamo direttamente e con attenzione la sua parola, nella puntuale traduzione del Gallavotti: “Gli uomini, dal breve destino, scrutano solo una piccola parte della vita/ con le loro esistenze, e innalzandosi come il fumo dileguano, /solo affidati a quel poco che ciascuno incontra a caso, /mentre vagano per ogni dove; e questo che per lui è tutto, si vanta di scoprire. / In tale modo la realtà non è vista né udita dagli uomini, /non è colta dalla mente. Ma tu dunque, se così te ne distogli, / almeno avrai quella maggiore conoscenza che l’umano intelletto raggiunge. /Se quelle cose, infatti, dentro i saldi precordi infiggendo, /le osservi con impegno attraverso limpide prove, /tutti questi concetti ti resteranno vicini per l’intera vita, /e da questi si otterranno altri grandi vantaggi, perché da soli /incrementano ognuno nell’indole, secondo la natura che ognuno possiede. /Se invece ti dirigi verso quelle altre suggestioni, che vili sorgono /innumerevoli fra gli uomini e fiaccano la mente, /allora ben presto ti disertano, mentre il tempo si svolge, /bramosi di ritornare alla propria origine diletta. /Sappi che tutte le cose hanno pensiero e la propria intelligenza; /e come è impossibile nascere da ciò che non esiste affatto, /così, questo che esiste, è inattuabile ed inaudito che si distrugga; /quindi ogni volta si troveranno, dove ogni volta qualcuno le infigge”.

 

   Tanta alterezza d’animo maturerà nella sua coscienza, per quanto l’uomo crescerà in consapevolezza, acquisendo tutte le virtù che fanno il vivere retto, e così potenziando la trasparenza di giudizio, l’obiettività e quindi l’affidabilità del suo agire. Il raggiungimento della saggezza rende l’uomo libero e gli conferisce il virtuoso operare, l’insegna virile dell’avveduto giudizio, onde progettare l’azione fondata, legittima; ed il premio è l’esito positivo, una prospera riuscita, l’evento felice.  Tutto ciò attiene al grande segreto della umana coscienza e, fuor da ogni dogma, allo sviluppo della consapevolezza ed evoluzione dello spirito umano nella sua terrena esistenza, ed è esclusivamente affidato alla capacità di comprensione dell’uomo stesso. Dunque, è l’individuo, l’uomo come persona che deve mettere alla prova sé stesso. E l’individuo è sempre propenso a ingannarsi pur di non sottoporsi a dure fatiche. Eccole, or dunque, l’atea sfrontatezza dell’odierno bipede e la sua smoderata presunzione, la cieca hybris, che però inevitabilmente si coniuga ad un oscuro impulso all’asservimento! Pertanto, chi si fa servo subisce l’assoggettamento di tutto sé stesso alle entità similari che oltrepassano la natura fisica e spadroneggiano nella prateria dell’errore, dove gli animi vili s’aggirano brancolando fra le tenebre. Entità, tanto affini e addentro alla umana vicenda, che si tengono pronte a distribuire con giusta misura a ciascuno, a seconda del comportamento e degli atti commessi, il biasimo che gli si addice. Una nemesi (dal verbo greco νὲμω, distribuire), vendicatrice e punitrice? Invero i Greci la ritenevano una dea, Nèmesis, vale a dire una entità divina riparatrice e compensatrice, che serba quindi l’armonia nel cosmo. Volendosi così intendere l’azione giusta, corretta, dell’intelligenza umana, non dissonante con il piano metafisico, e intesa a ristabilire un equilibrio infranto. Azione saggia e provvidenziale, ossia necessaria a schivare delle multiplices variaeque Keres le stirpi, ultrici queste d’altro canto della inhonestissima cupiditas e delle insidie che il disumano Disgregatore di continuo trama sul pianeta terra, sostenuto al presente, finanche palesemente, da tanti dissennati e da una miriade di ciechi.

 

    È indispensabile, ma anche indifferibile, che questo mondo, questo genere umano, questa società, si tragga fuori dalla massiccia finzione che si è inventata e della quale, mal vivendo una precaria esistenza, dissennatamente si compiace. Doppiezza, simulazione, ipocrisia, puntellano il simulacro, covante corruzione e decadimento, della euro-democrazia in questo invilito Occidente. E in Italia? La democrazia in Italia? Un vaso fesso d’importazione yankee, un coccio in stola vaticana, a dire dei mafiologi ed è tutto dire! Via libera, strada spianata a “il Malgoverno e la Rovina (Disnomia e Ate, nel testo greco), che vanno sempre insieme”, così Esiodo. La pessima legislazione è di moda nelle praterie dell’errore! Fu così ai tempi di Esiodo, ma poi intervenne Roma; è tal quale, oggidì, in quest’Occidente dei rinnegati. E quanto durerà quest’infame rinnego, questo nefario rifiuto? Roma, ancora una volta, dovrà respingere la barbarie. Una malvagità d’animo, impensabile se non come pazzia, spinge un trust, un gruppo di potentati finanziari, che si propongono la globalizzazione del pianeta, a tramare la rovina di intere nazioni, la confusione dei popoli tutti, lo sconvolgimento di culture millenarie, lo smarrimento di consolidate ancestrali tradizioni. Così vanno imponendo al mondo un borioso scienziame, che dispregia la cultura classica, i prototipi delle arti, la medicina, e promuove lo scienziale, il tuttologo tivvudico, cioè l’insciente onnisciente, un biblico padreterno accordato al presente e venalmente affaccendato a gabbare le grosse mandrie democratizzate di bovidi scornati e svaccati.

 

    Pensare e agire, simpliciter et candide, come suggeriva Cicerone; e anche, simplicius et antiquius, “secondo il più semplice costume dei nostri antichi”, e questo è il compendioso consiglio di Tacito, che saggiamente gli Antichi li frequentava e spesso. Guai a chi è privo dell’antico senno! Guai a chi se ne lascia defraudare! Guai a chi ha smarrito il ricordo. Il lat. recordari, ricordare, è composto della particella re, addietro, e cor, cordis, cuore. E così Empedocle apposta spiega, “il sangue che circola intorno al cuore è negli uomini il principio della conoscenza”. Oggi usualmente si dice, “uomo senza cuore”, una banale perifrasi, quasi un arzigogolo; e infatti, i latini in modo preciso e diretto: homo crudus ovvero inhumanus; a tal punto irremovibilmente marchiavano il non umano: il malvagio, che nuoce per la sua natura perversa, la belua, il bruto. Barbaro è colui che oblia sé stesso; allontanando da sé il sentiero del conoscersi, incrudisce e arretra nell’ottusa gravezza. E ciò è accertato per l’individuo come per interi popoli.

 

   Con il vocabolo sconoscenza, significhiamo primamente l’ingratitudine che si manifesta con la condotta sleale d’un animo sconoscente i benefici ricevuti, e poiché per beneficio s’intende qualcosa di giovevole e quindi accetto all’anima, il cuore di colui che se n’è giovato dovrebbe serbarne il ricordo, altrimenti quel cuore è, a dirlo in modo preciso, captivus, cioè predato dall’ignoranza, cade nella incoscienza. Ecco perché somma virtù nell’uomo è affrancarsi dalle passioni, dalle usuranti abitudini e dalla presunzione, che tenacemente afferra tutti gli organi, e soprattutto la mente e il suo fantasticare e fa supporre r e a l e, ciò ch’è soltanto la falsa esistenza d’una fantasima appena abbozzata dalla mente: l’uomo esterno, transitorio.  Il cor captivus non fa progressi, non procede sul cammino del miglioramento. Questo il motivo per cui, e presso tutti i popoli d’antica civiltà, i sapienti indicavano agli uomini, ai governanti e ai loro governati la via alla conoscenza, l’educazione e la disciplina alla conoscenza. Tale ricerca, tale Opera, è nell’Uomo somma virtù. Realizzando il “nosce te ipsum”, l’uomo attinge alla massima gratitudine verso sé stesso, s’inoltra nella conoscenza, nella realtà della limpida luce del ricordo, nella verità della più che vita; si riconosce nel proprio Sé, quello non mentito, non artificioso, franco e libero: è il vir Maioribus dignissimus, in sostanza il Vir corde, l’uomo di cuore; in lui, appunto, è unione di mente e di cuore, il decoro della virtù congiunto alla disciplina eroica, nel perennarsi del ricordo. L’uomo interiore, l’uomo assoluto.

 

   Come gli individui umani, così i popoli. Ci son popoli gentili, sapienti, e popoli rozzi, barbari. Popoli olimpici di luminosa civiltà, religiosissimi, e popoli oscuramente involuti nella superstizione o servilmente devozionali. Uèla, questi popoli d’Europa tutti sfiniti dall’asfissia! Questi popoli dell’Occidente, privati d’ampio respiro e soffocati nel loro cammino dalla diffidenza e dal catastrofismo, sono esposti a malvagi, ormai evidenti piani, tra cui s’appalesa la pianificazione d’una massiccia diffusione dei più tenebrosi errori, empietà, falsità e   depravazione, volendo l’iniquo Desertatore deviare l’intera stirpe umana dal vero e dal giusto che procede appunto secondo verità, come tutto ciò ch’è onesto, nobile e degno. Perciò va dispogliando il mondo dei suoi ornamenti e soprattutto della sua sacralità, precipitando i popoli nell’empietà, distruggendo le nazioni con la rovina dei loro culti, delle loro proprie, distinte culture e civiltà.

 

   E tu, Europa, stai assentendo a far da battistrada a tanta rovina! Ti affretti a rendere sempre più cattivo l’uomo, a contaminarne la società, a depravare gli atavici costumi. Volgi al peggio e mandi in frantumi il restante del tuo imperio, che ti venne dal Trismegisto Padre, dall’Olimpica Ellade e dalla universale composizione operata dalle Romane generazioni, progenie di Marte. L’Orma pulcra di Roma con il suo aureo Ramo del FAS e dello IUS. ROMA, VENUS AMOR, la Venerata Madre delle Genti.

 

    Ostile Occidente, divenuto l’inimico del Sommo Bene! In questo occiduo luogo nulla più degno è di fede; sul tuo liso orizzonte, o estenuata Europa, è la verità quasi giunta al tramonto? In un suo carme Catullo scriveva, “soles occidere et redire possunt”, i soli possono tramontare e tornare, ma la verità una volta spentasi nel cuore degli uomini? Subentrerà la menzogna, la insidiosa mente mendace, falsificatrice.  La frode, l’inganno, l’ipocrisia, il raggiro, l’artificio, appestano oggi l’Occidente. E la ubiqua superstizione: fideisti, scientisti, tecnicisti d’ogni genere con il loro tecnichese; e la moltitudine dei politicastri dogmaticamente politichesi, e il sapienzialismo sapienziario, inoppugnabile e incontrastabile, dei tivvudici. Anchorwomen, anchormen dall’alto della cattedra schermografica incontestabili per la proclamata perentoria indiscutibilità del politically correct, gloria dell’occidua arroganza democratica! La Democrazia! Già, quella imposta dagli educatori d’oltre Atlantico, gli Yankee del Nuovo Mondo, detti ‘Americani’, con le sonore bacchettate dei terroristici bombardamenti a tappeto su inermi popolazioni civili! Democracy imposta by dread, e tale perdura; difatti intimidatorio è il suo carattere genetico, demagogico, clericale, mafioso, nazi-bolscevico o ancor più frammisto che sia.  Quelli che ritengono una loro missione, e anche un democratico dovere, esportarla dovunque nel mondo, sono per l’appunto gli Yankee, o Statunitensi o Usa, genti che non hanno una loro originaria appropriata denominazione, perché, venendo da ogni luogo e nazioni del globo, si sono democraticamente appropriate, da perbenisti puritani quali si professano, di vaste terre sottratte a suon di fucileria e mitraglia a malestri e malnati selvaggi, i nativi, da loro ritenuti sopravanzi, scarti, e quindi indegni del cristianissimo Nuovo Mondo e  inadatti al viver democratico.  Da cavalleggieri nel Far West armati di fucileria automatica contro quei selvaggi seminudi, urlanti e agitanti i tremendi, sanguinari tomahawk, a rieducatori di quella vecchia, sconoscente, invisa Europa. Rieducazione imposta con quintalaggi e quintalaggi di bombe, esplosive e incendiarie, pioventi a grappoli dal cielo, sulle città inermi. Città europee, centri di cultura e testimoni d’antica civiltà: grandi stragi, rovine immani! Interrogate su Wikipedia le macerie di Lubecca, di Stettino, di Danzica, di Kiel; di Amburgo che subì duecento tredici incursioni aeree, con 1,7 milioni di bombe, e solo nell’incursione del luglio 43 fu distrutto il 74% della città e uccisi oltre 40.000 cittadini inermi; interrogate Friburgo tutta in macerie; e tutte le altre, Coblenza, Lipsia, Magdeburgo e soprattutto Dresda con le inumane tempeste di fuoco, per rendere impossibile ogni soccorso, attuate dalle fortezze volanti anglo-americane tra il 13 e il 15 febbraio 1945. Fu il terrore, allora, e ancor oggi dura nell’inconscio e nei destini degli Europei, decidendone la vita e le politiche sorti, ma non fa scandalo... fu barbarie cristiana, oltre che business!  Eccolo scovato, individuato l’obbrobrio!

 

   E quel passato precipitoso e cupo, avverso e funesto, in aggiunta determina gli odierni accadimenti. Sullo schermo del presente, negli eventi che d’anno in anno si susseguono e in quelli che attualmente avvengono e si preparano non possiamo non intravedere il funesto, grandemente luttuoso spettro di quel tempo andato. E quindi, diciamolo senza infingimenti, tutto lascia presagire il peggio se non ci adoperiamo al risveglio di quelle energie spiritualmente integre e mentalmente sane e misurate, nonché culturalmente e politicamente idonee ad operare con avvedutezza e saggezza. Ed è proprio lo ‘spettro’ di quel passato che ci può spingere a ‘vedere’ in modo intelligibile, chiaro, attraverso le tenebre gravanti su questa prateria dell’errore. Un ‘Occidente’ questo, landa sempre più ingrata, dove insistono strage e livore, lutti, morbi brucianti, infetta stagnazione, putredini e corruzione dilagante, mentre va sempre più affermandosi uno scientismo perverso, prevaricante la stessa sapienza medica con grave rischio per la salute dei popoli e la pace nel mondo. Abbiamo di proposito usato l’aggettivo ‘perverso’, prestito dal latino: perverto, is, verti, versum, ĕre = rovesciare, violare, mandare in rovina, stravolgere; verbo latino da cui deriva anche il nostro ‘pervertire’, che in latino si rende meglio con corrumpĕre o depravāre, mentre perversus ha i suoi sinonimi in pravus =  deforme, erroneo, malvagio, e in scelestus = scellerato, empio, sacrilego, funesto; pertanto troviamo in Cicerone: omnia iura divina atque humana pervertere, violare tutte le leggi umane e divine; e la locuzione virgiliana: perverso numine, senza rispettare la volontà degli dei; ancora Cicerone distingueva nettamente: hinc pietas, illinc scelus, di qui la rettitudine, di là l’empietà. Lo scellerato, il perverso è, dunque, colui che ha perso la ragione.

 

    Desolante Occidente! Infelice Europa, hai accolto nel tuo grembo un malvagio vermine che si torce, s’attorce e vergendo al tuo cuore, dopo averti tutta intossicata, ti ucciderà! Quel Vermine vuol sopprimere i tuoi figli nelle generazioni. Quel mostro vuol sostituire nell’Uomo l’anima, vuol soppiantarla con un sistema cibernetico e quindi l’umana mente alterare con artifici, la funzione sensoria naturale surrogando con una sensorialità elettromagnetica, e convertendo l’organismo umano in una complessione meccanica magnetizzata a comando, passivamente agente, privata dell’essere, il Vivente, e quindi di realtà, verità, libertà. Si è già iniziato con il defedare l’organismo umano compiendo test, scandagli sulle masse a livello planetario, sovvolgendo i popoli con sperimentazioni e indagini epidemiologiche, con gran danno della loro salute. Tempeste epidemiche e campagne vaccinali, successioni di varianti e cicli di sottomissione al vaccinostilo! E qui da noi l’invito papale alla cristiana obbedienza, la persecuzione e il marchio scarlatto di vaccinofobia per i disubbidienti, la gogna mediatica per i medici e i farmacologi che avanzano dubbi. E l’altitonante, intransigente, massimalista vociare tivvudico! DISUMANIZZAZIONE! L’uomo che viene disumanato, cioè non solo svuotato delle qualità proprie dell’uomo e privato della volontà, quindi incapace di intervenire nelle faccende del mondo, ma addirittura svuotato della vita (psico-fisica, intellettuale, spirituale) umana; non una disumanità barbara, ma una disumanità meccanica. E simultaneamente, lo SPATRIAMENTO! In altri termini l’estinzione, l’annientamento delle patrie; dunque la rimozione della stessa idea di patria, la cancellazione addirittura d’una tal nozione, non semplicemente l’espatriare come una volta comunamente inteso, e su cui osservava severo il Leopardi: “lo spatrio, cioè il trapiantarsi d’un paese in un altro era possiamo dire ignoto agli antichi popoli civili”. L’apolidia è uno stato di regresso, d’involuzione, e causa la perdita della identità culturale, d’un prezioso patrimonio ultrasecolare di civiltà e soprattutto dei suoi albori. Quei felici albori! Giammai, per nulla al mondo, tradire le proprie radici, divellere il ramo su cui fiorì la nostra cultura, lasciar che s’oscuri l’albo splendore dei cieli ch’avvolge il principio, l’origine della nostra civiltà! Questo dicevano i nostri vecchi, e progenitori e antenati.

 

 

*

 

 

                    ( . . . )   Un dio

Così dispose, la funesta a tutti

Ate, tremenda del Saturnio figlia,

Lieve ed alta dal suolo ella sul capo

De’ mortali cammina, e lo perturba,

E a ben altri pur nocque. Anche allo stesso

Degli uomini e dei Numi arbitro Giove

Fu nocente costei ( . . . ).

 D’alto dolor ferito infuriossi

Giove; e tosto ai capelli Ate afferrando,

Per lo Stige giurò che questa a tutti

Furia dannosa, non avria più mai

Riveduto l’Olimpo. E sì dicendo

La rotò colla destra, e fra’ mortali

Dagli astri la scagliò.   ( . . . )

 

 

   Questo è il racconto, o se più vi garba, la favola omerica che l’aedo trasse da un tempo mitico per divulgarla tra gli uomini come avvertenza di consapevolezza, ossia per esortarli a fortificarsi nella coscienza. Raggiunta una luminosa consapevolezza l’individuo matura in sé uno stato equilibrato, sereno, acquisisce una duratura imperturbabilità, una olimpia calma e può dominare gli eventi. In breve, l’individuo deve saper esercitare su di sé e intorno a sé una diligente attenzione, in latino: animadversio (anima+advertere) et diligentia. Diversamente la sua condizione di mortale sarà turbata di continuo da “la funesta a tutti Ate” (a-te, è colei che manca della visione, l’accecata), che Giove dall’Olimpo scagliò fra i mortali. E la tremenda figlia  ̶  figlia di lui, il Saturnio  ̶  scacciata dall’olimpio padre, da quel momento, lieve ed alta dal suolo cammina sul capo dei mortali, e lo perturba; così scandisce con concisi, sonori endecasillabi il Monti (v. 91/ 95 e 124/133), che qui traduce dal canto XIX dell’Iliade il racconto omerico. Per facilitarci l’interpretazione dell’allegoria ben tessuta dall’Aedo sapiente e la comprensione dei significati anagogici, spirituali, ivi riposti, abbiam pensato d’inserire qui anche la traduzione del testo omerico, più letterale, più particolareggiata, con più distesa verseggiatura trattata da Ettore Romagnoli (v.91/96 e 125/131):

 

   Ate, la figlia maggiore di Giove, che tutti fa ciechi,

la maledetta! I suoi piedi son morbidi; e non su la terra

essa cammina, bensì per le menti degli uomini avanza:

essa danneggia le genti: ché uno irretisce su due;

essa, persino il figlio di Crono accecò, che il più saggio

è fra i Celesti, si dice, fra gli uomini tutti.

 ( . . . )

Acuto cruccio Giove colpiva nel fondo del cuore.

Subito Ate afferrò per la testa dai riccioli molli,

e, tutto pieno di sdegno, prestò giuramento solenne

che sull’Olimpo mai più, mai più fra le stelle del cielo

Ate sarebbe tornata, che accieca tutte le menti.

E pur giurando, rotò la mano, e dal cielo stellato

Via la scagliò: ben presto degli uomini ai campi fu giunta.

 

 

   Ate che tutti fa ciechi, che sul capo dei mortali deambula, e lo perturba; Ate che non su la terra cammina, bensì per le menti degli uomini avanza; Ate, la figlia tremenda del Saturnio, l’olimpio Padre che dagli astri la scagliò tra i mortali, e che una volta giunta ai campi degli uomini non ha, lo giurò il padre per lo Stige, mai più riveduto l’Olimpo.

 

   Una pestifera, letale esalazione emana dalle stupidite masse d’Occidente, popoli deprivati della loro peculiare identità, quindi di una loro via alla conoscenza, perché sradicati dalle origini loro proprie, ignari della patria istoria, anzi convinti e agiti da mentito racconto; genti carenti di sano intendere, d’un veritiero sapere, di libero discernimento; assoggettate ad una ‘informazione mediata’ e minutamente controllata, con una mente massificata e quindi totalitariamente pensata da un ‘pensiero unico’, il politically correct. Genti spersonalizzate, avviate in una cultura imbastardita, primitivizzata nel costume, nelle norme del giure, nelle forme artistiche e persino linguistiche; genti ormai irreggimentate in uno scientismo materialista, perversamente ateo. Nessun ponte più con il cielo: non avria più mai riveduto l’Olimpo! Ed è questa in parole la foto di Ate, la furia dannosa, che scorrazza accecando e predando l’Occidente, ovvero le menti di popoli di antica, prestigiosa civiltà. E l’Oriente? Ate non ha risparmiato quei luoghi, e a tutt’oggi; essa non trascura di irretire le tante numerosissime genti d’Oriente con la smania e la voglia cieca di scopiazzare l’Occidente, e che anzi pur rivaleggiando lo ricalca! L’Occidente che smarrì la via alla conoscenza, e credulo, vile, s’abbandonò a deità alienanti, ieri ed oggi ad esse asservendosi. A tal mano affidandosi, e insieme praticando finzione, ipocrisia e menzogna, ha provocato la sua sventura.

 

   E l’Occidente, ormai all’estremo declino, è di faccia a Nemesi, colei che dà a ciascuno il suo, e secondo rigorosa giustizia. I Greci antichi la ritenevano la Dea che punisce la superbia, la tracotanza, l’atea sfrontatezza, la smodata presunzione, la cieca hybris, i saggi tra essi la ritenevano inoltre una divinità riparatrice e compensatrice, una divinità indulgente e giusta, che serba l’armonia nel cosmo. Il Vespro, infatti, prepara il mattutino, il d i u r n o! Il Dies, il divinus, il mirus, la gioia del Sole. La stella della sera è la stella del mattino.

 

   A coloro che ci seguono con sincera curiosità nutrendo amichevoli pensieri e a tutti coloro che bendisposti cercano la salvezza, vogliamo dire che una salus est, ‘riprendere la via alla conoscenza’ per poter romanamente agnoscere deos, riconoscere la volontà degli dei, la volontà dei veri uomini e dei veri iddii. Vogliamo poi anche rincorare gli scorati che si chiedono se c’è un posto nel mondo donde possa venir salvezza, dando questa risposta: certo è che salute verrà, e da un preciso luogo, dal punto più vibrante del globo terraqueo, dal cuore dell’Occidente.

 

*

 

   L’Occidente (o tu, uomo d’Occidente!) allo stato ignaro di sé, ignavo e servile, deve innanzitutto espellere, respingere dalla totalità, corpo e anima, dell’attuale sua esistenza e realtà storica, la mente perversa che lo assilla e lo attanaglia: l’ate-a cecità che per le menti degli uomini avanza! Deve allontanare la suggestione vilmente materialista del politically correct, quello più raffinato e scientistico, che ventila una vita umana alleggerita di sforzo e d’ogni fatica, nutrita, curata e sollazzata da una intelligenza artificiale d’irreprensibile angelicità, dal nonno d’oggi trasmessa ai più lontani pronipoti.

 

   STOP! Stop, Stop!! Ci manca il taglio, il taglio narrativo adatto, non è nostro mestiere. Non abbiamo il genio dello scrittore di fantascienza, la visionarietà d’un Giovanni non si sa chi, ch’ebbe a scrivere la biblica Apocalisse e s’intendeva di catastrofismo quanto gli ultimi sette re di Atlantide. Corpo di mille bombe! E non è forse già avvenuto di peggio di quanto immaginato da quel Giovanni non si sa chi, figlio d’uno sconosciuto Zebedeo, o forse era suo nonno? E siamo certi che la morte causata dall’immane tsunami che cancellò Atlantide o quella provocata a Pompei dallo sterminator Vesevo, siano state, a memoria d’uomo, le morti più orrende compiutesi su questo pianeta? E che non ci sia stato di peggio, dei roghi dell’Inquisizione? I primi due come tanti altri furono eventi naturali, insindacabili, e tocca agli umani tacere. E la morte sul rogo? Lui, o lei, aveva la consolazione di poter assistere al supplizio in piena coscienza, affermando il potere dello spirito sulle fiamme che consumavano il corpo. E, cosa, di peggio? A memoria d’uomo, e di peggio... Di peggio (sì!) se ne vien meno anche il ricordo... e un tanto recente ricordo; ché Ate l’accecatrice che infuria nella prateria dell’errore è anche la smemorante. Un Occidente grigio e uniforme, d’una mentalità vilmente rinunciataria, rassegnato a un lento imbarbogire; immerso nella superstizione scientista che impone la ‘moderna scienza’ come unica via per acquisire e accrescere la conoscenza, l’edonismo come bene supremo, e l’utilitarismo a fondamento della felicità, intendi benessere materiale, dell’individuo e d’ogni società. Misconosciuta dunque la via alla spirituale conoscenza. Decrepitudine spirituale, oscurantismo. Declino, infernale ignoranza! Vien proposto un modello innaturale, artefatto, l’uomo ateo, asfittico, senza anima, e quindi infermo nella mente e nel cuore! Tenebroso errore di sopraggiunta barbarie! Anzi, un pigro imbarbarescare tra le macchine e foschi ordigni di guerra. Guerra? Macché, qualcosa di ancor più nefasto, la zel(e)ota follia, una altezzosa, globale, perenne discordia!

 

*

 

   Siamo nella esiodea Età del ferro, il tempo “degli uomini della quinta stirpe, che soffrirà pesanti angosce; il tempo in cui i figli disconosceranno i padri e questi non si cureranno più dei figli, l’inimicizia prevarrà sull’amicizia; al giusto e al generoso sarà  ricompensa l’ingratitudine; sarà onorato l’artefice d’inganni, il mentitore, il violento; dovunque i malvagi danneggeranno il virtuoso; dilagherà la spudoratezza, e gelosia, odio, maldicenza; Verecondia e Giustizia lasceranno gli uomini a dimenarsi negli affanni a perdersi nell’errore”. Tanto malanno denunciava Esiodo nella seconda metà del secolo VIII a. e. v., ben ventotto secoli innanzi lo scorso ventesimo.

 

   Il ventesimo secolo! il millenovecento: un periodo in cui si sarebbe potuto presagire il presentarsi d’una particolare durata temporale, dal momento che il tempo d’un tratto andò svolgendosi come tempo costretto e insieme costrittivo, compientesi peraltro fuori dalla comunamente usitata razionalità umana. Svolta temporale, quindi, estrania ai lumi d’umana coscienza, lontana, in una dimensione di estrema compressione e costrizione. In particolare si tratta di periodi – anni o mesi o giorni, momenti forse – che poco o nulla indulgono alla umana presenza e sua ragione, però risultano in assoluto date vincolanti, date obbligate da condotte avviate fuor dall’umano (da chi?). S’intende dire, forzandolo questo dire, che gli avvenimenti, alcuni di essi e in discontinuità, si verificano ma in contrasto con la natura terrestre nel suo regolare procedere e con la narrazione che l’uomo, per mezzo del suo agire, ne porge nelle epoche. Un tempo grandemente compresso, più breve del battito del cuore umano, impenetrabile perciò da mente mortale. Il tempo in cui imperversano le Furie, furia ac pestis, violente agitatrici delle acque tenebrose. Dove passano esse lasciano cicatrici che non si sanano facilmente. Un tempo ribollente, in cui tutto si rimescola. Ciò, in assenza dell’Uomo?

   Il dilatarsi del tempo ispira il perenne, determina l’inalterabile, l’incrollabile; il ristrignersi del tempo, il suo accorciarsi, mostra la provvisorietà, la precarietà d’un’epoca breve, ne segnala la caducità.  L’uomo di questo tempo, l’uomo/humus, chiusa l’IDEA nella cretacea teca (scatola cranica, il teschio), e ripostivi iattante i suoi pensamenti, di ciò ha fatto un altezzoso culto dedito a un cretaceo Moloch scientifista! Una ibrida entità, un demoniaco spietato Robote che pretende sacrifici umani. Questo è il tempus furiale, tenebrarium e qui è il temporis punctum, il momento, in cui si insinua la perfidia, il maleficio, il delitto, lo infandum scelus che astringit e summittit l’indole delle sgovernate genti!

 

LE FORTEZZE VOLANTI  -  LA MORTE DAL CIELO

 

   Nella prima Guerra mondiale l’aereonautica, agli inizi d’un impiego bellico, fu di rado utilizzata per portar offesa alle popolazioni civili inermi, e fu esiguo il numero delle vittime. Fu nel pieno della deflagrazione della seconda Guerra mondiale, maturava la fine della prima metà del XX secolo, che progettata soprattutto dagli angloamericani, la morte dal cielo fu da questi portata con spietato terrore cagionando centinaia e centinaia di miglia di morti civili e distruzioni immani. Dai cieli d’Europa ai cieli d’ Asia il rombo letale delle cosiddette Fortezze volanti andò facendosi sempre più cupo e denso d’una disumana minaccia. La minaccia della morte dal cielo! Si placò, e per un momento, in quell’agosto del millenovecento quarantacinque con l’annientamento delle città di Hiroshima e Nagasaki, all’alba del sei e del nove, e lo sterminio di quelle popolazioni inermi. E ciò veniva ordinato, poi eseguito da conosciuti garanti della fratellanza democratica e anche della cristiana fratellanza!  Erano gli stessi che avevano sterminato intere popolazioni native di quel che ad arbitrio chiamavano Nuovo Mondo per appropriarsene e prosperar sulla sventura dei denigrati pagani, ‘selvaggi’ che scendevano sul sentiero di guerra con dardi a punta di selce. Invece, quelle genti nella loro religiosità vissuta, nel loro arcaico vivere, nella loro severa spiritualità, nell’educazione e addestramento al combattimento leale, erano di gran lunga superiori nel comportamento, in eticità e rettitudine, a quei sedicenti civilizzatori e puritani anglosassoni, già a quei tempi adusi alle armi biologiche; non per caso il vaiolo aveva preso a far vittime tra le genti di quelle sterminate praterie.

 

   Particolarmente sconcertante è il considerare che questo uomo d’Occidente, praticante una fede esaltata in un Dio, che si sostiene venuto in figura e corpo umano su questa Terra e che immolatosi per il bene degli uomini e per condurli ad una operante fratellanza, dopo morte risorto e asceso in cielo con il corpo, è incredibile – ma bisogna pur prenderne atto! – che quest’uomo, da tanto sublime immortalità dei cieli, abbia proprio dal cielo rovesciato sulla terra un inferno di fuoco. Basti sapere che le Fortezze volanti degli Alleati sulla sola Germania nel corso della guerra lanciarono 1.356.830 tonnellate di bombe. E sopra abbiamo già accennato alle terribili tempeste di fuoco che distrussero Amburgo, Friburgo e Dresda con un micidiale lancio in sequela di bombe esplosive ed incendiarie, provocanti roghi immani in cui periva miseramente la gente inerme, e impediti erano i soccorsi, in due giornate d’inferno, tra il 13 e il 15 febbraio 1945; moltissime le vittime, e non se n’è voluto mai precisare il numero.

 

   Anche l’Italia fu pesantemente bombardata dall’ American U. S. liberator, da Sud a Nord; Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Genova, Torino, Milano, tra le maggiori, e numerosissimi furono i morti civili e i feriti. Nemmeno Roma fu risparmiata, il 19 luglio 1943 nella mattinata e nel pomeriggio circa cinquecento bombardieri pesanti lanciarono tonnellate di bombe; oltre 3000 i morti sotto le macerie e una decina di migliaia di feriti. Poveri morti! Inermi e dimenticati e tanti, nell’euforia della... liberazione, pardon, Liberazione! Eppoi, la re-education al democratic del bomber exporter! Business, business! In un tempo che si ristrigne anche l’alterazione storica è comprensibile, a non parlare delle distorsioni ideologiche; come giustificabile invece è ogni fraintendimento, in quanto di enigmatico, di incomprensibile non rimane che il patologico, infatti è in un tempo ristretto e costrittivo che hanno incastrato questo triennio epidemico, e voi, amici, pur dotati e valenti, provate a smontarla siffatta menzogna! American trade-mark, always winning!

 

 

*

 

   “Quid Opis quid Salutis quid Concordiae Libertatis, Victoriae? Quarum omnium rerum quia vis erat tanta ut sine deo regi non posset, ipsa res deorum nomen optinuit. E che dire di Ops, di Salute, di Concordia, Libertà, Vittoria? Essendo evidente che ciascuna di esse, nel rivelare una tale potenza da non poter essere retta se non da un dio, venisse riconosciuta quale divinità, ottenendone il nome.” Nel De Natura Deorum, II, 61, Cicerone decisamente afferma che la Vittoria è una potenza numinosa riconosciuta e identificata con nome divino. A Roma veniva celebrata con la fronda d’alloro simboleggiante la solarità, l’arco trionfale e la solenne, quando veniva decretata, cerimonia del trionfo. Seguiva una pace giusta. Alla II Guerra Mondiale non seguì una pace giusta, né un solo vago barlume di pace, quindi non si può nemmeno affermare che lo stato di guerra ebbe davvero a cessare. Che esso si protragga a tutt’oggi è indubbio, e gli indizi si rilevano nella odierna situazione conflittuale e di scontri armati che perdurano anche nel cuore dell’Europa.

 

   Una immane strage, oltre i sessantacinque milioni di morti; gigantesche distruzioni materiali; inenarrabile, soprattutto in Europa, la distruzione culturale e di costume. Occupata e asservita l’Italia, debellata la Germania, debellato e prostrato con l’atomica il Giappone, l’Europa soggiogata fu divisa in zone d’influenza tra le potenze anglo-americane, blocco occidentale, e la Russia bolscevica, blocco orientale. Tuttavia continuò uno stato di ostilità permanente tra questi due blocchi: la Guerra fredda! Ma in giro per il mondo non mancarono una serie di guerre calidissime, con grosse distruzioni e milioni di morti. Guerra d’Indocina, dal ’46 al luglio ’54; Guerra di Corea, dal ’50 al ’53 con oltre 2.800.000 morti; Guerra del Vietnam, di lunga durata dal ’53 al ’75, vi furono sperimentati agenti chimici e bombe a grappolo, talché le vittime vietnamite superarono i tre milioni fra combattenti e civili; la Crisi del Congo trascinatasi tra ribellioni e interventi armati e con centinaia di migliaia di morti dal ’60 al ’65; Operation Just Cause, ovvero U.S. Invasion of Panama ’89/’90; Guerra Iran-Iraq, 1980/’88; Prima guerra del Golfo ’90/’91, una Coalizione guidata dagli S.U. attacca l’Iraq, con pesanti bombardamenti distruggendo dighe, raffinerie, centrali idroelettriche, e l’impiego di proiettili perforanti all’uranio  impoverito che cagionarono  un’elevata mortalità infantile, difetti di nascita  e un alto tasso di leucemia, con oltre 100.000 civili colpiti; Guerra in Bosnia ed Erzegovina dal 1/3/1992 al 14/12/1995, e che vi trovò implicate direttamente e indirettamente le principali forze mondiali, grande il numero dei morti; Guerra del Kosovo dal febbraio 1998 al giugno ’99, con i pesanti bombardamenti effettuati dalla NATO, grosse distruzioni e alto il costo delle vite umane; Guerra in Afghanistan dal 2001 al 2021, si sono verificati grossi massacri e violazioni dei diritti umani, molti i civili morti sotto i bombardamenti; la Guerra in Iraq, dal 2003 al 18/12/2011: una Coalizione guidata dagli Stati Uniti invade l’Iraq per rimuovere il pericolosissimo Saddam Hussein che va costruendo e accumulando enormi quantitativi di ‘armi di distruzione di massa’ per impadronirsi del mondo! Mentre l’embargo totale impostogli da quelli impedisce di curare i bambini irakeni che muoiono frattanto a decine di migliaia per denutrizione e malattie. La gente, che s’è scordata, o finge, di chi le armi di distruzione massiva le possiede davvero, e già senza scrupoli e senza pena le ha usate, crede alla TV ed è contenta di assistere all’impiccagione di quello lì; la botola e il laccio già erano stati preparati, e un macroscopico nodo scorsoio, per rassicurare i terrestri spauriti di brutto. E a quello lì, mettono sotto il naso l’enorme nodo scorsoio e aprono la botola... Fatto! Eh, poveraccio! Non solo quelle armi distruttive da far saltare in aria l’orbe terraqueo non le possedeva, ma neanche un esercito tale da poter, se non altro, sceneggiare la finta di difendersi da quel gangster, che davvero possiede e davanzo l’arsenale atomico più spaventoso nell’intera galassia. Quindi per lui rapida fu la disfatta, ma la guerra si prolungò in guerra civile nello sventurato paese, né ad oggi è cessata!

 

   Eppoi non scordiamo la “Primavera araba”, dal profumo piroforico, sediziosa e guerrafondaia, 2010/2011! Prima la Tunisia, l’Egitto, poi la Libia aggredita, bombardata e con l’intervento militare della coalizione NATO-USA assoggettata a operazioni belliche sino al sopravvento di dette forze e al rovesciamento del regime di Gheddafi assassinato insieme al figlio, e con l’insediamento d’un Consiglio nazionale transitorio e il seguito della Prima guerra civile libica. Le operazioni militari furono cruente, 50.000 i civili uccisi e migliaia di soldati. ‘Primavera araba’ ovvero export of democracy, un eufemismo questo, una perifrasi puritana, ossia yankee con zampino clericale (o grinfia? non trascuriamo che il dramma si svolge nel Mediterraneo!), per non trucemente esplicitare il profitable and lucrative business. La loro insaziabile, punica attitudine! E, aizzati dall’immondo vizio, vi schiaffarono dentro anche la Siria; e sono ormai undici anni di crisi e di guerra in Siria! Misera Siria! con centinaia di migliaia di morti e di mutilati, completamente distrutta la tua industria, irreparabilmente compromesso il tuo patrimonio artistico culturale; ad oggi e ad ogni ora nella stretta d’una irrisolvibile guerra; e continuano a contarsi i morti. Come nello Yemen, come nella Striscia di Gaza.

 

   Qui abbiamo inteso fare soltanto un riepilogo, limitandoci a rammentare i conflitti più cruenti e più disastrosi, per risparmiare al lettore pagine e pagine. Ad esempio abbiamo solo accennato al conflitto che infiamma da circa tre quarti di secolo il Medio Oriente. Abbiamo, però, ritenuto necessario farlo, perché la gente dimentica, o non si cura, o peggio vive nell’abbagliamento delle seduzioni tivvudiche, la mente accecata dal più ingannevole dei mass media: la schidiona cervelli!

 

*

 

AUGUST  mensis metendi

 

    August, nella lingua anglosassone il nostro agosto, e conserva il suono latino del mensis Augustus, il mese augusteo, di Augusto. Or dunque, augustus,a,um = sacro, consacrato; Augurium,ii,n. = augurio, presagio (propizio), scienza augurale; augŭro, ās, āvi, ātum, āre = trarre gli auguri, da cui la formula  “augurato” = ‘presi gli auguri col divino consenso’, sono vocaboli con lo stesso etimo del verbo augeo, es, auxi, auctum, ēre = far crescere, accrescere, ingrandire, e anche, fecondare, arricchire, far progredire, ampliare. Il mese in cui s’accresce l’aestus, il calore, l’ardore, la vampa del sole.  Aestate summa, siamo nel pieno dell’estate, nella fase dell’amplesso più caloroso con cui il Sole avvince a sé la Terra.

 

  Afferma Varrone, Liber I - De Agri Cultura, che ‘dopo il solstizio e fino alla levata della canicola la maggior parte dei contadini mietono, poi che il grano per quindici giorni se ne sta nella spiga, fiorisce per altri quindici e, una volta maturato, in quindici giorni secca. Quindi, una volta ammassato tutto il raccolto, raccomanda di affrettare e ultimare in quel tempo propizio anche le operazioni di aratura, infatti, tanto più fruttuose esse saranno quanto più caldo è il terreno mentre lo si ara. Raccomanda di procedere poi ad accurata erpicatura delle glebe; la terra dovrà essere minutamente sminuzzata, ed è quello il tempo adatto. Infatti è il tempo in cui il sole riscalda fortemente la terra!’ Agosto, il mensis metendi, delle calde mietiture, che accende i volti dei mietitori, che eccita le menti cogitanti; ma, attenti! i ‘calida consilia’ spesso inducono alla temerarietà. Agosto, il mese calefaciente che diffonde l’autorevole rosso calore, un benefico calore; il mese della mietitura che riempie i granai. Il mese che nutre, donando agli uomini il caldo pane, alle gregge e alle mandrie il buon fieno che secca nella calura. Quella calura che rende più godibile la frescura delle acque, salubri le sorgive, più fertili i campi irrigui, grata e festosa la pioggia inattesa.

 

   Agosto, il mese della raccolta delle biade, dei frumenti; tra l’altro il tempo giusto, favorito da Cerere,  per l’immagazzinamento di tutte le messi accumulate con l’assistenza di questa Dea, protettrice dei germogli e delle nascite, nutrice del genere umano: “...satis est populis fluviusque Ceresque, basta agli uomini l’acqua d’un ruscello e i doni di Cerere”, scriveva il poeta Lucano. Cerere seguita dall’Abbondanza, custode della cornucopia  che mai si svuota dei frutti campestri. Ceres, Cereris, dal più antico Kerres, Kerría, serbato nell’osca lingua e derivante dalla radice indeuropea ‘ker’, ch’ è la stessa del verbo crĕo, as, āvi, ātum, āre = far crescere, procreare, produrre, causare. Il principio, l’Iddia della crescita. Or qui, intelligenti pauca, e ci limitiamo a ricordare al diligente lettore il discorso di Varrone, su tradotto dal suo De Agri Cultura, circa l’intesa tra il Cielo (levata della canicola) e la Terra che concede le glebe surriscaldate all’intervento della mente e della mano dell’uomo. Anzi, riportiamo qui nel testo latino il punto più significativo: “Arationes absolvi, quae eo fructuosiores fiunt, quo caldiore terra aratur.” Cioè, nel corso dell’anno, quello solo è il momento di smuovere fruttuosamente il terreno, di “arare”; non ce n’è altro.  E principiando da questo cardine della disciplina e coltura dei terreni, gli agricoltori latini si dedicavano con salutare alacrità alle necessarie opere campestri; e dunque August era un mese festoso, a Roma e in tutto il contado.

 

   Tanti festeggiamenti e celebrazioni nel mese Sextilis, il sesto mese dell’antico anno romano, che quando poi venne dedicato a Ottaviano, cui era stato conferito il titolo di Augusto, ne prese il nome.  Così il mese in cui s’accresce il calore, che lo rende ricco di grano e fruttifera rende la terra, assunse anche il nome dell’Accrescitore, di colui che rende augusto, maestoso l’operare: scienter atque pie ago, facio, moveo! Un vir sapiens piusque, ac saturnius Pater.

 

   Il mese in cui s’accresce lo sforzo nei campi, terminare la mietitura, arare, raccogliere, immagazzinare, vuole anche essere il mese d’un accresciuto riposo, e Ottaviano cui, nel 19 a.e.v. con decreto del Senato di Roma, fu conferito il titolo di Augusto, nel seguente anno istituì le Feriae Augusti (oggi Ferragosto), che si aggiungevano alle festività campestri dei Vinalia Rustica, 19, dei Consualia, 21, di Opi Consivia, l’abbondanza dei raccolti il 25, giorno questo successivo al Dies religiosus del Mundus patet, cerimonia intesa a una interiorizzazione purificatrice e propiziante una pace interna all’uomo, e nella stessa societas una pacificante unione. La Pace è nei campi, ed è tutto, itaque, pace facta, in Urbe et in Orbe.  Et vero, augescente pace, Pax augificat deorum cultum agrorumque! E agosto, che abbiam visto avviarsi al termine in un lieto riposo di feste pie nella campestre pace, s’era pur presentato all’estate nel tripudio di feste altrettanto piissime, e in un guerriere! Le sue calende si distinguono per il carattere vittorioso delle celebrazioni: la ricorrenza di un tempio a Spes nel Foro Olitorio, votato a una Spes guerriera durante la prima guerra punica; poi un tempio di Victoria del 294 a. e.v. e l’altro intitolato a Victoria Virgo nel secolo seguente; si celebravano anche tutte le vittorie di Augusto che avevano posto fine alla guerra civile con la presa di Alessandria. Strettamente congiunta a Spes e Victoria, il 5 si celebrava Salus, la Salus Publica Populi Romani, con un solenne sacrificio sul Quirinale, dove il giorno 9 si celebrava Sol Indiges; il 13, unitamente ai festeggiamenti per Diana Aricina, si celebrava Ercole Vincitore nel suo tempio tra il Circo Massimo e il Tevere.

 

   Mese arcano, il Sextilis, vi si avvertiva la presenza delle primordiali deità del Lazio, i dii Indigetes, che ai tempi venivano evocati e invocati con arcaicissime preghiere, e sul Campidoglio vigilava ancora la triade sacra, Jupiter Mars Quirinus, tanto prima della profanazione etrusca che impose il Giove Ottimo Massimo. Già allora, pur se non così nominato, era il mensis Augustus, l’Accrescitore di cui abbiamo detto sopra, il mese della sublime intesa tra il Cielo e la Terra e la mirabile, regale Opera dell’Uomo. Il mese dell’aurea spiga, della ricca mietitura, il mese della perfetta aratura. L’Augustus celebrante la Victoria, la Virgo Numinosa e insieme la Gloriosa Pax, in cui il mitico Eroe trova ristoro della fatica, posando sereno in Sé stesso, fermo e stabile nel suo fondamento.

 

*

 

   Il lettore, che ci segue e che si è soffermato con attenzione su un precedente studio intitolato “IL NUOVO MONDO – YANKERIA”, ricorderà quei Fratacchioni dell’abbazia famosa di Saint-Dié des Vosges, una cittadina sul fiume Meurthe  nella Francia nord-orientale; ricorderà che quel monastero era un importante centro di studi umanistici sotto la vigilanza dell’alta prelatura della Santa Sede, il Vosges Gymnasium, dove si era sviluppato un movimento detto “Devozione moderna” e dove studiosi eccellenti e dotti umanisti lavoravano alla costruzione d’un mito che doveva sconvolgere la cosmografia universale, il mito del Nuovo Mondo, e come cinicamente e senza ritegno s’inventarono persino il nome con cui convocarla, codesta nuova, fuori dalle cerebrali latebre dell’umano genere a storica esistenza sull’orbe terraqueo. La più mastodontica tra le creazioni bibliche mai concepita, uno spudorato romanzone hollywoodiano ante litteram. Nella realtà l’annientamento di splendide culture e una criminale carneficina, un genocidio efferato, lo sterminio di milioni e milioni di nativi che liberamente vivevano nelle loro terre avite; terre antichissime, altrettanto quanto tutte le altre del pianeta. Eppoi, una volta venuti in possesso delle immense praterie del nord, in quel continente genti forestiere, prevalentemente anglosassoni, impiantarono, tratta dai testi giudeo-cristiani, la teologia escatologica del Nuovo Mondo: prototipo illuministico su cui si costruirono gli USA e nacque una evanescente ma speranzosa leggenda, quella dello zio Tom. E da quell’escatologismo puritano, venato d’un evangelico infantilismo, che si degraderà sempre più, sino al gangsterismo, spuntò dal profondo messianico gutture di Mr. Polke (11° Presidente U.S. – 1845/’49) l’annuncio del ‘destino manifesto’ che ispirerà il militarismo maniacale di Teddy Roosevelt (26° Presidente U.S.-1901/’09) sognante l’America padrona del mondo, infatti fu, allo scoppio della Grande Guerra, uno strenuo sostenitore dell’intervento Americano in Europa. Toccò al malaticcio e pacioso, ma fattivo Woodrow Wilson (28° Presidente U.S.-1913/’21) imporre l’imperialismo americano manu militari sulle deboli e disarmate Nazioni dell’America latina senza risparmiare massacri e frattanto preparare anche un grosso esercito che nell’aprile 1917 trasferì sul suolo europeo, ingerendosi nel conflitto in corso che aveva già dissanguato, coperta di rovine e stremata l’Europa. Alla Conferenza di Pace di Parigi gli Usa s’imposero come potenza dominante e nuovo modello politico al mondo intero. Un mondo da rifare, da rimettere a nuovo, da inserire nel vertiginoso progresso dei tempi cristianissimi e sempre più democratici, un mondo da educare e ammaestrare in una sempre crescente atomica... suspense! Una umanità in ansia, acutamente trambasciata nell’animo, del tutto ammutolita, come fosse all’improvviso precipitata nel pieno d’una pestilenza sconfinata, senza fine... Un Mondo Nuovo!

 

NELLA NUBE ATOMICA

SUL FAR DI NEBULOSI MATTINI

 

   In quelle nebbiose albe del 6 e del 9 Agosto dell’anno 1945, sulle città Giapponesi di Hiroshima e Nagasaki la morte sopraggiunse dal cielo al momento del risveglio, sul far del mattino. La morte lì per lì, ilico, la morte in un attimo e per tutta la massa dei cittadini, la morte in mucchio. La morte per uomini e donne di ogni età, vecchi e bambini, per i neonati della sera ante o di quel mattino, la morte per i nascituri, nel ventre delle loro madri. Morte nei ventri gravidi, morte per generazioni! La morte per civili inermi, per genti innocenti. La morte d’un mondo, un sacrificio immane al demonismo mostruoso che stava prendendo possesso del mondo, quel demonismo evocato da Mr. Polke con il nefario nome di “Destino manifesto”, quel demonismo che possedeva i pensieri di Teddy Roosevelt, che invasò la mente malaticcia del pacioso Wilson; il destino manifesto attivatosi nella soggettività, carente di idealità e compiti per una vera Civiltà dello spirito, del 32° Presidente Usa e che alla morte di costui per emorragia cerebrale il 12 aprile ’45 si trasferì tal quale, gelido e orrido, nella dannata scorza del suo successore.

 

   Il “destino manifesto”, ovvero il dominio assoluto e globale sul mondo del demonismo affaristico, del mercantilismo fine a sé stesso, dell’utilitarismo materialista dei devoti alle oscure divinità cananee, era stato fugato sull’Orbe terraqueo dalla solare Idealità romana. Cartagine, che nella lingua fenicia significa Città Nuova, fu vinta dalle legioni di Roma. La New City, il Nuovo Mondo, con il suo demonismo perverso e una spaventosa depravazione, dopo secoli tenta la ricomparsa e dilania con la sua hybris l’infelice ventesimo secolo. Et infernae usque ad hoc tempus turbae vastatrices ubique.

 

   “Il mondo sappia che la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, una base militare. L’abbiamo usata per abbreviare l’agonia della guerra, per risparmiare la vita di migliaia e migliaia di giovani americani, e continueremo a usarla sino alla completa distruzione del potenziale bellico giapponese”. Questo fu l’annuncio tutto menzognero diffuso dopo l’annichilimento atomico all’alba del 6 agosto ’45 della popolosa città giapponese, cui seguì alla successiva alba del giorno 9 quello di Nagasaki. Le due città non erano basi militari, il Giappone aveva esaurito completamente il suo potenziale bellico, l’Imperatore Hirohito già in luglio aveva avanzato richiesta di resa incondizionata. Una onesta persona, l’ammiraglio William Leahry così stigmatizzò quell’orrendo crimine: “I Giapponesi erano già sconfitti e pronti alla resa. L’uso di quest’arma barbara contro Hiroshima e Nagasaki non ci fu di nessun aiuto nella nostra guerra contro il Giappone. Nell’usarla per primi adottammo una norma etica simile a quella dei barbari del medioevo. Non ci fu mai insegnato a vincere la guerra in questo modo, e non si possono vincere le guerre sterminando donne e bambini”. Il cinico annuncio fu dato da Harry S. (il secondo nome era proprio una esse con il punto) Truman, 33° Presidente degli Usa che il 12 aprile ’45 succedeva allo scomparso in quel dì FDR.

 

    Era il mese del Augustus, il mese dell’accrescimento, il mese dell’aurea spiga, il mensis metendi, ed erano quelli i giorni di Cerere, i giorni della raccolta e dell’aratura, i giorni d’una religiosa intesa tra Cielo, Terra e l’Opera sapiente dell’Uomo, i Giorni di Spes, di Victoria Virgo, la Numinosa, della Salus Publica Populi Romani ed era il mese della Pax Augusta, della Pax Gloriosa, e di tutto ciò che alcune righe più su abbiamo ricordato. Ancora una volta Cartagine contro Roma. Una mastodontica materializzazione di aggressività e di massivo disfacimento, in un istante con un immane sacrificio di vite umane titanicamente divelse, sradicò quell’Orma di romana Civiltà che ancora improntava la cultura delle Nazioni d’Occidente, l’intera Europa. L’Orma Capitolina dello Ius e del Fas, l’Orma della Pax Gloriosa, l’Orma dell’Augusta Roma e l’Augurium del suo Sol Indiges.

 

 

 IN ATOMO, MORS

  Saeclum infelix

 

 

 “Non esser nati è la sorte

 migliore per i mortali …”

                        Sofocle

 

 

 Tristi sentieri si snodavano

 sulla Terra esausta

 tra suoli devastati...

 

 Le montagne franando

 trattennero il cammino.

 Felice chi, percorse impervie strade,

 raggiunse la meta!

 Tal cimento non volevamo mancare,

 ma nell’ ultima notte

 finanche delle stelle

 vedemmo languire la luce…

 D’avanzi di pasti cruenti

 e da fere e da corvi

 strapieni erano i putri solchi!

 Minacciosa l’orma

 del licantropo solcava

 il turbato etere; 

 marciva l’alba

 sui greti dei torrenti inariditi!

 Pietosa mestizia delle brume

 sulle vaste plaghe incenerite!

 Saranno mai più, i miti mattini

 coi soavi risvegli?

 

 Un ferale ululo lacerò

 le solitudini oniriche, penosamente grevi…

 Di schianto un rombo terrifico

 annientò ogni cosa. Disparimmo!

 Fummo? … Ombre … solo

 un’indistinta teoria d’ombre!

 

 Niuna di fior fragranza

 e di germogli

 a gli a pena vagenti, a nui

 né primule né frutti né primizie

 o d’ala mattutina un frullo;

 mai un fugace sorriso, cenno

 di lampeggianti aurore.

 

 Alme vulnerate,

 non lasciammo sul campo

 di vermiglio color

 piaghe pulsare!

 

 Non il più flebile lamento,

 né un singulto! No! A noi

 non un sospiro di dolor fu dato

 a maledire il Secolo infelice…

 

 

 

*

 

 

E tu, Occidente, ricorda!

 

Non c’è Vittoria con barbara strage.

 

Giammai Vittoria s’accompagnò alla menzogna.

 

Da sé la hybris s’arrende a Nemesi.

 

Dell’Olimpio è l’Imperio! La stirpe titanica s’attenda la folgore.

 

  


17 Maggio 2022 – dies Martis   

 

 

 

 

 

 

Rosette di maggio, la fioritura del pero.
Rosette di maggio, la fioritura del pero.

 

 

 

 

 

AUGURIO

 

nel

 

MATTINO DI MAGGIO

 

 

al richiamo e al passaggio 

d’un volo di tortore...

 

 

Il volo leggero d’un duo di tortore!

Ali che nell’aria si inseguono

sull’impalpabile risveglio

del mattino e il cristallino richiamo

che, con intimo familiare

riserbo, narra d’un nido felice!

E questa è di maggio

l’ineguagliabile attesa!

Chiuso nei tuoi pensieri,

se non cogli il ver di quel grido,

se quel racconto ti perdi,

quel tubare, e cotanto

amoreggiar non sorprendi

in quel congiunto volo,

non scoprirai come filare l’intesa

tra il tuo cuore e quest’ampio risveglio

nel mattino sereno di maggio!

 

 

 

 

2 Maggio 2022, nel sole del mattino

 

 

 

 

 

Nido: il Luogo delle origini. La Patria.
Nido: il Luogo delle origini. La Patria.

 

 

 

 

 

 

 

 

VASTAE TUM IN HIS LOCIS SOLITUDINES ERANT

 

 

 

 

Era giorno di festa (dai padri votato alle Palilie),

il giorno scelto in cui costruirono le mura,

ogni anno fan conviti i pastori, nell’Urbe i ludi…

                                                          PROPERZIO, El.IV,4,v.73/75

 

 

Trascorsa la notte, sorge l’Aurora; mi attendono le Palilie;

non a vuoto l’invito, se a me propizia è l’alma Pale.

                                                             OVIDIO, Fasti,IV,v.721/722

 

 

 

 

 

    Ancor oggi con la tradizione ne rimane vivo il racconto . . . Allor che l’acqua del fiume ritirandosi lasciò in secco sulla riva il canestro nel quale erano stati abbandonati i bambini, una lupa sitibonda scesa dalle montane selve dei dintorni, attratta da puerili vagiti, deviò la sua corsa verso quel pianto e accucciatasi porse ai piccoli gemelli le mammelle; essa li allattava con tanta mansueta cura che il mandriano del re, si dice che il suo nome fosse Faustolo, la trovò intenta a leccare con gran cura i neonati. Il mandriano, poi, tornato alle stalle, affidò i piccini alla moglie Larenzia acciò li allevasse.

 

   Questa, a un dipresso, è la narrazione di Livio, che Floro sunteggia così: Una lupa, avendo lasciata la sua cucciolata, prestò attenzione ai vagiti e, seguendoli, una volta trovati i due neonati li allattò in vece di madre. Il pastore della greggia del re, Faustolo, scortili un dì, fanciulli ormai, ai piedi d’un albero, li portò nella sua capanna e li allevò.

 

   Plutarco, nel suo Romolo, racconta che le acque del fiume in piena deposero il canestro con i neonati in un luogo chiamato Cermalo, sotto un albero di fico, detto Ruminale; lì una lupa allattava i gemelli assistita da un picchio che attentamente li sorvegliava. Aggiunge che quei due animali son ritenuti dai Latini sacri a Marte e che essi venerano grandemente il picchio. Rea Silvia, la madre dei gemelli, affermava infatti di averli generati da Marte.

 

   Igino nei Miti, al racconto 252, ove tratta di ‘Coloro che furono allattati da animali’, accenna ad eroi che furono allattati da una cerva, da una capra, da una cagna e ad altri che furono allattati dalle vacche o dalle giumente; e poi scrive: “Romolo e Remo, figli di Marte e Ilia, da una lupa”.

 

   Il cervo, il capro, il cane, la vacca, la giumenta, simboli, mire figurazioni paniche; emblemi delle grandi forze della Natura feconda, del suo potere e slancio generativo, come la vacca e la giumenta, quindi creatrice generosa e madre universale. Metafora della nostalgia per le solitudini e le altitudini montane, e perciò indicata qual nutrice divina la capra, Amaltea che allattò Zeus. Il rinnovarsi continuo della vita naturale, il cervo, l’animale di Diana splendente, dal corso veloce e dalla testa prodigiosa che ad ogni primavera muta il suo palco di corna svettanti nell’aria. Ecate, il volto oscuro della luna, la cagna. Vivente è la natura, e vive di sangue e carne sono le sue figurazioni, allegorie sulle labbra dei vati.

 

   Il lupo è altra cosa, un animale nella natura, ma è anche ultranaturale, addirittura ultramondano, e perciò vien spesso collegato al mondo degli spiriti, perché estremamente libero, capace di captare le energie sottili, di sventare i rischi e quindi impavido affrontatore dei pericoli, del tutto a suo agio nell’attraversare la foresta. Esce infatti dal nero pertugio ch’è la sua tana, nella cupa selva, e viene alla luce delle radure, ai luchi, templi aperti, solari, sacri agli dei della luce. Proveniente dalle bianche, crude terre iperboree, simboleggia appunto la luce dei primordi, i suoi occhi lucenti penetrano le tenebre delle notti più buie; e l’uomo, che oggi difetta della prontezza d’intuito, ha davvero bisogno del suo vedere e del suo udire, del fiuto sicuro del lupo, quando deve affrontare eccezionali, spaventose evenienze, dure prove, le selve oscure dell’umano stato. Diligente osservatore è sempre in grado di ritrovare la strada, insomma di non smarrirsi, pertanto significa la forza interiore e assurge anche a simbolo guerriero connesso a Marte e ad Apollo. Intelligente, sa quanto prezioso è il silenzio. All’uomo somigliante per la sua socievolezza nell’organizzarsi in branchi dominati da lealtà e amicizia, i lupi sono monogami, vivono in coppie che durano fedeli tutta la vita e, genitori fecondi, son molto dediti alla cura della prole; pertanto il lupo non guasta nel mito d’un fondatore di città.

 

  Strabiliante metamorfosi: d’improvviso salta fuori la bestia selvaggia portatrice di strage, di morte!

  Ohé, le fauci del lupo! La caverna malfamata!  Laggiù è buio pesto, notte di fitte tenebre. Gorgo, canna d’una gola che inghiotte vorace, assetata di strage, di sangue, una brama crudele, una insaziata avidità di distruzioni. L’antro orrendo! Inferi istinti, convulso, maligno potere . . . Ohé, le fauci del lupo!

 

   Luogo perigliosissimo, ma necessario ne è l’attraversamento, indifferibile occorrenza . . . E sebbene esso sia inevitabile passo, uscirne è altresì indispensabile. Ohé, eccolo! è l’ululo ferale del lupo! Invita gli umani a ritrovare la propria voce, quella interna, e ad ascoltarla; ascoltarla a fondo, e senza remore e dubbi sostenere la prova, affrontare la foresta e ritrovare la strada. La via della conoscenza che rende liberi e fecondi. Quell'ululo è un invito a vincere la viltà. Sorgete umani, venite fuori dalle lurche fauci!  Non vi lasciate avviluppare dalle nebbie maleolenti dell’ignoranza, ha il suo covo in quelle nebbie l’insaziabile licantropo che mai si sfama, anzi immiserisce e affama. Cova grande rabbia nelle sue fauci questo steppico subumano seminatore di scandali, discordia e pestilenze. Si pasce della più vile malevolenza, questo zelota; malevolenza gridata, stampata, tivvudica. Lui e i suoi accoliti, i suoi servi! quanta malignità nelle loro relegazioni, nei loro confinamenti totali o parziali, nella loro quotidiana, pallosa invocazione della peste. Una peste assurda, senza senso, volgare tal quale il loro sussistere, il loro vacuo operare.

 

   Umani, che ancora vi reggete saldamente in piedi tra tanta rovina, voi che la peste non ha sfiorato, che non avete commesso la viltà di assuefarvi alla museruola e serbate una mente libera, vantando il pensiero franco, ardito, arioso, vivace, non temete e pronti porgete l’orecchio attento, ascoltate  l’ululo lucente del lupo appenninico che nel candore delle albe sbuca dalla cupa foresta e chiama a raccolta i Luceres, gli abitanti iperborei degli antichi luchi perché si uniscano ai Ramnes e ai Tities, onde spazzar via dalla Saturnia  Tellus la decadente viltà, il defedamento, provocati dal lungo prepotere degli arroganti cleri aruspicini, dall’usura del loro pavido mercanteggiare assisa sui “santi” sogli.

 

   C’è un che d’inesorabile nell’annunciarsi del lupo iperboreo, ma nulla di fatale, di fatidico è nel suo ululo lucente, raduna solamente i liberi e volonterosi, la cui indole sia leale, amichevole, socievole e feconda, l’indole salda dei fondatori.

 

l a  l u p a

 

 

 Il dio che si compiace del lupo

Apollon Lukeios:

Per la sua nascita Leto si trasformò in lupa.

                                                  Eliano

 

    Leto, che i Greci più antichi chiamavano Latona, la veneranda Matrona dei rigogli e custode della giovinezza, la lupa iperborea, figlia del Titano Ceo e di sua sorella Febe, entrambi nati da Urano, il Cielo stellato, e da Gea, la Terra fiorita. Asteria, l’Iperborea, era sua sorella; entrambe erano figlie di Ceo, il pilastro del Nord, che regge tutto l’edificio del mondo. Erano coteste tutte divinità della conoscenza. Asteria sposò il Titano Perse e dalle loro nozze nacque Ecate. Zeus, un dì, sorprese Asteria al telaio intenta alla tessitura e se ne innamorò; per rapirla si trasformò in aquila, e, presta, Asteria si mutò in quaglia, fuggì lontano e per celarsi si tuffò nel mare Egeo; proprio in quel punto emerse d’un tratto un’isola che fu detta Ortigia, significante l’isola delle quaglie. Dipoi accadde, che Zeus impregnò di seme divino la giovanile età di Leto, ed essa, per sottrarsi alle ire di Era, assunse volentieri le grate spoglie d’una lupa. E la lupa iperborea fuggì, e nel suo errare venne sull’isola di Ortigia.  Su quella terra sororale, ferma sulle ginocchia e coperta da una palma, la lupa iperborea si sgravò. E nacque Apollo Lukeios, fulgente di luce iperborea, il dio della lira e dell’arco tremendo, il signore delle Muse, ed Artemide, la splendente Diana. In quel mentre, l’isola di Ortigia scomparve dal mare circonfusa d’una intensa, abbagliante luce, e quando gli occhi umani poterono nuovamente posarsi su quella terra, ravvisarono in essa la lucente Delo, l’isola dei divini gemelli partoriti dalla lupa iperborea.

 

*

 

   Una gran solitudine dominava allora quei luoghi. Tenet fama . . . lupam sitientem ex montibus qui circa sunt ad puerilem vagitum cursum flexisse; eam submissas infantibus adeo mitem praebuisse mammas . . .

 

   Ancora una lúkaina, una lupa iperborea, e due gemelli, figli questi del dio Marte e di una Vestale; e il latte del lupo nelle membra d’un dio, Quirino, nelle membra d’un popolo, il popolo dei Quiriti. Da quelle grandi solitudini selvose, dalla tana oscura del lupo risorgeva alla luce l’iperborea Roma, Città degli Uomini e degli Dei.

 

   Sexta Olympiade, post duo et viginti annos quam prima constituta fuerat, Romulus, Martis filius, ultus iniurias avi, Romam urbem Parilibus in Palatio condidit.    (Velleio Patercolo)

 

 

Iovis dies, XXI di aprile dell’anno MMDCCLXXV a.U.c.

 

 

 

 

 

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    I N N O  A  V E N E R E

 

          L’Amor che move il sole e l’altre stelle

                                                                              DANTE

 

 

Degli Eneadi genitrice, degli uomini voluttà e degl’iddii,

Alma Venere, che sotto i vaganti segni del cielo

Di legni gremisci i mari, fai fruttiferi i campi, per Te

Ogni specie animata nasce e vede del sole la luce!

O dea, si ritirano i venti al tuo avvento e il tempo nuvolo;

L’industre terra sotto il soave tuo passo fa sbocciare i fiori;

Sorridono a te le marine distese, risplende sereno

E fermo il cielo; infatti, appena si manifesta il lieto

Lustro di primavera, e inizia a soffiar di Favonio

La brezza fecondante, annunciano per primi il tuo arrivo

Nell’aria gli alati, mossi i cuori da un dolce brio. Indi le fiere,

E le greggi salterellano per le grasse pasture,

Attraversano impetuosi torrenti. Così ciascun essere,

Rapito dal tuo richiamo, cupido ti segue dovunque lo muovi.

Infine, per mari e monti e fiumi irruenti, attraverso

Le frondifere sedi degli uccelli e verdeggianti campagne,

Infondendo un’amorosa attrazione in tutti nel petto,

Operi affinché le generazioni si riproducano secondo la natura

                                                                                  delle stirpi.

                                             ( . . . )

 

Intanto [e contemplato il momento], fa’ che le inumane conseguenze

Dell’impiego delle armi, per i mari e la terra tutta, frenate

Si plachino. Infatti, Tu sola puoi con tranquilla pace

Soccorrere i mortali. . .  

  

lucrezio, DE RERUM NATURA

(ns.traduzione)

 

     

I Aprile 2022 – Veneris dies

 

 

 

 

 

 

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S A C R A T A  F A C I E S   F A X

al tricesimus dies

 

 

 

La darsena è chiusa!

Non c’è romore di sega o martello

Nell’arsenale,

Sguarnito è l’intero cantiere.

 

   Son troppi anni, e il bastimento

spinto da sinistri venti

or da poggio, or da orza,

per lungo tempo ha navigato

contro il favore del cielo.

Non è assennato andar a ficcarsi

nelle fauci dell’orca,

volteggiare tra i marosi,

dispregiando la benevola brezza,

la guida sapiente che il giusto moto trasmette,

e, alla buon’ora, scansar la procella.

   Una nave predata e in burrasca,

cieco, muto e sordo il nocchiero;

sventurata nave scagliata

da duro, gravoso frangente

su rovinoso lido!

 

Parafrasi d’un cupo divenire,

Tal cruccio attrasse a sé la mente;

Con la voce irata d’un patrio Nume

Si piantò nella mia testa.

Ingiustizia e inverecondia,

Tragiche vele!

Male è non aver a bordo un buon carpentiere,

Male dare pabula morbo,

Allontanando il medico dall’ammalato,

E favorendo la sconsigliata

Farmacopea dei mercatori.

Infamia è sottoporre a usura

La salute del mondo, delle madri

E della lieta fanciullezza;

Abbatter gli animi in profondità,

Scorar le menti,

La volontà retta estinguere,

In gel di sgomento prostrare i cuori!

E, a te, Rappresentanza, che amore

E cura dovresti aver del popolo,

Dico: Ha del mostro richiamare

Un passato, che fu vuotezza,

Affidargli da capo il timone

D’una nave tradita:

Relitto di scafo, sarà domani

Su d’un rovinoso arenile!

E la darsena è chiusa.

Sguarnito è l’intero cantiere.

 

Oggi voglio colorarmi di verecondia,

D’animoso rossore, e imperturbato

Privarmi del nome, di tutto.

Qui ritto, in piedi dinnanzi a voi,

E che la vostra indifferenza

Sia l’ultima costrizione, esigo

Bruciar mia figura, farne una face,

Ardere in spiro di fuoco! Fiamma!

Nei secoli, alla mia terra, fidelis.

 

II mensis Martius MMDCCLXXV a.U.c., Mercuri dies

 

 

E voi - Voi sobri e animosi - cum silentio    

raccogliete la fiaccola!

 

 

 

 

Giovanni Segantini
Giovanni Segantini

 

 

I N  N O M E  D E L L’ A N T I C A  M A D R E

 

L A  P A T R I A  I T A L I A

 

I I I

 

 

La trama nascosta è più forte

di quella manifesta (Eraclito)

 

L’essere è rispetto al divenire

nello stesso rapporto in cui è la verità

rispetto alla credenza (Platone, Timeo)

 

 

   “Quod si apud antiquos non magnae dignitatis pecus esset, in caelo describendo astrologi non appellassent eorum vocabulis signa, quae non modo non dubitarunt ponere, sed etiam ab iis principibus duodecim signa multi numerant, ab ariete et tauro, cum ea praeponerent Apollini et Herculi. . . Se presso gli antichi non fosse stato in gran pregio il bestiame, gli astrologi non avrebbero da esso preso i nomi per indicare i segni, e non solo non ebbero dubbio alcuno nel farlo, anzi molti nell’enumerare i dodici segni principiarono con l’attribuire proprio questi nomi, l’ariete e il toro anteponendo ad Apollo e a Ercole; e questi, benché dei, vengon dopo con il nome di Gemelli. E non solo hanno ritenuto insufficiente che solo la sesta parte dei dodici segni derivasse il nome dal bestiame, ma vi hanno ancora incluso il capricorno, acché abitasse la quarta parte. Derivarono dal bestiame anche la capra, il capretto e il cane. E non è forse vero che tante regioni di mare e della terra sono conosciute con tal specie di nomi, avendo designato dal bestiame il mar Egeo, il monte Tauro a ridosso della Siria, il monte Canterio nella Sabina ed entrambi i Bosfori, sia il Tracio che il Cimmerio? E in tal modo non vennero forse distinti tanti paesi in varie terre, come la città Hippion Argos, in Grecia? Denique non Italia a vitulis, ut scribit Piso? Infine non dai vitelli l’Italia, come scrive Pisone?”

   Tutto questo riferisce Varrone Reatino nel De Re Rustica, libro II, 2; poi aggiunge nel sesto paragrafo: “Nam bos in pecuaria massima debet esse auctoritate, praesertim in Italia, quae a bubus nomen habere sit existimata. Graecia enim antiqua, ut scribit Timaeus, tauros vocabat italos. . . Difatti nell’allevamento del bestiame il bue è da tenere in grandissima considerazione, particolarmente in Italia, che si ritiene derivi il nome da quello dei buoi. Nella Grecia antica, come scrive Timeo, i tori venivano chiamati itali; dalla loro moltitudine, bellezza e feconda produzione dettero quel nome, Italia (Italiam dixerunt). Altri scrissero che ciò si verificò per il fatto che Ercole dalla Sicilia seguì sino a lì un famoso toro chiamato italus. Il bue s’accompagna all’uomo, nell’opra campestre  ponendosi al servizio di Cerere: socius hominum in rustico opere et Cereris minister.”

   Non abbiamo nulla da disapprovare in ciò che scrive il ricco sabino Marco Terenzio, civis perfetto, corretto militare, agronomo e allevatore espertissimo, grande studioso e copioso scrittore, molto stimato da Cicerone, che dopo la resa dei pompeiani e una sua personale impacciata resa, s’era avvicinato a Cesare che lo apprezzava sul piano dell’operosità culturale, tanto che gli affidò l’incarico di dar vita in Roma a due biblioteche, una di lettere latine e italiche e l’altra di lettere greche, ma non andò a compimento per l’assassinio del magnanimo dittatore. Questo rispettabile protagonista della vita pubblica e culturale romana aveva gran cura degli armenti, delle mandrie di giovenchi, delle greggi, e studiava a fondo e sentitamente il loro allevamento. Nutriva per il bove una particolare predilezione: “Hic socius hominum in rustico opere et Cereris minister, ab hoc antiqui manus ita abstineri voluerunt, ut capite sanxerint, siquis occidisset.” Sì! al servizio di Cerere, e “per questo gli antichi vollero che da esso fosse tenuta lontana la violenza, tanto da stabilire la pena capitale per chi lo avesse ucciso”. E segue una lunga, appassionata celebrazione dei bovini che coinvolge il lettore, insomma non lo lascia indifferente. Il tutto nella più genuina tradizione italica, chi non ricorda il Carducci: “T’amo, o pio bove, e mite un sentimento/Di vigore e di pace al cor m’infondi...?”.  Da parte nostra dunque nessuna contestazione o rilievo abbiamo da opporre a quanto riferisce e osserva il buon Varrone.  Eh, la Saturnia Tellus, era popolosa allora di prolifiche mandrie e di bovidi a greggi e greggi! era la terra di robusti, diligenti agricoltori e allevatori; di mandriani e pastori, marciatori instancabili. Tutto ciò ben si riconosceva nel paesaggio italico. Terra di apriche, umifere campagne, di ridenti praterie, valli e pascoli montani; universo di faunesche selve, tra fiumi, alture e marine piagge; in un aere felice, sotto uno stupendo cielo! E ogni essere vivente, umano, animale, vegetale, s’integrava alla perfezione in ogni contrada di quel bel paese. Giungesse pur dai monti o dal mare, l’accordo sublime di tutte quelle voci ne suscitò alfine l’alato nome. Il vagito dei bimbi e delle bimbe nascenti, il trepido pigolio degli uccellini dai nidi, il tenero belato della capretta o dell’agnelletto appena nati, il vago, ancora incerto muggito del vitulino, il chiacchiericcio delle creature boschive. Il grido dell’aquila sul picco, l’ululo del lupo nel primo albore. Concorse il rumorio delle onde lungo le lunghissime piagge e i fremiti della selva e il sibilo dei venti montani. E fu certo il divino Genio del luogo a pronunciare quel nome: Italia! Lo pronunciarono le Muse, i Fauni, i Vati, e s’udì la divina voce di Carmenta cantare l’antichissimo carme, il carme misterioso, dei momenti segreti. S’udì anche il verso albo, augurale, dell’uccello di Minerva; e l’arcana creatura, la Fata Turchina, comparve! Avvolta in una tunica tessuta di cielo, la fronte regalmente turrita e fregiata dell’Idalia stella, nella destra mano un globo dal quale spuntava una farnia che su di esso stendeva le orlate fronde; nella sinistra, un ramo di corbezzolo fiorito con il rosso frutto. La seguivano stormi d’uccelli idalii, le sacre candide colombe che s’accompagnano al fanciullo idalio, Eros, il dio che governa la vera medicina. Italia! Italia! Gridarono le creature della terra e del cielo, e le mitiche fanciulle che mutan con l’onda nuotando sullo smagliante mare. E, all’unisono, si levò l’alto sonoro muggito delle mandrie, bovi mucche giovenche vitelli, care a Varrone.

   Tutti i viventi regni della natura avevano preso parte al rinvenimento e all’annuncio del raro, incantevole nome. Italia ab Italo rege. Italo, un re che si era tenuto fuori dal mito e dalla storia, e nel battito sempre vivo del partecipe cosmo, trasse dall’origin sua, dal proprio retaggio, l’intimo cielo, le “verbi litterae” del patrio nome; così dall’ oscurore, dall’ombra, generando alla luce sé stesso e un popolo, per la propria Terra. Uno stato di coscienza cosmica, ovvero la coscienza di una universalità armonica e ordinata, ricongiunge l’intelletto dell’uomo alla solare luminosità del trascendente, la via romana al divino, che si rende pertanto tangibile già nel mondo della realtà fenomenica, nello hic et nunc, sottraendo l’essenza uomo all’ombra e alla frivola, illusoria quotidianità; dall’incomprensibile elevandolo all’intelligibile, ponendolo di fronte all’evidenza d’un mondo reale, d’una esistenza terrena predisposta al raggiungimento della sapienza e della verità, attraverso un giusto concepire e il retto agire. E tanto avvenne allorché Italo, l’itinerante duce, raggiunto l’onfalo del mondo, ne divenne all’istante il re, riconobbe il suo popolo e gli dette appropriato nome.

   Sesto Pompeo Festo, vissuto nel secolo II e.v., fu un grande grammatico e filologo romano, la sua summa fu il De verborum significatu, un dizionario enciclopedico alfabeticamente ordinato, per ogni lettera un libro; l’opera si giovava della conoscenza di fonti antiche, soprattutto romano-italiche, e spaziava dalla mitologia alla religione, dalla letteratura alla storia etc. Festo conosceva a fondo anche l’opera di Varrone e di Verrio Flacco, altro grande lessicografo vissuto ai tempi di Augusto. L’opera di Festo è giunta a noi molto danneggiata, ma Paolo Diacono circa sei secoli dopo ne compose una Epitome per Carlo Magno, e così si è potuto reintegrare il testo originale. Avendo studiato attentamente Varrone, Festo certamente conosceva il De Re Rustica e quelle cinque paroline ivi vergate dal Reatino: “Denique non Italia a vitulis, – seguite dall’interrogativo – ut scribit Piso?” Ma Festo che aveva interpellato tante fonti, e anche molto antiche, non fu dello stesso parere. Nell’enciclopedia di Festo al nono capitolo, lettera I, voce Italia, infatti si legge: ”Italia dicta, quod magnos italos, hoc est boves, habeat. Vituli etenim ab Itali itali sunt dicti. Italia ab Italo rege. Eadem ab Atte Lydo Atya putatur appellata.”  Dunque Festo distingue gli Itali, popolo di uomini, dalle mandrie bovine, e decisamente denomina non gl’Itali dai vitelli, ma i vitelli dal nome degl’Itali. E, in accordo con Virgilio, Italia dal re Italo. Virgilio nel terzo libro dell’Eneide, versi 165/166, affermava: “nunc fama minores/Italiam dixisse ducis de nomine gentem: or dunque è fama che i nipoti la chiamarono Italia dal nome del duce delle genti”. Oltre a ciò il glottologo non tralascia un dato ritrovato in qualche fonte molto antica e aggiunge: “Eadem ab Atte Lydo Atya putatur appellata”. Nelle Storie di Erodoto, libro I,7, si legge che ‘Lydo era figlio di Atys (Atte) della dinastia degli Attiadi e da suo figlio prese il nome tutto il popolo di Lidia’. Sempre da Erodoto Festo traeva che “Lidos vero in Italiam venisse, nemo dubitat”. La dinastia Lidia degli Atiadi risaliva al 1400 avanti questa nostra era; figli di Atys, fondatore della dinastia, erano Lido e Tirreno, questi a causa di una terribile carestia emigrarono in Italia. Tirreno fu re di un omonimo popolo, i Ͳυρρηνοί, non identificabili però con gli Etruschi, mentre di Lido si dice che dette il nome di Atya o Attalia o Atalia a quella terra. I Lidi parlavano una lingua indoeuropea, il luvio, affine alla lingua ittita. E la parolina atta vien dall’indoeuropeo, con il significato del nostro domestico, e proprio della puerizia, papà; anche gli ittiti dicevano attaš, le genti latine atta, e così i greci ἄττα, papà, babbo, caro vecchio, come leggiamo in un vocabolario di greco antico.  E allora, quel ab Atte Lydo, come riportato da Festo? Lido, figlio di Atys o Atte, non si è forse valso di quel nome tanto caro alle sue labbra di fanciullo, per onorare la terra che gli offriva rifugio? E Atys/Atte, nell’idioma luvio non equivaleva l’attaš ittita, non era forse padre?  E il capo della dinastia degli Atidi, Atys, quindi il padre dei Lidi? E, ancor oggi, i cattolici d’ogni paese del mondo non chiamano con il nome di PAPA, il santo padre, il capo della cattolicità?  Una sillabetta, un pa ripetuto, pa pà, affiorante sulle labbra della puerizia, e il figlio, la figlia riconoscono il padre, così oggi; ma anche allora: atta, due sillabette strettamente unite, e lo si pronuncia d’un soffio. Riconoscere il proprio padre significa riconoscere i propri antenati, intervenire nella propria genealogia, avere una famiglia, una religio, l’attesa d’un culto, praticare una pietas, avere una Patria, e da tal fortezza dire sì al mondo. E però il ‘processo democratico’ – come definiscono i suoi più autorevoli accoliti questo moto politico sregolato, progressivo, così dispoticamente insistente sui popoli, e che vien da parte d’una sempre più avanzante parassiteria – tale informe logorante corso, ha invece abolito la patria potestas, cardine dell’unità familiare posto dal tempo dei tempi a fondamento d‘ogni patria. Sommarie, epidermiche, affrettate agnizioni! E così il padre a stento riconosce il figlio e il figlio mal si raffigura il padre.  Il fanciullo da poco venuto alla luce non si presenta più ai suoi predecessori, ponte il pa’, quel ἄττα, babbo, babbino, caro vecchio, pronunciato d’un soffio.

    Va’, bel vitellino, va’ a crescere nella mandria! Nella mandria indistinta ignoto è il padre, un bue vale l’altro, solo le poppe di mamma vacca contano, soprattutto per il mungitore; eppoi sarai un giovenco, e infine anche tu un bue, e non varrà scegliere tra il coltello da disosso e il coltello da filetto, che entrambi son coltelli da macellaio. Sii accorto, infatti! questi non son più i tempi del buon Varrone che teneva in gran pregio il bestiame e prediligeva per prima cosa il bove, socius hominum in rustico opere. Il pio bove, Cereris minister!

 

*

     Siamo contrastati, trattenuti da un enigma? Si è presentato a noi un argomento misterioso? Ci siam persi nel complicato? Una questione impenetrabile, dagli sfingei tratti? Benissimo, allora possiamo iniziare il discorso proprio da qui! Cos’è la sfinge se non una figura ideata dalla mente dell’uomo, e poi edificata dalla sua mano? E, guarda un po’, una raffigurazione simbolica per l’appunto della essenziale, precipua e possente facoltà umana di rappresentarsi tutte le cose del mondo, in terra e nei cieli, realizzandone la figura; racchiuse in un sol simbolo visione e atto, accordo di mente e cuore, manifestazione compiuta d’una conoscenza e non di meno d’una volontà celeste e unitamente terrena.

   Sostiene Varrone “che se presso gli antichi non fosse stato in gran pregio il bestiame non avrebbero da esso preso i nomi per indicare i segni nel cielo”. Ed enumera vari segni, l’ariete e il toro, la capra e il cane, il capricorno, e aggiunge che molte regioni del mare e della terra derivano il nome dal bestiame. Di conseguenza occorre qui fare chiarezza con alcune ovvie osservazioni. Innanzi tutto, se ci troviamo di fronte al severo cipiglio della Sfinge è segno che ce lo meritiamo. Meritiamo il suo sdegno perché abbiam perso il ben dell’intelletto. Son diciotto secoli circa che ci raccontiamo favolucce, anzi viviamo immersi in una strana favolosità; implicati in una singolare denigrazione di noi stessi. D’altro canto, per darci tono, oscenamente ci esaltiamo, ci crediamo i signori del creato, padroni assoluti di tutto il mondo, minerale, vegetale, animale. Non vogliamo però dilungarci, saremmo costretti a descrivere cose spiacevoli, anzi oscene, in specie se volessimo solo accennare al settore industriale della carne, ove si massacrano in pochi minuti centinaia e centinaia di animali, polli, conigli, agnelli, indegnamente e con raccapriccio addirittura del demone stesso della morte. Per cui viene adesso a proposito l’intervento d’un vecchio amico, oggi nostro commensale, lettore di Platone ma anche ammiratore della raffinata ironia volterriana; ci par sia utile qui trascriverne il propizio apporto e volgere l’attenzione al provocante, forse pungente raccontino.

 

L’ A D A M U L O (Racconto

 

     Già! Perché un tale, il Criatòr Mundi, un bel dì dall’alto della sua eternità si mise a criare alberi, piante e animali per farne dono agli uomini, ai buoni e ai cattivi. “Tu, mia criatura prediletta” – tuonò il Criatòr attraverso il pelo della crespa barba in cui scomparivano le sue labbra che aveano taciuto da un’eternità in attesa dell’Adamolo primo – “tu sei da ora in poi la criatura di tutte le criature, e con licenza d’uccidere. Per questo ti ho criato bipede, mentre quelli quadrupedi o rettili, pesci e anche uccelli; distribuendoli quindi in tutti gli elementi, perché tu possa cacciarli o pescarli dappertutto e cibartene. Come vedi a tutti ho dato un nome, ma essendo essi commestibili, comprese le loro cervella, il fegato e il cuore, non ho voluto fornirli di ragione per non aver mai, io satollo d’eternità, a trattare con essi, e per agevolare il tuo incontentabile predominio. Te invece ho provvisto d’un ben strutturato cervello, spesso odioso e disgustoso, ma contenente la ragion sufficiente per riconoscere me e questa mia grandiosa opera, di cui possa tu discutere, e così parlarne all’infinito. Questo, fin quando solo sarai a goderti il vuoto de l’Eden; quando poi apparirà qui Eva e la sua voglia, e pianterà la grana della mela con la gravidanza gemellare e la famosa figliata… Caino e Abele! Eh, saran guai, Adamoluccio caro! Con l’augurio di crescere e moltiplicarvi, mi ritirerò dietro gli spessi velami dell’eternità e lascerò i tuoi posteri in balia della cristologia, un intruglio di testi guasti, sacri, misterici, filosofici… eppoi, d’una secolare e di secolo in secolo millenaria sfilza di papatici. Cacchi amari d’una genia di rimbecilliti modernisti, cui, io l’Antichissimo, sbatterò per sempre in faccia le porte dell’eternità”. E d’un tratto scomparve, lasciando l’Adamolo col naso tra le nuvole… nuvole minacciose, e per davvero!

*

     Ironia volterriana? Sì, il nostro amico legge scritti di Voltaire, lo divertono, tra la lettura di questo o quel dialogo di Platone, che lo fanno invece molto pensoso sul destino dell’uomo di oggi! Se il nostro ormai novantenne amico dovessimo avvicinarlo a qualche personaggio del passato, sceglieremmo proprio Varrone, e non per l’età, pur Terenzio raggiunse i novant’anni, né perché entrambi dell’alta Sabina. Persona serena, leale, la sua fides è indubbia, certa; le sue opinioni misurate, i suoi giudizi obiettivi, sempre assennato il suo agire. S’intuisce che vigila su sé stesso, notevole è la sua attenzione all’altro. Non tentenna mai; nelle circostanze difficili sa intervenire con sapiente coraggio. Agronomo esperto della pratica agraria dispregia, tra le macchine agricole, soprattutto l’aratrice; lui tornerebbe volentieri all’aratricoltura, con l’aratro e l’aiuto del bove. “Trattasi, dice, d’una cerimonia solenne, d’una vera funzione religiosa, è un misfatto squarciare il ventre della madre terra con ferrea aggressività; non darà più la terra disamata il miglior frutto e il contadino non sarà più il solerte difensore della patria, uno schietto patriota”. Ama gli animali, non manca verso essi di premure, per il latte di capra che beve, per i formaggi che degusta volentieri, per le uova delle sue galline, che lascia morir di vecchiaia; quelle riconoscenti, quando porta loro il cibo tripudiano, gli vanno incontro con le alucce leggermente schiuse e sollevate e godono delle sue carezze, ricambiano poi becchettandogli delicatamente le mani e d’estate, quando calza i sandali, le dita dei piedi che sporgono tra le stringhe. Ricorda spesso, con paterno richiamo: “Gli uomini dovrebbero avere gran rispetto del cielo e della terra, ché la terra ci nutre e il cielo ci dona luce e calore, ed entrambi il vitale respiro; onorandoli, ricambiamo la loro munificenza”. E a noi, ascoltandolo, par di stare in compagnia di Marco Terenzio, il civis romanus Varro dell’alta Sabina, che scriveva: “Principes dei Caelum et Terra; dei magni, divi qui potes!

   La credenza, il credere! da cui il credente, un participio sostantivato. E il credente è colui che ha una fede religiosa propriamente di credenza monoteista, cioè ebraica, cristiana, musulmana, di qualunque confessione siano. Questo tipo di credente viene anche detto ‘fedele’, in quanto egli tiene per vero e pone tutta la sua aspettativa nel cosiddetto “Mistero della Fede”, osservando i dogmi che quel ‘mistero’ contempla. Uno schema, un modello unificato per tutti ‘i credenti’, per la folla dei credenti! Quindi l’imposizione d’una forma mentis, la realizzazione addirittura di una struttura mentale che esclude ogni memoria, annulla il ricordo ancestrale (ritenuti peccaminosi), impedisce una più profonda, libera visione del mondo (pena torture e il rogo, come in secoli scorsi), vieta una diversa, più sobria e sana concezione della vita. Il tutto invece rinchiuso, ristretto, confinato in una ‘dottrina sorvegliata’, la catechesi, da un clero settario e massimalista.  E ciò al fine di evitare il ritorno dell’Uomo alla realtà essenziale, fuori dal comune favoleggiare, e che per mezzo di essa in lui si manifesti la pura, primeva Verità, che sempre rifulge in ogni Tradizione universale: la visione giustappunto atemporale dell’Uomo. Visione che fu della Roma arcaica, che in quanto Idea romana attraversò tutta la sua ardimentosa storia e la storia d’Italia e dell’intera Europa, oltre, e a tutt’oggi presente. La Aeternitas Romae.

   Nello spirito della romana civiltà, la fides era innanzitutto la persuasione effettivamente avvertita in animo   da l’individuo, il civis, di aver realizzato la piena consapevolezza di sé, quella conoscenza donde poter essere fido di Sé in sé stesso, e che tale virtù potesse parimenti dispiegarsi all’esterno, nella civitas, adempiendo lealmente ai propri doveri; quella virtù che dà la certezza d’una forza morale in possesso del sapiente operare nella realtà,  ossia del retto agire con valentia  e probità, compresa la virtù estimativa, la facoltà del corretto giudicare.

    Qui giunti, ci chiediamo se questo scritto non stia andando troppo per le lunghe, e ci accorgiamo che siamo stati costretti a seguire una rotta obbligata. Rassicuriamo pertanto il gentile lettore, non ci stiamo attardando di proposito, o andiamo tergiversando perché, incappati nell’incertezza, tentenniamo dubbiosi. Niente affatto! Assolutamente nessun dubbio su ciò che andiamo sostenendo; soltanto, c’è da placare lo sdegno della Sfinge.  E allora, veniamo al dunque! Son circa milleottocento anni che fu divulgata la narrazione comunistico-millenarista giudeo-cristiana, cui si aggiunsero le supposizioni progressiste con la credenza di un avanzamento dell’uomo da uno stadio di vita primitiva a un progressivo sviluppo, che avrebbe prodotto il miglioramento e il perfezionamento della società umana; a queste speculazioni illuministe si combinò poi l’ipotesi darvinista dell’evoluzione biologica dell’uomo da una specie animale inferiore.  Dall’uomo plasmato nella creta da un artefice demiurgico emerso improvvisamente dal sonno dell’eternità, all’uomo che si spicca dalle latebre buie della mente, dilatatasi per fortuita combinazione, d’un quadrumane! Questa la chercuta fascia, stretto tessuto di filamenti temporanei, cioè d’un tempo labile, fuggevole, precario, in cui hanno delimitato la durata, segnato i limiti dell’esistenza dell’uomo ormai caduto nella necessità. Pertanto, abbiamo voluto contrappore all’invalsa, preconcetta concezione, la visione tradizionale dell’Uomo solare; una visione ciclica, atemporale della sua presenza nell’universo, e pur nell’arco della stessa vita terrestre.

   Sostiene Platone che esiste “un’idea, unica ed eterna, per ogni categoria o specie sensibile qualitativamente distinta, con particolarità esclusive e con un proprio nome”. Orbene, il genitore, il padre dell’idea, coeterna al padre, è colui che dà il nome all’una e all’altra specie sensibile e il nome proviene direttamente da quell’unica idea che la specie rappresenta o si rappresenta in omne tempus. Questo perché l’Essere, il Tutto, è extratemporale. E vivaddio, l’uomo non trovò ogni cosa imbandita nel mondo e pronta ai suoi desiderata. Vogliamo e familiarmente dire che fu l’uomo a dare il nome ai minerali, a tutte le infinite specie del regno vegetale, alla moltitudine delle specie animali e alle miriadi d’insetti che turbinano nell’aere, sul suolo e nel sottosuolo. E i nomi non si danno a caso, perché ogni vocabolo possiede le sue particolari vibrazioni, nei nomi attribuiti agli esseri animati, poi, le vibrazioni sono ancor più concentrate (mantra) e agiscono sugli organi sottili, mente, sistema nervoso, cuore, fegato, di chi le pronuncia e di chi le riceve; quindi se quel nome non è appropriato può cagionar malanni, accidenti, sventure. Questo riguarda soprattutto i tempi ultimi e la hybris dello sventato, troppo mal progredito bipede. In illo tempore, invece, l’Uomo operò bene, mai tradì la coeterna idea e per ogni vivente essere pronunciò il nome univoco (unus voco), dando vita alla sua manifestazione concreta, senza ambiguità di significati e di denominazione, e quindi esattamente corrispondente al modello archetipale.  Nomen legitimus, opportunus, aptus, iustus, verus, suus.

   E così fu per il nome Italia, l’antica Madre, come andiamo sostenendo in questi scritti e testé affermato nei paragrafi terzo, quarto e quinto di questo capitolo che stiamo andando a concludere.  Siamo però prima obbligati a tornare a Varrone e alla presenza a noi coeva d’una sua figura gemella, il nostro novantenne amico dell’alta Sabina che con la sua attenzione e cura per gli animali ci ha riportato proprio ai tempi di Varrone, quando si riuniva con gli amici a discutere lungamente de scientia pastorali e de scientia pecoris parandi ac pascendi, sulla perizia pastorale nell’accudimento del gregge. Senz’altro l’interesse e la gran simpatia per il bove, tanto rispetto, pietas, era dovuto anche alla sua cura per il deorum cultus e quindi ad amor patrio. Ascoltiamolo: “…urbs cum condita est, tauro et vacca qua essent muri et portae definitum, et quod, populus Romanus cum lustratur suovitaurilibus, circumaguntur verres aries taurus… quando fu fondata la città il posto dove erigere le mura e   montare le porte fu segnato da un toro e una vacca; quando il popolo Romano esegue il rito purificatorio dei suovetaurilia, vengono accompagnati in processione il verro, l’ariete e il bue”. Su quest’aspetto del carattere e la vena culturale del grande studioso ci siamo soffermati, perché tramite il suo pregnante fraseggiare, ci accostiamo, anzi ci mettiamo in rapporto con i suoi tempi, in contatto quasi con quel dovizioso e sonoro paesaggio italico che ancora il giovane Leopardi agl’inizi dell’ottocento discopriva nei dintorni campestri del suo villaggio marchigiano: “Odi greggi belar, muggire armenti…”; quelle greggi e quegli armenti tanto cari alla bonomia pastorale dello scrittore latino. Tanto cari che a lui non pareva per nulla sconveniente far derivare il nome Italia dai vitelli, come anche a noi; capita appunto che nel pronunciare quel nome dall’amplitudine radiosa, come sopra abbiamo già detto, ci immaginiamo immensi campi di spighe e la stessa Cerere ornarsene, e udiamo il belar delle greggi condotte dall’augure pastore con nel pugno il lituo, e l’intenso continuo muggir degli armenti. Una vastità d’imago e di sòno, in unica armonia, vox-cantus, è compresa nel mantra Italia: sacra formula che non poteva difettar di germogliante vigore, simbolo l’immagine e il muggito del bove, il Cereri minister, che aveva persino tracciato il giro delle mura e segnato le porte di Roma. Inoltre, quando Terenzio si chiedeva: “E poi, non Italia a vitulis, come scrive Pisone?”, non ci troviamo affatto davanti a una certezza, non scordiamo che lui era un grammatico, ma ad un interrogativo molto dubbioso, e comunque da lui non confermato. Difatti, quando parlando dell’Italia, terra di mandrie, scrive: “quae a bubus nomen habere sit existimata”, quel sit existimata, che in italiano si può tradurre, si reputa, ritiene, è pari a un si suppone, presume etc., derivi il nome dal bove.

     Poco più di due secoli dopo, un altro grande grammatico e filologo, Sesto Pompeo Festo, nella surriferita sua magistrale opera enciclopedica, ove non venivano tralasciate anche le più antiche fonti ancora a quei tempi disponibili, Festo, che pare avesse per motto, il dubbio è il padre del sapere, proprio lui, Sesto Pompeo, sciolse il dubbio di Varrone, senza recare alcun dispiacere alla sua veneranda Ombra e senza violare e profanar l’enigma posto a scudo del sacrato nome, e con aureo stilo vergò: “vituli etenim ab Itali sunt dicti. Italia ab Italo rege”.

 

19 febbraio 2022 – dies Saturni

  

 Cfr anche sul nostro sito:

CREDULITAS - CRUDELITAS, 2018
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l'aurea rosa di Gennaio

dono di Giano e della Saturnia Tellus

           

 

 

I N  N O M E  D E L L’ A N T I C A   M A D R E

 

L A  P A T R I A  I T A L I A

 

I I

 

 

La lingua è un guado nel fiume del tempo,

ci porta alla dimora dei nostri antenati;

ma non potrà mai giungervi chi ha paura

delle acque profonde. (V. Illich Svityc)

 

 

 

 Aurea quae perhibent illo sub rege fuere

 saecula: sic placida populos in pace regebat,

deterior donec paulatim ac decolor aetas

et belli rabies et amor successit habendi

Tum manus Ausonia et gentes venere Sicanae,

saepius et nomen posuit Saturnia tellus;

tum reges asperque immani corpore Thybris,

a quo post Itali fluvium cognomine Thybrim

diximus: amisit verum vetus Albula nomen.

 

 

  Si narra che durante quel regno (il regno di Saturno) ci furono secoli d’oro; in tranquilla pace ei guidava le genti, fino a che una peggiore e degenere età, bellicoso delirio e smania di possesso subentrarono. Vennero allora gli Ausoni a schiere e le genti Sicane, e la Saturnia terra più volte convertì il nome. Vennero altri re e l’intrattabile, corpulento Thybris, dal quale noi Itali demmo nome al Tevere, e il fiume Albula abbandonò il precedente originario nome”. (Virgilio, Eneide – Libro VIII, v. 324/332, ns. tr.)

 

   Enea ha raggiunto sul colle Palatino la dimora di Evandro dove è stato accolto con grande gradimento e ha partecipato al rito commemorativo di Ercole uccisore di Caco, un mostro che infestava quei luoghi e cui toccò tal pena anche pel furto delle mucche commesso a danno dell’eroe ivi transitante con la mandria dei buoi di Gerione, da lui vinto e ucciso in Spagna. I versi sopra riportati fan parte del lungo racconto del vecchio Evandro all’ospite, dall’esilio che lo porta lontano dall’Arcadia, la terra antichissima “orta prior luna”, alla terra delle antichissime leggende e dei carmi che narravano di Saturno, il dio esule dall’etereo Olimpo perché detronizzato dal figlio Giove, che fuggendo l’ira dell’usurpatore su quella terra si nascose e vi regnò negli “aurea saecula.” Enea ascolta attentamente i prodigiosi racconti del vecchio “rex Evandrus, Romanae conditor arcis”; Virgilio attesta così, verso 313 del lib.VIII, che l’esule Arcade fu il primo fondatore d’un’acropoli romana sul Palatino! Non solo, ma sempre Virgilio nei successivi versi, e precisamente al verso 331 sopracitato, fa decisamente affermare ad Evandro la sua propria italicità: da Thybris noi Itali denominammo Tevere il fiume Albula. Certamente Virgilio non poetava a caso, assistito com’era dalle muse latine (ricordare: da latere, nascondere), le ninfe Casmena, Carmenta, Egeria, Antevorta, Postvorta. Roma! Italia! Accordi di suoni arcani, linguaggio sapiente, antichissimi mantra. Voci antichissime! e quindi uomini, vati, genti antiche? “Chi ci interroga?  – si chiedono Antevorta e Postvorta – Interrogate direttamente il Vate, la risposta è nei suoi versi, basta non toglier loro l’incanto carmentale, e penetrarne la formula magica”.

 

 

*

 

 

Tum vicina astris Erycino in vertice sedes

fundatur Veneri Idaliae tumuloque sacerdos

ac lucus late sacer additus Anchiseo.

 

  “Allora sulla Ericina vetta, prossima agli astri, viene eretto un alto tempio a Venere Idalia stabilendovi un sacerdote e un sacro bosco per largo spazio intorno alla tomba d’Anchise.” (Virgilio, Eneide – Libro V, v.759/761)

 

  Nella Teogonia Esiodo aveva di Anchise celebrato l’imperscrutabile paternità. Un imperscrutabile che pur ebbe luogo in alto, su una vetta, ma distante dalla vetta Ericina, nella lontana Troade:

 

   “Citerea dalla graziosa corona, unita all’eroe Anchise

da tenero amore, dette alla luce Enea sulla vetta dell’Ida,

il monte dalle tante gole, fitte di ventose selve”.

                                                                                                                                                                

   La mitica saga degli Eneadi, la non volgarizzabile istoria, ha il suo cominciamento su un monte molto selvoso, un monte della Frigia dedicato da incalcolabile tempo alla Magna Mater Idaea; dai Teucri fu detta Ida o forse Da, a Micene Ida-Mate e nell’Ellade classica Deméter.

 

   Afrodite è presa d’amore per il principe troiano Anchise che pascola le sue mandrie bovine su quelle alte valli. Per rendersi seducente agli occhi del mortal giovine ella si reca a Cipro, in un suntuoso tempio a lei dedicato. Adorna di buccole fulgenti, di volubili armille e illeggiadrito il morbido collo con aurei monili, s’accinge al desiato incontro. Per raggiungere l’Ida attraversa aspre valli selvose; le vengono incontro linci, lupi, leoni, pantere, orsi, e in quelle fiere infonde brama d’amore; qui il racconto suggerisce l’aspetto della Potnia Theròn, l’asiana Cibele, la Signora delle fiere. Tale si presenta al Troiano Anchise, e dicendogli di essere una principessa frigia; certamente sì, la seduzione si compie.

   Su questo sito alla pagina DISCRIMEN: Supremum certamen’, precisamente nello scritto Venus Nostra, con stretto riferimento all’inno omerico Ad Afrodite e alle notizie mitiche raccolte nel libro III della Biblioteca di Apollodoro, notavamo quanto in entrambi i testi si lascia intravedere “sul substrato esistenziale asiano del dardanide Anchise, ossia sul subconscio atavico del principe teucro, mandriano e custode di buoi dalle corna lunate e non pastore di greggi capeggiate dall’ariete solare; il dardanide, da parte materna di stirpe etrusco-pelagica (dalla figlia di Atlante Elettra, madre di Iasone e Dardano). L’ignaro, poco meno che inconsapevole eroe, temerariamente congiuntosi al principio divino, viene nel suo profondo, intimo essere, d’improvviso risvegliato e spronato ad accettare la paternità d’una rinnovata stirpe eroica. ‘Sorgi di Dardano figlio, ché giaci nel sonno profondo? Destati!’ La Dea nella sua maestà divina scuote Anchise: il principio solare si risveglia. L’eroismo uranico non deve procedere da vanità, il difetto d’Anchise, e quindi deve essere immune da hybris, come richiede la giustizia del sommo tra gli dei. Il riscatto, l’affrancamento deve dimostrarsi, deve essere compiuto. Lo realizzerà appieno Enea con la sua venuta sul suolo d’Italia. Anchise molto vecchio ed invalido anch’esso vi giunge, ma portato sulle spalle dal figlio, che per mano conduce il piccolo Ascanio. Su l’Itala terra una nuova generazione s’annuncia, una nuova cosmogenesi s’impone.”

 

   Da una vetta ad altra vetta: la vetta Ericina prossima agli astri accoglierà il tumulo con le spoglie d’Anchise e lungi ormai dalla ferina vetta dell’Ida frigia, racchiusa in ventose selve. Là, prossimo agli astri viene eretto un alto tempio a Venere Idalia. Quella Venere che aveva a Idalion, nell’isola di Cipro un tempio suntuoso ove la dea approntava il suo fascino seduttore? Ma in quei giorni eroici su quel tempio a Erice si posavano soltanto gli uccelli Idalii, bianche colombe sacre all’Idalia Dea, su di esso dal cielo splendeva la stella Idalia, il pianeta Venere, e saliva gli scalini di quel tempio, nella sua integra purezza, il fanciullo Idalio, Eros, il dio dei primordi che, comparendo portò nel mondo la bellezza e con la bellezza amore e sophia e con essi la salute dell’anima, perché egli governa, come dice Platone, tutta quanta la medicina.

 

   La Venere Idalia, la dea che nacque dalla spuma del mare, e Italia, la terra di Saturno, anch’essa in remota età emersa dalle acque spumeggianti dei suoi mari, l’antica Madre, ombelicus mundi, terra della bellezza, ma anche terra del fuoco e di gioviale ariosità, terra solare, operosa e sapiente, la terra di Cerere.

 

Nom. Italiă        Idaliă  

Gen.  Italiae      Idaliae

Dat.   Italiae      Idaliae

Acc.   Italiăm     Idaliăm

Voc.   Italiă        Idaliă

Abl.    Italiā        Idaliā

 

   La Tt e la Dd appartengono, nella nostra lingua come già nella latina, alle lettere dentali proprie e spesso si verifica tra esse interscambio e la t si trova sostituita dalla d, come nudrire invece di nutrire, da fedo fetido, quatriduano e quadriduano, carradore e carratore, corritore e corridore etc.; ugualmente in latino, haud oppure haut (non), quot o quod (quanti), sed o set (però) ed altro.

 

   Ma oltre a questa vicinanza c’è ancora una correlazione lessicale tra l’Idalia dea e l’Italia terra: il cuprum, i, n., rame rosso, da cui l’aggettivo cupreus, a, um, di rame, sono vocaboli della lingua latina, e Cypria, ae, ma anche Cypris, idis, Cipria e Cipride veniva chiamata Venere soprattutto dai poeti latini; nel quartiere di Roma detto Carinae, Le Carene, presso l’Esquilino esisteva un Cyprius vicus. Esitiamo un attimo; poi, e in più, audacemente porgiamo una sottile profumata polvere per toletta, il pulvis Cyprius, un neologismo del latino volgare che in italiano sarà la cipria; e non ci allontaniamo certo dall’Idalia stella mirando pure i nostri decorati volti in un venusto specchio di rame, il rubeo specolo, nel quale si rivela la imago veritatis. Da notare infine l’altro epiteto di Venere, molto usato dai poeti, Cytherea e Cythereia, anch’essa nata nel mare Egeo presso l’isola di Cythera, pur molto celebre per il culto di Afrodite. Eppur, nonostante Enea venisse appellato a volte, Ovidio tra gli altri, Cythereius heros, Virgilio certe narrat che il tempio eretto sull’Ericina vetta fu consacrato a Venere Idalia. E Virgilio non rievocava e poetava a casaccio. Qui è opportuno anche ricordare che il georgico cantore con la sua visione epica coadiuvò l’Augusto nell’intrapresa opera di restaurare l’antico culto della terra italica.

 

    Non è da trascurare poi che sconosciuta è l’etimologia della parola Kypros, il nome dell’isola; e grossa è l’incertezza degli studiosi tra le varie proposte. Alcuni sostengono il nome greco del cipresso, kuparissos; altri optano per il nome del rame, di cui l’Isola era ricca; nome d’altronde risonante anche nella terminazione latina aes cyprium, rame rosso, il metallo che fa pensare ai traffici marittimi che dovettero interessare l’Isola. Noi non ci ingeriamo, sarebbe indebito; soltanto e di passata riteniamo non attinente il termine kuparissos. Infatti il mito di Ciparisso, come spiega C. Kerényi nel suo “Gli Dei della Grecia”, riguarda il periodo di maturazione dei fanciulli, la loro adolescenza: “Era l’età della vita che, per i fanciulli come per le fanciulle, rappresentava il fuggevole fiore della giovinezza. Nei racconti l’amore di Apollo appariva molto pericoloso per entrambi i sessi. […] Tra i fanciulli amati da Apollo si menziona anche uno di nome Ciparisso, il <cipresso>.”  In breve: Ciparisso amava molto il suo cervo, animale sacro ad Apollo, involontariamente lo uccise; per tal colpa voleva morire o piangere in eterno il suo amico. Apollo lo trasformò nel sempre verde ma triste, lacrimevole albero del cipresso. Orbene, nell’isola della Venere Idalia ci fu anche un culto apollineo, ma non così complesso da coinvolgere i caratteri introspettivi d’un’età di passaggio della vita umana, quale l’adolescenza. Non molto distante dall’antica città di Kourion, la romana Curium, esisteva un santuario, ampliato in epoca romana, dedicato ad Apollo Hyletes (ὕλη, ης, ἡ, bosco, selva); un culto solare al dio dei boschi, semplice nella sua arcaicità, probabilmente non dissimile dal culto solare che si praticava nei Luci sul suolo italico, e pertanto pregiato dai Romani.

 

  Occorre liberarsi, e qui necesse, dal cerebralismo che rende cerebroso il mondo intero e vuol forzatamente cerebriforme tutto quel che ci circonda e addirittura quel che fu e quel che sarà. Per questo atteniamoci ancor più alla divina ratio del Musagete, cogliamo il consiglio del Sole e sorprendendo la nostra mente, e fortissimamente volendo, destiniamola al raggiungimento d’una maestria divinatrice. Signori del nostro destino, conquistatori della nostra ventura, rendiamo salda e solida la buona sorte della nostra gente e sommamente della Patria. E della Patria salviamo il nobile venerabile nome. Non guardiamo con occhi bovini alla sua antica, tanto antica e bella leggenda. Riscattiamo le menti ancor genuine, la gioventù ancor semplice e schietta dal pattume tivvudico; l’ignoranza di tanta robaccia è ottima cosa, un atteggiamento corretto; acquisire un sapere che non vale è offuscante, e l’offuscatore è sempre al servizio del tiranno di turno, ché negli sfaceli democratici le tirannidi precipitosamente s’avvicendano.

 

 

*

 

  Se si accetta che la realtà è un continuum, nel tempo e nello spazio, e si assume che i sommovimenti e gli spostamenti, i disastri e le fortune, i trionfi e le disfatte, le dispersioni e i ricongiungimenti, gli eventi insomma delle umane genti non si distanziano tanto e che l’odierno agire degli uomini, gruppi e popoli, non dista molto da quel che fu e agì in epoche lontane e come il tutto si potrebbe sistemare e riunire in un singolare compendio, senza nulla togliere al valore della vicenda umana, alla sua unicità e grandezza; ma l’odierno bipede, logico e astratto cerebrale, rifugge da ogni riepilogo, teme un risolutivo sondaggio e pratica arido e puntiglioso l’analisi, affidandosi al provvisorio. Rifuggono i modernisti e modernizzanti dal compendio mitico; fermamente credenti nella scienza e nell’evoluzionismo, dileggiano la sintesi epica, la spiritualità eroica. Il monstrum oggi viene recepito solo nel senso negativo, privilegiando cosi il portentoso infausto, essi danno addirittura il belletto al misfatto. E spunta il ‘mito’ hollywoodiano del gangster, del serial Killer, Landru, Al Capone, Manson, per esempio.

 

  Noi frattanto siamo convinti, e in una intima certezza confidiamo, che non ci sia sonda più adatta del linguaggio, sia mitico, sia simbolico, sia alfabetico, ch’è pur sempre simbolo. E ascoltiamo le voci antiche, mai menzognere, dei nostri Vati.  Ci parlano in idiomi vari, differenziati, ma sempre delineando un mondo che lascia intravedere un fecondo interagire, spesso direttamente trasmettendo, in un vocabolo, ossia in un suono vocale, culturali o persino cultuali interattrazioni, che possano essersi manifestate un tempo tra popoli affini; di vicendevoli benefici influssi, ma anche di rivalità o confronti. Immagini, voci, sonorità: visioni, idee, profondi pensamenti? Occorre prestare attenzione alle polisemie, alla compresenza di più segni, alle analessi, tender bene l’orecchio alle accezioni, alla significazione che quel simbolo, quella voce ti fa giungere da lontano; a quelle accezioni rare o anche volutamente rarefatte per nascondere, onde non facilmente il celato vi si ritrovi senza sforzo.  Poi occorre tener conto delle intercorrenti metanoie, fuori ovviamente dal teologare clericaleggiante, quando il presuntuoso, affannato bipede con tutto il peso della sua scienza, sotto il fardello del progresso, si trova all’improvviso di fronte all’inconoscibile che torna dal trascurato, anzi del tutto obliato, mondo delle origini.

 

   Dimessamente abbiamo interrogato voci antiche, segrete voci: Italia, Idalia e Cypris o Cypria, la Saturnia Tellus e la Stella Idalia o Venus Nostra basandoci su riferimenti virgiliani e accennando alle simiglianze, ma senza andar oltre, senza enfasi o forzature. Certo siamo rimasti ammirati di scoprire che quando Roma, nel condurre la rinascita di Cipro, oltre alla dea già nota in tutto il Mediterraneo con il nome di Venere Idalia rievocato da Virgilio, ritrovò nell’Isola anche un culto solare all’Apollo Hyletes, il dio delle radure boschive affine al dio dei Luci italici, se ne assunse la compiuta cura. Un ritorno! e da remoti secoli?

 

 

*

 

   L’idioma gentil sonante e puro”, è il verso iniziale d’un sonetto dell’Alfieri, che aggiunge “Orfano or giace, afflitto, e mal sicuro”, come anch’oggi, e forse peggio, imperversando l’anglicizzazione yankee e il politically correct, e stante “L’antica madre, è ver, d’inerzia ingombra”, come ancora oggi, politicamente impedita dalla colonizzazione atlantista, soprattutto USA, fiancheggiata dalla mafiologia e dal vaticanesco imperio (proprio così, come si è potuto appurare l’altrieri con le scontate prorogatio imperii!). L’antica madre, che “l’arti sue neglette” e sua maestria, “per lei sta(va) del gran nome l’ombra”, stava per restava, attualizzato, sta per resta. Quel gran nome accantonato nell’ombra è: Italia. Accadde in secoli lontani, ad esempio quando i Tirreni s’impossessarono non solo del mare cui dettero il nome, ma anche della terra che su quel mare giaceva distesa, dell’Aitala terra? La terra che ha detto di sì: a i t !

 

   Dante indica l’Italia come il “bel paese là dove ‘l sì suona”; si rifletta bene, il vate non dice ‘qui dove’ ma ‘là dove’, ovvero indica un luogo lontano, indeterminato nel tempo e nello spazio; e cosa c’è d’imprecisabile nel tempo e nello spazio se non ciò che è circoscritto, pre-ciso in sé stesso: l’origine, il principio, la nascita, che è continua, incessante, quindi imperitura? I Greci indicavano con il vocabolo neutro a i t i o n l’origine, il principio, la causa. Ma origine, principio, in sé e di per sé, sono l’affermazione assoluta, perché dessa è libera, incondizionata, compiuta, quindi vera, reale conferma. L’italico s ì, questa sillaba gentil sonante e pura, per Dante è un pregio del bel paese, e davvero il dir di sì è una unicità nel mondo. I latini pronunciavano sic! Avete udito lo squillante I tra la sibilante S e la C che raccoglie e ne fissa l’eco? Sicsì! Sic res est, così è. I latini si valevano anche del termine avverbiale ita come risposta affermativa, sì: ita vero, sì certamente; ita plane, è così del tutto. I t a, le prime tre lettere del nome Italia. Italia, questo mantra impenetrabile, segretissimo, che vien pronunciato in ogni angolo del mondo! Nel suo idioma è compresa l’affermazione più assoluta che si pronunci tra le genti   – S I – dato che la I, vocale che inizia il nome Italia, rafforza la sua acutezza appropriandosi del suono sibilante della esse e così attribuendosi l’immensurabile virtù delle affermazioni assolute. In latino, e nell’italiano ch’è il latino d’oggi, l’affermazione è un suono vocale ancestrale; è in origine, quindi di remota antichità. Dir di sì, è sempre render testimonianza del cielo, è distaccarsi dalla terrestre mota.

 

   Dire di sì, questa locuzione olofrastica assertiva era espressa dai latini con il termine verbale aio = dico di sì. Era il verbo latino (latente parola?) dell’affermazione assoluta, l’affermazione prima, originaria. Il verbo espressione del parlante la cui voce, emergendo dal silenzio, afferma sé stessa e dice sì al mondo. Era un verbo difettivo, si riduce difatti a pochissime voci; manca soprattutto dell’infinito, e propriamente, dell’indefinito modo esprimente azione generica e indeterminata, nel numero e nella persona. Verbo difettivo ma, rileviamo noi, solo dal punto di vista grammaticale, per mancanza di modi, tempi, persone, e non certo per sua imperfezione o difetto, ché proprio in tal forma esso mantiene la rigorosità assertiva, precisamente una sua compiutezza. Diamo uno sguardo a questa singolare flessione verbale. L’indicativo è il modo della realtà certa, e il tempo ‘indicativo presente’ di tal verbo ha le voci singolari: ego aio, tu ais, ille ait, io dico, tu dici, egli dice, e l’ultima plurale, illi aiunt, loro dicono; pluralità riunita, diversità ‘in un uno’, individuata; ciò è inattuabile però con la prima e seconda persona plurale, mancanti appunto in quanto il noi e il voi si confermano nella diversità. Mancano, poi, il futuro semplice e quello anteriore; è ovvio, l’affermazione non è futuribile, se non come eventualità o promessa. Sussiste invece, per l’indicativo perfetto, il passato prossimo e il trapassato remoto, solo la terza persona singolare, ille ait, disse, ha detto, ebbe detto di sì, che si ripete per tutti e tre i tempi ed è uguale alla terza persona dell’indicativo presente. Esiste, unico per intero, l’indicativo imperfetto, ego aiebam, io dicevo di sì etc., esprimente un’azione che si protrae nel tempo e addiviene attestazione certa, vien detto per l’appunto dai grammatici imperfetto narrativo. Il congiuntivo, modo che esprime la possibilità, l’ipotesi, la supposizione, quindi incertezza, ha solamente la terza persona del presente, ille aiat, che dica di sì, ritenendosi che da quell’io narrante ci s’attende certezza. Manca conseguentemente il condizionale, perché l’affermazione non può essere condizionata, ma libera; e così non compare l’imperativo, che è esortativo e tende a imporre. V’è il participio presente aiens, che dice di sì.

  

   Una voce verbale latino-italica, molto molto arcaica.  Aha, voces dei carmentalia tempora! quando non vigeva il lunae cursus, e non influiva sulle genti la luna crescente e la decrescente luna, ma ad un sì al mondo – vale a dire al solare raggio dell’intelletto, ai sapienti, agli alunni delle Muse e all’Idalia stella – erano affidate le terrestri sorti.  

 

 31 Gennaio 2022, Lunae dies 

 

 

 

il suo boccio fiorì nelle nevicate dei Carmentalia

poi si è schiusa, sorridendo al sole.

 

 

 

 

 

I N  N O M E  DELL’A N T I C A  M A D R E

 

L A  P A T R I A  I T A L I A

 

I

 

 

l’origine ama nascondersi

                                   Eraclito

 

   

 

Orta prior Luna, de se si creditur ipse,

     A magno tellus Arcade nomen habet.

Hinc fuit Evander qui, quamquam clarus utroque,

    Nobilior sacrae sanguine matris erat.

Quae simul aetherios animo conceperat ignes,

    Ore dabat pleno carmina vera dei.

 

     “La terra nata prima della Luna, a voler esser d’accordo con chi sé stesso rievoca, prende il nome dal grande Arcade. Da essa venne Evandro che, pur celebri entrambi i genitori, ancor più nobile era per il sangue della veneranda madre; costei non appena sentiva in sé l’ignea natura, con la voce gravida del dio, suscitava (risvegliava) veridici carmi”(i versi 469/474 tradotti da ‘I Fasti’ di Ovidio, L. I,11). Era Carmenta la madre di Evandro; a Roma le fu dedicato un sacello ai piedi del Campidoglio ed era preposto al suo culto un sacerdote, il flamen carmentalis, il che indica oltre all’importanza la grande antichità di tal culto. Nel mese di Giano, dio delle porte e dei passaggi, quindi dio degli inizi, l’11 e il 15 di Gennaio si celebrava la festa della dea Carmenta: Carmentis Antevorta, Carmentis Postvorta. Quella VERIDICA VOCE che viene da antiqua tempora! la voce degli aurei inizi che giunge dalla terra nata prima della Luna, la stessa voce che, approdata al presente, volge poi e s’indirizza nel dopo, diretta alla posterità. Carmentis – annota il Dumezil – porta un nome che riconduce le sue funzioni alla nozione possente ma semplice del carmen. E, suggerisce il vocabolario, ‘probababilmente per *canmen da cano,is,cecini,cantum,ere’. Il carme, l’inno, il canto, la voce del Vate che tesse e celebra, e, ispirato dall’ignea fonte (aetherios ignes), opera per la creazione; carmen è infatti creamen, creazione nel presente, hic et nunc.  La voce, il carmen, che fa il presente, la voce di colui che nel presente agisce il presente: praesum= attendo a, presiedo, governo.

    La Voce! la Parola! I latini dicevano VOX dall’ ind.e. VĀK, nell’India vedica entità onorata nella qualità di   formula sacrale. Vox, vocis, f., la voce dell’uomo e il tono della voce, vocis flexiones: vox gravis, vox acuta, vox clara, vox sonora, vox tarda. La Parola è la voce che si articola nel discorso, i latini dicevano verbum,i, n., da un’antica radice i.e, VAR che sta ad indicare il dire, quindi la voce articolata; verbi litterae son le lettere che compongono una parola, il vocabulum,i, n. (voco, as), e qui torna vox, la voce e il vocis sonus, suono di voce; vocalis, e, agg. e torna vox, chi è dotato di voce, e quindi parla, grida, canta: aves vocales, uccelli canori; vocalia antra, antri oracolari; vocales chordae, le corde della lira; il carmen vocale: la voce consonante in verità  dei Vati antichi. Di conseguenza le vocali e le consonanti, e poi la serie grafica esattamente disposta, le lettere appunto di quei suoni, l’alfabeto; ne furono inventori eroi leggendari e grandi sapienti: Toth, Ermete, in Egitto, Palamede, Orfeo, in Grecia e qui sul suolo Italico, Carmenta, come leggeremo poi.

   Racconta ancora Ovidio che il “giovane Evandro esiliato con la troppo veridica madre dovette lasciare l’Arcadia e i Lari Parrasii”, l’antichissima gente da cui discendeva. L’Arcadia e le nuove genti non riconoscevano più la vox clara et sapientissima in grado di operare ed educare verbis et carmine, essendo inconsideratamente precipitate nella sonorum aspera concursio, noi diciamo al modo dei greci cacofonia, e attualmente, quasi senza interruzioni, sperimentiamo difatti quale offuscazione e insania, quali gravi danni tal disgrazia arreca. E così i due esuli, lasciata la terra orta prior Luna, che poi fu l’Arcadia aurea, protetta da erti monti boscosi frequentati da divine presenze, regione ricca di mandrie e di lanose greggi al pascolo nelle erbose, popolate valli, presero la via del mare per approdare nell’Esperia. Per suggerimento della sagace veggente, Evandro spinse il battello nel fiume indicato e, navigando controcorrente, raggiunse quei luoghi che nei secoli a venire avrebbero visto la nascita di Roma. Avevano ritrovato la Saturnia Tellus, anch’essa ricca di mandrie e di greggi, e in più d’estesi campi di avene, orzi e frumenti; terra cara a Cerere, la dea adorna di ariste e di spighe.

    Gli esuli, la vaticinatrice e suo figlio incontrano un suolo disabitato, rade capanne di pastori tra verdi colli sparsi in una valle fluviale, ma Ovidio non esita e coglie la diva madre nell’entusiasmo carmentale della predizione, tesa ad incoraggiare il figlio onde egli possa spingere in avanti la vista, protendersi operoso verso il tempo avvenire. La terra è ospitale, favorevoli i numi del ricercato suolo, fortunati i piedi che stanno per toccare quelle rive; un dì quei colli diverranno mura sicure, “ingentia moenia”, “iuraque ab hac terra cetera terra petet: e da questa terra l’intera terra pretenderà le leggi”. È bene non trascurare, onde risvegliare i mitici significati di ciò che andiamo esponendo, che il vate romano sta celebrando in versi, con un carmen dunque, i Riti Carmentali. Ed è bene per giunta porre anche attenzione a quanto qui trascriviamo riportandolo da MITI di C. G. Igino (a cura di G. Guidorizzi, Adelphi ed.): “Dicono che Mercurio abbia portato per primo le lettere greche in Egitto e che dall’Egitto Cadmo le abbia portate in Grecia; poi Evandro, esule dall’Arcadia, le portò con sé in Italia, dove sua madre Carmenta le trasformò in latine, quindici di numero. Apollo aggiunse le altre con la sua lira”. Non Apollo ma i suoi sacerdoti, secondo altri mitografi; mentre Igino accenna pure alle dispute degli eruditi sul numero delle lettere e dei loro inventori. Epperò a noi interessa anzitutto inoltrarci nella lettura del nucleo ermetico sottostante il racconto mitico, precisamente nel ritrovamento di ciò che in esso vi è di essenziale, che lo anima.

   Dapprima però vogliamo accennare a un altro racconto di esuli arcadici. Auge era la figlia di Aleo che regnava a Tegea capitale dell’Arcadia. Il re aveva votato la giovanetta al sacerdozio della dea Atena Alea. Accadde che Ercole sorprese la vergine presso la sorgente del tempio e nacque un bambino, perché così aveva voluto la dea. La madre nascose il bimbo somigliantissimo al padre sul monte Partenio in un recinto sacro alla dea perché lo proteggesse, e su quel monte, nutrito da una cerva, poi crebbe presso i mandriani. Il re, scoperto il segreto, esiliò la figlia mandandola lontano, di là dal mare come tramanda Apollodoro nel Libro dei Miti. Auge si rifugiò in Misia alla corte di Teutra, re di Teutrania e fu da lui adottata come figlia. Frattanto Telefo divenuto adulto uccise i due fratelli di sua madre e per tal delitto perse la voce. L’oracolo consigliò il giovane di riparare in Misia, dove giunto con l’amico Partenopeo gli accadde di liberare il re dalla minaccia d’un acerrimo nemico. Teutra riconoscente gli diede in sposa Auge. C. Kerényi (Eroi della Grecia), che raccoglie queste notizie, scrive: “Essi erano già coricati vicini, quando apparve tra loro un enorme serpente. Se non l’aveva riacquistata prima, in quel momento Telefo riebbe la voce e la madre riconobbe il figlio. Secondo tutte le narrazioni, Telefo fu il successore di Teutra”. La storia dell’Eroe continua, noi ci siamo solo soffermati sull’episodio del riacquisto della voce per l’intervento del serpente e il riconoscimento materno. Il serpente che emerge dal ventre della terra madre, dall’oscurità alla luce: la voce che esce come suono dalla laringe umana e serpe, scorre manifestandosi e facendosi luce nella parola, nel canto, che s’amplifica nel linguaggio, s’articola nel discorso, si modula nel canto. Quando, misuratamente scandendo e sorvegliando i toni, si scolpiscono con voce predisposta al voluto effetto le lettere, dando un corretto suono alle sillabe e alle parole, orbene in tal caso si struttura, si ordina l’orare, la parola è viva, segnala l’animo del vivente che la pronuncia, ne porta alla luce la volontà profonda: il discorso, l’orazione, la preghiera. Quando con ininterrotti suoni regolati da voce armonica e modulata (cadenza, ritmo nelle variazioni) si genera il canto, allora vien celebrata Casmena la dea degl’inni, della preghiera, la dea del vaticinio, delle predizioni; e questo canto che tesse, che loda, questo canto beneficatore, questo lieto inneggiare, è solo degli uomini buoni e ancor degli uccelli che cantano armoniosamente.

   “D’in su la vetta della torre antica,/passero solitario, alla campagna/cantando vai finché non more il giorno;/ ed erra l’armonia per questa valle.”  Così cantava il Leopardi per distogliere la sua mente dalla cupezza del secolo e farla partecipe d’alata armonia. Infatti il canto armonioso si leva nell’etere con agile ala, e da lassù segna la visione dell’intero presente, dell’intramontabile origine e dei già preparati avvenire. E tale oggidì nella nostra Italia s’annuncia il canto della Casmena, il carme dell’arcade Carmentis; e quel nome, Italia, pronunciato con l’antico ausonio, latino suono, è un veridico carme e si leva, intatta voce, nell’aere, e ancor più su nell’etere, dilatandosi su tutti i suoi monti e i suoi mari, e la lucente eco raggiunge le più lontane rive: I t a l i a !

   Senza gravezza alcuna, vittoriosa al di sopra restando del volgar mondo, si dispiega come volo d’aquila, l’uccello che cantando fa silenzio, crea l’arcano silenzio delle vette, silenzio che nuncia ed impone con il suo regale real grido. Un unico carme, hic et nunc!

 

 15 Gennaio 2022, dies Saturni - celebrazione dei Carmentalia

 

Cfr anche sul nostro sito:

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Il sano rigore dell'inverno agreste
Il sano rigore dell'inverno agreste

 

 

P   E   S   T   I   L   E   N   T   I   A

 

vel

 

R E G I M E N   P E S T I F E R U M

 

 

 

 In ogni caso i medici, tagliando e bruciando in tutti i modi,

pretendono ancora di ricevere una ricompensa - pur senza

meritare nulla - in quanto maneggiano queste cose.

Eraclito, in La sapienza greca di G. Colli

 

La medicina dunque, come dicevo, è

governata tutta quanta dal dio Eros...

Platone, Simposio (idem)

 

   Il buonismo o, se preferite, la bonomia di coloro che si agitano con l’intento dichiarato di voler ricondurre questo nostro prostrato paese al rispetto per la violata Costituzione e restaurarvi la democrazia negata al popolo, tutto ciò sull’allarmante presupposto o inquietante sospetto che la Repubblica sia stata ormai assoggettata a un regime assolutista con l’avvio d’una dittatura, definita  “sanitaria” (affievolimento eufemico forse?) da cotesti preoccupati custodi e “fedeli” interpreti (da intendersi in senso strettamente bacchettone) del dettato costituzionale, questa vigilanza buonista di tanti buonuomini ci lascia del tutto indifferenti. Innanzitutto la loro premura di ristretta natura clericale, con tanto ansioso impegno fideistico, senz’altro li porta a battere una strada che non li diversifica affatto dai lor supposti oppressori, ché anche quest’ultimi hanno fede nella Carta, tal quale il legislatore Mosè nelle sue Tavole della Legge, e ad essa s’appellano nelle loro decretazioni, pretendendo, da provetti scolari talmudisti, di saperne sviscerare ogni più riposto e cavilloso accorgimento.

   Dittatura, boh! … Nell’antica Roma la dittatura era una magistratura conferita ad un eminente civis Romanus in via straordinaria; un ufficio affidato solo in caso di grave emergenza e per far fronte a situazioni improvvise di pericolosità o difficoltà difficili a superare. La durata dell’incarico era di mesi sei; al termine, il dittatore deponeva il mandato, che poteva, perdurando lo stato di eccezione, essere rinnovato. A protezione dei magistrati muniti di imperium veniva attribuita una scorta di littori e questo fin dal tempo di Romolo. Il rex e poi ogni console erano preceduti da dodici littori, ma alla persona del dittatore venivano destinati ben ventiquattro littori, il che sta a significare il rilievo autoritario e quindi la gravosità del compito. Tanta solennità veniva accordata solo a persone di somma capacità operativa, in pace e in guerra, e soprattutto di altissima virtù; e trattavasi, intendiamoci bene, della Romana virtus.

   Oggigiorno si abusa di questo termine e in senso spregiativo. Il politichese, il sinistrese e il politicamente corretto (politically correct), e, diciamolo schietto, l’imbarbarimento del linguaggio, che procede di pari passo con la degenerazione dei costumi e tutto il seguito, mette a rischio lo studio stesso della nostra storia, e non solo italica ma dell’intero continente europeo, con il tentativo in atto di annichilire una cultura millenaria e sprofondare il mondo in una globale liquidità comunistica, accasando l’intero genere umano, e in coabitazione forzata, nel gran pandemonio pandemico. E così in modo improprio vengono definiti “dittatori” quei governanti dell’America latina, d’Africa o d’Asia che, germinati da democratica semenza, s’impadroniscono del potere e lo esercitano con duro arbitrio e con prepotenza, sconfinando anche nell’illiceità; all’opposto, e in modo appropriato, costoro sono da denominarsi despoti. Il despota che spossessa il proprio popolo dei diritti che gli spettano, promulgando persino leggi illiberali, è un tiranno. Non pare che un affermato esperto di politiche bancarie, un mero contabile, catapultato di colpo, lui un angusto cosmopolita, nei domini dell’arte di governare uno stato, e messo a capo d’un ministero tutto politichini e bancarellari, seppur abile e di eminente bravura contabile, e aggiungiamoci anche di raffinata etica e gesuitica disciplina, stia esercitando una sì alta magistratura (ventiquattro littori!), come vogliono sostenere i buonuomini, ferrei costituzionalisti, cui abbiamo accennato all’inizio dello scritto. Piuttosto, ma senza esagerare e con ovvia considerazione per il malcapitato, è meglio scrutare tra gli esempi di dispotismo, tirannelli o tirannacci, che ci giungono dal terzo mondo; cioè più verosimilmente guardare a quel terzomondismo che comprende anche questa nostra terra infelice e gran parte d’Europa da tre quarti di secolo ormai soggiacente, detto senza infingimenti, a una massiccia sudditanza culturale e psicologica, oltre che politico-militare. Su questa vasta zona d’influenza fu esportata una democrazia artificiosa, sovente collusa con il malaffare, sottoposta ad un astuto controllo massmediale, alla occhiuta vigilanza dei servizi segreti nativi ed esteri, e agli intrighi delle intelligence predisposte ad orientarle e a stroncare sul nascere i tentativi indipendentistici. Il tutto presieduto e controllato dall’alta finanza internazionale: l’Usuriere, l’avversario dell’uomo, il Disgregatore d’ogni specifica, superiore cultura, un divoratore dell’animo e delle ricchezze dei popoli. La confusa ideologia democratica, quindi, e i governi delle cosiddette democrazie nazionali volta a volta opportunamente adattati ad arma per raggiungere la finanziarizzazione dell’economia mondiale e la globalizzazione del mercato! Tutto questo con l’inconsapevole appoggio dei ‘popoli sovrani’, perché le masse dominate e psicologicamente condizionate – dagli pure l’effimerità del benessere ma esercita nel profondo del loro subconscio la paura – le terrai sempre soggiogate al tuo volere. In questo grosso testo formato dalle pagine del tempo che vanno dall’anno dei bombardamenti nucleari, agosto 1945, a queste ultime improduttive annate d’angoscia pandemica, la parola chiave è: TERRORISMO! E il paradosso balza unicamente agli occhi di pochi, pochissimi; c’è infatti chi se la prende con marionette e burattini, additandoli come pseudo-dittatori e demolitori della democrazia, nel reverenziale timore d’affrontare il Burattinaio, il vero despota, tiranno che da dietro le quinte, nel segreto, muove le fila della finzione (democrazia mondialista? bieco totalitarismo?). Sì! Da dietro le quinte, laddove è insediato il governo del terrore, la crudelis superbaque dominatio! E così voi, creduloni, che esigete la restaurazione d’una democrazia che va in frantumi, e pel consenso anche del suo stesso orditore, sottoponete ancor più la vostra cervice a quel giogo, e il grande Despota se la ride. Lui è un tiranno senza faccia, ma se la ride tra i canini denti crudeli sulle mascelle consunte… Toh! Il vecchio di secoli, mostruoso teschio! Immemorabilmente scivolò fuori da desertiche bibliche dune! Tenta ora, nei secoli di questa modernità, “ferrea saecula”, di rimpolpare le occhiaie vuote, i suoi consunti zigomi…

   Eh, va’! la tintarella sulle spiagge, all’estiva calura allungati… e lieti tutti i santi giorni nella conciaia tivvudica, perennemente languendo nella superstizione! Superstizioni religiose, superstizioni politiche, e quelle del pensiero, e della falsa morale puritana! E quella superstizione che ha sul cerebro del moderno bipede il peso smisurato d’un arsenale atomico che da un momento all’altro potrebbe deflagrare o, d’altro canto, il fascino immenso dei voli spaziali! Lunari, marziani, uranici, nettuniani atterraggi, il giro in tre settimane di tutto il sistema solare: la strabiliante superstizione scientifica! E poi la superstiziosa ansia per la vita eterna, senza più l’inciampo della morte tra i piedi, senza più la fatica della procreazione, immersi in una transessualità continua senza barriere, in un liquido comunistico Eden senza confini… la più appagante tra le superstizioni, quella della scienza medico vaccinale! Con l’inconveniente d’un vaccino ogni sei mesi, e per l’eternità? Ma che volete sia un vaccino in pillole! anzi una pilloletta che si scioglie sulla lingua… Già! Siamo pressappoco alle soglie del terzo millennio di battezzamenti nel vaticum, il venenifero licore, l’atroce veleno spregiato dal poeta Marziale; un’ubbriacatura quasi bimillenaria, ancor più un’assuefazione forzata, quindi, alle pratiche penitenziali… Suvvia, ai battezzatoi vaccinici! Porgete il braccio ai vaccinostili! E senza tanti cristi…

   Ma davvero a noi tutto ciò importa? No! non abbiamo niente a che vedere! Bronchiti e raffreddori a iosa, ma l’influenza mai, perché mai ci siamo lasciati influenzare, da timore, paura, grosse fife o panico. Epperò, non subendo influenze d’alcun genere, non ci cacciamo nelle mischie né ci lasciamo trascinare. Abbiamo occhi ed orecchi, quindi osserviamo, notiamo e liberamente opiniamo. 

    E se di ciò poco o nulla a noi cale, è perché la bella Arianna (o l’infaticabile Aracne?) con singolare abilità ha tessuto per noi un filo sottile sottile ma di fibra che resiste… Certo, lungo e arduo è il cammino, ma in questo o in quel mentre sostiamo e gridiamo: All’erta, fratelli d’Italia…Vigilate!

 

 

*

 

Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum

morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,

omnia tum vero vitai claustra lababant.

 

 

(Dipoi, quando attraverso la gola la maligna violenza s’era riversata nel petto, affluendo al cuore sofferente dei malati, allora in vero crollavano tutte le difese della vita).  Multaque praeteria mortis  tum signa dabantur/perturbata animi mens in maerore metuque (E in più si manifestarono allora tanti presagi di morte, agitata la mente, in afflizione gli animi e un forte spavento). Mussabat tacito medicina timore (L’arte medica titubava in silenzioso timore). Nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus/nec mors nec luctus temptaret tempore tali (Neppure poteva trovarsi alcuno che in così grave momento non fosse colpito dal morbo, da morte o da lutto). Multaque res subita et paupertas horrida suasit (L’evento improvviso e la miseria indussero a orribili cose). Omnia denique sancta deum delubra replerat/corporibus mors exanimis onerataque passim/cuncta cadaveribus caelestum templa manebant (La morte aveva riempito financo i santuari degli dei di corpi esanimi e tutti i templi degli dei celesti rimanevano da tutte le parti ostruiti pei mucchi di cadaveri). Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus/minibus in Cecropis funestos reddidit agros/vastavitque vias, exhausit civibus urbem (A quel tempo tale natura del male con l’esalazione mortifera funestò le campagne nei territori di Cecrope e ne desertificò le contrade, spopolò la città).

   I succitati versi dal VI libro De Rerum Natura del misterioso Lucrezio, poeta latino seguace di Epicuro, attengono alla narrazione tucididea sulla spaventosa peste che sconvolse la città di Atene nell’anno 439 a.e.v. mentre durava la Guerra del Peloponneso. Tucidide, che pur fece personale esperienza del morbo, nella sua narrazione rimane neutro, per nulla partecipativo, senza rilevare alcuno stato emozionale, e procede da storico anche quando annota i dati fisiologici, patologici e le informazioni cliniche di cui dispone. Lucrezio si rifà da vicino alla narrazione dello storico, e tanto da vicino che riesce a cogliere, con poetico sentire e la finezza d’animo del filosofo e, con severo estro, la terribilità della dolorosa sventura che sconvolse le strutture religiose, culturali e politiche della capitale dell’Attica, sulla cui acropoli s’ergeva il dorico Partenone, dedicato alla dea della Sapienza, la vergine Atena. Orribile calamità, catastrofe che “incubuit tandem populo Pandionis omni”, si abbatté su l’intero popolo di Pandione (mitologico re di Atene). Vastavit…incubuit…exhausit… non c’era scampo, rimedio: “mussabat tacito medicina timore”.

   Dalla congiunzione della chiara obiettività dello storico con l’intuitivo lume poetico, del testimone narrante con le intuizioni del postero lumeggianti l’antica cronaca, al ricercatore ancor più lungamente postero forse si offre uno spiraglio, un indizio che getta luce anche sulla recente cronaca, quella in cui tutto il mondo in tal momentaccio è andato a battere il naso.

“Tutto il corpo, cominciando dall’alto, era attraversato dal male, che dapprima s’era addensato e rappreso nella testa; quando qualcuno, pur versando in grave stato, riusciva a scamparla, ciò lo si capiva dalla particolare affezione morbosa che lo aveva colpito agli arti inferiori”. […]  “Dal momento che il manifestarsi della pestilenza era ormai indescrivibile, dappiù il morbo infieriva con maggior violenza di quanto la costituzione dell’uomo fosse in grado di patire”. Sono questi dati clinici e fisici sul decorso del funesto morbo osservati e annotati da Tucidide nella sua opera storica: Guerra del Peloponneso. Un conflitto per la supremazia in Grecia, che vide contrapposte Atene con la lega Delio-Attica e Sparta con la lega Peloponnesiaca più la Beozia e l’attica Megara. Il conflitto iniziò nel 431 a.e.v. In quel tempo Atene possedeva ingenti risorse finanziarie e una flotta la più imponente, pertanto pretendeva in Grecia l’egemonia. La città era diventata una democrazia nel 507 a.e.v. per opera del politico Clistene, la prima nel mondo in cui il potere era esercitato da tutti i cittadini, esclusi quindi gli stranieri, le donne e gli schiavi. All’incirca un quarto di secolo dopo, precisamente nel 480, l’armata persiana di Serse invase l’Attica e la sua capitale, devastò l’acropoli e rase al suolo il Partenone antico, il tempio dorico dedicato a Pallade Atena. Nel 445 Pericle fece ricostruire il tempio affidando a Fidia il progetto. Il famoso architetto realizzò un favoloso monumento, la più grande e ornata architettura di tutta l’epoca classica. Il costo della costruzione risultò una enormità, ma lo strapotere di Atene e del suo esoso Stratego profittarono molto lautamente del tesoro della lega Delio-Attica. Sennonché quel magnifico edificio non risulta essere stato un tempio, ma piuttosto la Tesoreria dello Stato ateniese e frequentato dai funzionari del settore finanziario. Nonostante la superstizione dell’Atene democratica e mercantile vi avesse collocato all’interno una preziosa statua di Atena, un simulacro in oro e avorio, opera del grande Fidia.

    Prima della devastazione persiana del 480 c’era sull’acropoli di Atene un Tempio maestoso e solenne nel suo semplice, fondamentale riserbo. In quel luogo sacro si riunivano uomini amanti della sapienza e della giustizia, esperti nell’arte medica e nell’arte del governare, uomini veggenti ma di grande prudenza; sedevano a consiglio, in silenzio, con sul capo un elmo chiomato, impugnavano una lancia, uno scudo appoggiato alle ginocchia; gli scudi erano ornati di fronde di olivo e con al centro scolpita una nottola glaucopide, dai grandi occhi. Essi chiamavano l’ispiratrice delle loro virtù, e la sapiente custode di salute e di concordia nella polis, Athena Parthènos, una vergine dea guerriera dallo sguardo acuto, lungimirante, la fronte serena. La mente attiva, dal concepire immacolato che regge e guida il giusto agire, la salutare e salutifera condotta degli uomini, stati e popoli.

   Ma torniamo ai tempi di Pericle e del suo Partenone, più fastoso e magnifico che maestoso, più architettonicamente e doviziosamente imponente che solenne, più modernamente accessibile che sacralmente severo, più prossimo al pensiero profano che all’imperscrutabilità del numinoso, più vicino alla vanagloria terrena che alla lucente gloria del cielo. Pericle, la cui opera e solerzia furono prestate alla democrazia ateniese (o svendute per cupidigia di comando?), al fine di porre solide basi, allo strapotere politico e plutocratico di Atene, con la fondazione d’un impero marittimo-mercantile in quei tempi grandemente potente.  Apparteneva agli Alcmeonidi, antica e potente famiglia aristocratica di Atene; di lui scriveva Plutarco: “Di quella che era una democrazia trasandata e a volte molle come una musica languida fece un potere aristocratico e monarchico, che esercitò in modo lineare e inflessibile in vista di un progressivo miglioramento, tirandosi dietro il suo popolo, per lo più consenziente [...], se quello recalcitrava lo teneva sulle corde costringendolo a procedere verso ciò che tornava utile”. (Plutarco, Vita di Pericle – trad.M. Scaffidi Abbate)

   Come già sopra accennato la guerra peloponnesiaca scoppiò nel 431, di fatto fu voluta da Pericle. Lo Stratego ateniese provocò Megara, la fiorente città attica amica di Sparta, con un bando di attracco alle navi megaresi nei porti tutti della lega Delio-Attica. Ciò significava ridurre alla fame i Megaresi e la rovina della loro città. Megara si rivolse a Sparta che chiese ad Atene la rimozione del blocco; ma Atene sprezzantemente, forte del suo strapotere, non dette risposta. Spartani e Tebani invasero l’Attica e Atene fu cinta d’assedio. Pericle aveva fatto fortificare tutte le mura e ben attrezzare per una difesa ad oltranza; sul percorso di venti chilometri circa conducente al Pireo aveva inoltre realizzato un corridoio munitissimo di alti, granitici muraglioni e così tutto il porto era circondato e altrettanto ben stretto tra solide difese. La città, quindi, avrebbe goduto dei rifornimenti di viveri e d’ogni altro utile mezzo giungente, attraverso quel ben difeso passaggio, dal porto del Pireo. Riteneva Pericle che quel lungo munitissimo giro di muraglie costituisse una difficoltà insuperabile per gli assedianti, che sfiniti avrebbero prima o poi tolto l’assedio, non mancando, anche per lungo tempo, la città di tutti i necessari approvvigionamenti, giungenti dal mare sorvegliato da una potentissima flotta. Ma l’anno seguente, secondo anno di guerra, attraversato il mare, dal Pireo giunse nella città, sovraffollata per la tanta gente dal contado sfuggita all’invasione nemica, la terribile peste.

   “Principio caput incensum fervore gerebant/et duplicis oculos suffusa luce rubentis/. Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae/sanguine et ulceribu vocis via saepta coibat/atque animi interpres manabat lingua cruore/debilitata malis, motu gravis, aspera tactu”. Dapprima avevano il capo ardente di febbre e gli occhi ambedue arrossati per un intenso abbagliamento. Inoltre, le fauci annerite sudavano internamente sangue e si restringeva la via della voce occlusa dalle piaghe e sanguinava la lingua interprete dell’animo, debilitata dal male, appesantita nel movimento, ruvida al tatto. Insiste Lucrezio e riafferma quel che aveva annotato Tucidide, ossia “Tutto il corpo, cominciando dall’alto, era attraversato dal male, che dapprima s’era addensato e rappreso nella testa”.

  “Principio caput”, “cominciando dall’alto”! Era là ch’era venuto meno il principio salutifero, rarefatta saggezza e confusa giustizia, dispersa la medicale scienza, la virtù ispiratrice, il consiglio interiore… il Partenone non era più la sede d’una vergine dea, di Athena Parthènos…la glaucopide nottola era volata via…tra tanto splendore di marmi e d’arte svanito era lo sguardo sereno e veggente! La peste annunciava l’età funesta delle superstizioni, dell’offuscamento dell’intelletto. Il Regimen pestiferum!

   Lo Stato e il suo Popolo necessitano del buon nocchiero per sussistere, reggersi e conservarsi in ottimo stato, immune dai gravi rischi. Ottimo è lo Stato, se in sé osserva e preserva idee di giustizia e verecondia, e vigilante combatte le oscure insidie, confusione, ignoranza, discordia, proteggendo la salute delle genti e il bene del popolo. Se leale custode del suo mos, del suo ius, e d’una immacolata religio; se curatore e custode d’una intatta atavica sapienza, quel mistico giardino ch’è la sua Patria. Tanto vale anche per l’individuo, la persona umana, che deve aver cura del suo Regimen, a capo del quale siede il timoniere, il rector salutis del suo proprio, solus et unus, sistema immunitario, regolatore di armonia tra gli organi tutti, partendo dalla testa ove la mente non sia offuscata o confusa; e sia nella persona concordia tra il viver fisico, il viver etico e civile e la vita dello spirito. Si diceva saggiamente una volta, prima che la superstizione scientistica avesse invasato gli animi sino all’ossessione, “ogni uomo è il medico di sé stesso” e derivava ciò soprattutto dal carattere, ma anche dall’esperienza degli avi e dalla loro intima frequentazione della natura e delle sue divine leggi; essi coltivavano con scienza e coscienza la forza cosmica dell’immaginazione, ché l’uomo può spingere l’immaginazione fino al cielo e imprimervi il suo segno; pertanto, come ammoniva Paracelso, deve porre attenzione a non avvelenare le stelle, poi che avvelenando le stelle rende malato sé stesso. E aggiungiamo noi, può anche cagionare la peste. E così come per gl’individui è anche per i popoli, i quali hanno nel governo e nelle istituzioni dello Stato il loro sistema immunitario, nell’ottima salute, sapienza e prudenza del quale debbono confidare, pretendendone la salvaguardia. Guai a quel popolo che si fa complice della mala medicina di governanti insensati!

 

*

   “A cura delle quali infermità né consiglio di medico né vertù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che la natura del malore nol patisse o che l’ignoranza dei medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femmine come d’uomini, senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per conseguente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno della apparizione dei  sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano”.

   “E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa degli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramente che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate”. E la stringente narrazione insiste: “…non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità e cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare”.

   Brani dal quadro doloroso, come riportato nella descrizione tramandataci da Giovanni Boccaccio, della terribile peste nera, che s’abbatté su Firenze tra la primavera e l’estate del 1348 provenendo dall’Asia. Abbiamo trascelto la narrazione del Boccaccio perché ne fu testimone e colpito di persona, proprio come Tucidide, ma altresì perché, come Lucrezio, poeta. E per quella mirabile congiunzione che si genera tra l’obiettività della narrazione storica e l’intuitività poetica propiziante un’apertura, come già sopra detto, da cui la luce promanante dalla sapiente deità custode della salute e della concordia nella Città degli uomini; e d’essi sia premio alla buona condotta, ma con rigorosa fermezza se ne castighi l’inverecondia e l’ingiustizia. Estrema medicina allora è emendarsi, tocca ad essi sciogliersi dall’abbraccio del greve spettro, liberarsi dallo stato di gravità ch’assedia l’animo e ne offusca la mente.

   E così il Boccaccio enuncia del nero male i sintomi: “Nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femmine parimenti o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E delle due parti del corpo predette infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno”. E grandemente sorprende il narrante la fulmineità con cui il morbo non solo l’uomo, ma il paesaggio coinvolge, cioè le cose, gli animali che lo circondano: “…non solamente l’uomo all’uomo, ma quanto, che è molto più, assai volte visibilmente fece, ciò che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tal infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse”. E, testimone oculare, racconta: “Essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via pubblica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il loro costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossigli alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amendui sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra”.

   A voler confrontare la terribilità della peste del 1348 a Firenze, narrata dal Boccaccio, con quella di Atene nella descrizione tucididea, non pare che l’una delle due sopravanzi l’altra. Non c’è da valutar differenze, tra le mura di entrambe le città s’abbatté il mortal contagio con fulminea terribilità e abissale sgomento. Fuori d’Atene stavano i guerrieri di Sparta che con gli alleati Tebani tenevano sotto assedio quelle altamente fortificate mura, baluardo d’una grande potenza finanziario-mercantile; ma Spartani e Tebani nulla ebbero a patire dalla peste, anzi tolsero l’assedio e lasciarono la città nemica in preda al funereo morbo. Tra quelle mura sarebbe morto, colto dall’implacabile male, pur l’inflessibile Stratego, quel Pericle amante del fasto, che con l’ornamento dell’arte aveva abbellito Atene, ne aveva anche potenziato l’impero mercantile e con un’armata navale potentissima minacciava le popolazioni nolenti all’assoggettamento preteso dalla prepotente Lega Delio-Attica, asservita agl’interessi della plutodemocrazia ateniese.

 

 

FUORI DALLE APPESTATE MURA

 

   “Un mondo afflitto e quasi deserto”, definiva il Petrarca, amico del Boccaccio, quel mondo attraversato dalla peste! Un mondo già troppo affollato, un mondo di magagne, difettoso, gonfio di bramosie. Un ambiente torpido, intorto, corruttibile. Una società bigotta, superstiziosa, imprudente, priva di misura? Sicuramente una gente mossa da ipocrisia e, guardando a fondo, ingiusta e invereconda. Una gente addestratasi a sottilizzare persino su ogni estremo cavillo. Ahinoi, qui si scivola nel vizio del politically correct! Tale, infatti, l’equivoca cultura, l’ambigua intellettualità di quest’ultima contemporaneità. Ehi, accidenti, strisciante, perversa serpe, vi s’insinua persino la pestilenza! Non ci sono cure, la medicina è corrotta, il mercato ‘farmaceutico’ vi ha introdotto la tecnoscienza, un connubio ibrido, il morbo si cronicizza. Regimen pestiferum! Dunque occorre, sì, occorre scamparla, lasciar quelle, queste appestate mura; mura allusive, sì, ma che certamente esistono… e sono un masso enorme, spropositato, che incombe… incombe, sì, sugli animi pavidi! Pavidi di pavore… pulvis es et in pulverem reverteris! Eccomi, sono la peste! E tutta addobbata di nero… la vostra ceca ignoranza sono! La vostra esasperante, indegna superstizione; la peste vera, palese, tangibile, corporalmente palpabile e ho su di voi illimitato, manifesto potere.

   Così la peste ha parlato ierlaltro, oggi, agli uomini, ha voluto far loro intendere che essa s’invera nella stessa tecnoscienza, che ha ai suoi piedi asservita, trepida ancella, la medicina mondiale; che essa, la peste, ha la faccia e la natura stessa del potere; il potere dell’epoca attuale, epoca perfida, sfrontata, impudente.

   “E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e essecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti morti o infermi o sì di famiglie rimasi stremi, che ufficio alcuno non potean fare, per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare”. Questo accadeva ai tempi della peste di Firenze e ce lo racconta il Boccaccio, un fidato osservatore. Ma, per la miseria, oggi, sugli scenari covidioleschi, tutto è rovesciato. Ministri e essecutori e loro segretari e aiutanti son tutti in perfetta forma e in salute, fanno cento decreti e leggi a ogni novilunio, tengono discorsi e conferenze, commemorano, s’incontrano nei convegni, vanno a teatro, si scambiano visite, festeggiano e… i comuni mortali? Eh, quelli son nati per morire! soprattutto se vecchi o malati terminali o altro… quelli, poi, che della Covid non s’ammalano, devono in ogni modo obbedire ai decreti, osservare le misure di confinamento, gli anglici lockdown e, stante l’emergenza ‘variante Omicron’ (XV lettera del greco antico!), sottoporsi al terzo battesmo, anche se obtorto collo; ma il Figliuolo ipse… ab aeterno dixit, e il suo Vicario apposta ha in modo perentorio confermato: “Vaccinarsi è un atto di amore!”

   E allora, come scamparla? Come venir fuori dalla cerchia dell’appestate mura?  Come evitare questa perniciosa influenza così destramente mondializzata? Come sottrarsi al letale  influenzamento d’una ideologia asfittica, tesa a produrre l’individualità indifferenziata, l’uomo senza qualità distintive, senza volontà propria, un automa esecutore di ordini giornalmente decretati. Un uomo senza anima con mente collettiva telecomandata. Un superstizioso, entusiasta credente nella tecnoscienza, la quale è nelle mani di un unico dio e dei suoi pochissimi eletti, i cosiddetti sc(i)enziati! L’uomo privo d’un proprio governo interiore, in balia d’un contagio annualmente programmato. Il recluso tra appestate mura e sotto la diuturna minaccia dell’appuntito aculeo, il vaccinostilo. A meno che…

 

   … “nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona – racconta il Boccaccio—, si ritrovarono sette giovani donne tutte l’una all’altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea, né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà.” Il Boccaccio non vuol dare di esse il nome vero, ma attribuisce loro nomi, ch’egli ritiene “alle qualità di ciascuna convenienti”. Pertanto “…la prima, e quella che di più età era Pampinea chiameremo e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l’ultima Elissa non senza cagione nomineremo.” Non senza cagione: infatti il nome della giovanetta che chiude la fila stava a denotare la perfezione dell’animo delle componenti il gruppo, e con Elissa intendeva significare una mente desta e quindi un animo attivo, danzante. D’altronde, tutti quei nomi indicano un eletto sentimento di vincolante amicizia, d’amore risanatore, a iniziare dalla “regina” del gruppo Pampinea, nome che accenna al pampino quindi al rigoglio della vite nel raggio gioioso dell’astro solare, una mente attenta al libero consiglio del sole.

   Savia ciascuna, di sangue nobile, bella di forma, ornata di costumi e di leggiadra onestà, un gruppo di donzelle affabili e gentili, dalla mente aperta e coltivata. Richiamano alla mente il culto antico della dorica Athena Parthènos, la vergine dea glaucopide dei tempi d’un’Atene felice, molto prima della città di Pericle, e la stessa Minerva romana, dea guerriera, della saggezza, della medicina. Ed eccole, queste nobili ancelle di Minerva, lasciata da parte ogni superstizione, sedute in cerchio ascoltare il casto discorso scaturente dalla eletta mente di Pampinea: “Donne mie care, voi potete, così come io, molte volte aver udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la ragione. Natural ragione è, di ciascun che ci nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedi che noi possiamo?” Incita pertanto le amiche a non lasciarsi vincere da ritrosia e trascuranza, a non abbandonarsi alla sventura e a decisamente sottrarsi a quel contagioso influsso, essendo esse nella condizione di poterlo fare. “Io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come altri innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri, onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce n’andassimo a stare, e quivi quella festa, quell’allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcun atto il segno della ragione prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramente ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancor che crucciato ne sia, non perciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vòte della nostra città; e évvi, oltre a questo, l’aere assai più fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi  v’è la copia maggiore, minore il numero delle noie. Per ciò che, quantunque quivi così muoiono i coltivatori come qui fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere quanto vi sono più che nella città rade le case e gli abitanti. E qui d’altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate. Niuna riprensione adunque può cadere in tal consiglio seguire: dove dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire.”  

   Un giusto, prudente consiglio porta a virtuosa risoluzione; il succo del discorso di Pampinea è decidersi a scegliere, prendere subito la via della salvezza: l’andar via onestamente perché vantaggioso e decoroso, quanto dannoso è lo star disonestamente, il permanere nel Regimen pestiferum. Il non saper e non voler contrastare l’ideologia dominante, inerte modello di vita, secolare stereotipo nutrito da un ristagnante psichismo, che con una artefatta serie di fattori culturali, religiosi e sociali, roba da niente e vecchia come il cucco, tiene asserviti gl’ individui, singoli e in gruppi; il tutto preparato e orchestrato con potenti mezzi di comunicazione di massa. Tanta ignoranza e passiva accettazione provoca l’invilimento degli animi, l’offuscamento delle menti, lo squilibrio della psiche e l’indebolimento della fisicità con l’arresto della funzionalità del sistema immunitario. La soppressione totale della libertà spirituale dell’uomo, la paralisi dell’anima, addirittura la costrizione dei suoi caratteri costituzionali, con riferimento sia alla costituzione psico-fisica individuale, sia a quella socio-familiare. L’individuo privo di autonomia, senza capacità di scelta, dal comportamento facilmente influenzabile. Suddito esemplare d’uno strano, alieno potere che emana decreti vaccinali. . . ma pur febbri maligne, febbri pestilenti.

  E noi, nonostante i trascorsi secoli e le tante pesti, evochiamo dalle pagine boccaccesche, Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile ed Elissa? Sette ancelle d’una Minerva medica, dea che dal mondo ha distolto il suo glaucopide sguardo, acuto come l’occhio della nottola che le pupille affonda nelle notturne tenebre? Ma sentila! è la voce del progresso che strilla: ‘i medici d’oggi sono tutti istruiti dai grossi monopoli farmaceutici che inondano il pianeta giornalmente di farmaci e vaccini…’ Va bene! Ma a noi piace tanto quel Palagio in mezzo d’una verde, salutare collina che da Firenze distava alcuni chilometri, dove le sette amiche dimorarono lontano dalla peste, protette da Dioneo, Filostrato e Panfilo, amorevoli e valorosi giovani, di sé stessi virtuosi medici, e quindi degni di virginale compagnia.  Sì, a noi piace quel Palagio lontano dal mondo corrotto e abbrutito dalla peste, anche perché ci ricorda il Palatium, il nome del Monte Palatino a Roma, dove un tempo risiedeva Palatua, antica divinità campestre della Saturnia Tellus, protettrice dei pascoli e di biade e del fieno. E di tanto, edotto doveva essere il Certaldese, e a saturnio asilo, benefico e sicuro, volle affidare quelle giovani vite in cerca di sanità per le loro menti e i loro cuori. Menti caste e cuori amorosi e leali, di salvezza degni! Anime affidate al genio d’un gentil poeta, che indenne attraversò anch’egli la dira peste.

   E il gentil poeta che conosceva i miti e i classici greci e latini, quindi quell’antico mondo, sapeva bene dove attingere in sapienza. Le donzelle adunatesi e in cerchio, come sopra si è letto, sedute nella venerabile chiesa fiorentina per una funebre funzione, a fede del narratore, “lasciato star il dir de’ paternostri, seco delle qualità del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare”. Con la bigotteria, con il vano pregare, mera superstizione, non si può affrontare la pestilenza, impedire l’offuscamento delle menti, l’indurirsi dei cuori. Perciò, “a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la ragione”; quindi occorre alla pestilenza opporre la “natural ragione”, quel principio razionale che è connaturato all’essenza uomo, che gli deriva da scienza e conoscenza che in sé stesso l’uomo coltiva, dalla propria condotta e norma di vita, dall’aver saputo disciplinare la sua natura, educare le sue inclinazioni; “alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedi che noi possiamo”, acciò siano con il raziocinio ben misurati e rapportati, dopo attenta riflessione e argomentazione attuati, insomma validi secondo ragione, e in verità, contemplando giustizia e verecondia. Di qui, la pretta ratio romana, che richiedeva l’honeste vivere, cioè senza arrecare nocumento agli altri, e quindi il suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo. Di lì, la inviolabile libertà del retto civis romanus, dei Liberi, figli di Liber pater, ch’è Marspiter, che è SOL. L’invictus, il primus Auctor triumphi! Di lì, la suprema libertà della romana civitas.

 

Viveva da principio sulla terra

Degli uomini stirpe priva di mali,

Stirpe ignara della dura fatica;

Sconosciuta, allora, la dira peste…

All’inizio un’aurea stirpe d’uomini,

Di Crono ai tempi era il regno del cielo;

Senza angosce passavano la vita

Né quelli indeboliva la vecchiaia.

Festosi, lunghi erano i loro giorni,

Senza lutto, lontani dai malanni,

Morivano come presi dal sonno.

Feconda la terra offriva i frumenti,

Spontanea donava frutta copiose.

Godeva in pace la gente quei beni…

 

                          Esiodo, Opere e Giorni

 

   “Io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri, onestamente ai nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce n’andassimo a stare.”

   Il Certaldese ben conosceva, certo aveva dimestichezza con l’Ascreo, quel poeta antico nato a piè dell’Elicona, il monte delle Muse. In quei giorni terribili di nera peste e di abbrutimento umano, tra le mura deserte d’una città senza più civile Governo e interamente abbandonata a un Regimen pestiferum da fuggirsi come la morte, non vide altro da opporre a quel deserto che il mito esiodeo. Il suo animo e la sua mente rettamente maturati al lume della natural ragione tendevano alla ricerca dell’aureo seme della salute, d’un aureo ideale. Indubbiamente d’ispirazione esiodea è il discorso di Pampinea, la Bacca solare, brillante d’ariosità, di luci, di bellezze eterne non negate dal cielo, ove la natura è prospera e viva, verdeggiante di pascoli; ove la stessa morte è benevolente, blanda, come lo era per gli uomini dell’Età aurea.

  E Saturno era il re di quella Età. Il suo regno era ospitale e lui stesso dispensava doni regali. Dappertutto tra gli uomini, Verecondia, Giustizia, Rispetto, aurei doni! Tramanda Macrobio: “… grazie a quel Principe da una vita grama, informe e oscura ci elevammo alla conoscenza, alla luce e apprendemmo le arti.” La sua Sede era tra il Gianicolo, i Monti Albani e i sacri Colli di quella che sarà poi detta la Città Eterna, da lui prendeva il nome quella terra, la Saturnia Tellus. Era il suo Reame. Ed è lì che ancora s’asconde. Sua figlia era l’antichissima, quanto il fuoco, dea Vesta.

   A Roma, i Saturnalia erano la festività centrale di dicembre, rievocavano il dio che tutto rigenera, Saturno. Rievocavano l’aurea Aetas.

 

 21 dicembre 2021 – solstizio d’inverno – dies Martis

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XXI DECEMBER MMDCCLXXIV aUc

 

21 Dicembre 2021